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Il Teatro degli Anonimi
Il Teatro degli Anonimi
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E-book177 pagine2 ore

Il Teatro degli Anonimi

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Info su questo ebook

Quando aspetti un amico. Mentre sei in viaggio. Prima di eventi importanti. Leggere racconti riempie la vita, e in questa antologia ne trovi venti. Il mondo, visto con gli occhi dell'immaginazione, è un grande teatro di attori senza nome.Trovi qui un circo strepitoso, un cinema senza schermo, fantasmi, amori e ricordi. Talvolta si ride, talvolta ci si commuove, quindi si passa oltre, al prossimo scenario fantastico. Partecipa alla rappresentazione!

LinguaItaliano
Data di uscita2 set 2015
ISBN9781311159991
Il Teatro degli Anonimi
Autore

Gaspare Burgio

Ho compilato oltre duecento racconti, che ho raccolto in varie antologie tematiche, soprattutto di genere reale fantastico, horror e fantascienza ironica. Quando posso, scrivo articoli per altri blog o leggo opere altrui che mi sono inviate per avere consigli. Partecipo attivamente a gruppi online che riguardano proprio questi temi. Sono impegnato adesso nella stesura di un romanzo piuttosto interessante. Se continui a seguirmi ci saranno di certo aggiornamenti al riguardo.

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    Anteprima del libro

    Il Teatro degli Anonimi - Gaspare Burgio

    Prefazione – Sara Abate

    C’è un luogo della Psiche in cui le storie sono più libere. Confina e si sovrappone, da un lato, con l’Inconscio, calderone di fenomeni disordinati e indecifrabili, tanto da esser dati per pericolosi. Sull’altro fronte, confina e si sovrappone con la Coscienza, proprietà emergente dell’apparato che pensa i pensieri, limitata dalla sua stessa funzionalità: per tutelare, necessita di schermare e semplificare, talvolta di forzare in categorie ed escludere. Tra l’uno e l’altro v’è quella piattaforma chiamata Preconscio, fucina di contenuti che, pur essendo propaggini dell’Inconscio, in potenza vinceranno le censure e diverranno pensieri. In questo laboratorio, ciò che è pericoloso appare come seducente, perché è al contempo viscerale e lontano, riferito o riferibile alla sfera della fantasia. È il regno dei sogni ad occhi aperti, del dormiveglia, di quello stato di coscienza attutito, come nella sala buia del cinematografo. Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com'è, perché tutto sarebbe come non è! Ciò che è, non sarebbe e ciò che non è, sarebbe! recita Alice, nel paese delle meraviglie. Così è il Preconscio: tutto è coinvolto in un movimento non teleologico e le strutturazioni logiche sono vissute con la leggerezza del provvisorio. E se fosse che?. In questo regno, i contenuti inconsci possono giocare a cambiarsi d’abito infinite volte, fino a scoprire quello più appropriato per mostrarsi alla luce del sole. Tra questi contenuti, ve ne sono di individuali, risultato dell’esperienza specifica di una determinata persona; altri hanno carattere d’universalità, archetipi dell’inconscio collettivo che scaturiscono dall’appartenenza stessa alla specie umana.

    Le storie che ci accingiamo a leggere ci portano in questo regno. Condotti per mano dall’autore, ci immergiamo in questa atmosfera sottilmente onirica e ci troviamo sedotti dal piacere del fantasticare sicuri, vigilati dallo sguardo di chi sa quel che sta facendo. Accomodati su una giostra senza tempo, sospinti da questa narrazione schietta ma rassicurante, incontreremo personaggi circensi, ragazzini curiosi, donne ammalianti ed evanescenti, reietti, fantasmagorici misteri, nonsense, paradossi, drammi, leggende, amori, colpi di scena. Gradualmente, il moto della giostra sarà anche per noi inerzia e riconosceremo questo mondo come nostro mondo fantasmatico: saremo così noi a spingerci oltre nelle storie, a chiederci e se fosse che?, a ritrovare parti e istanze della nostra Psiche, probabilmente sacrificate alla causa dello stare al passo con la concretezza della realtà. Ed è così che il viaggio in questo regno ci procurerà una ricchezza: la ricchezza di sentirsi parte, in qualità di incarnazioni dell’Umanità, del grande e variegato spettacolo che essa, nel suo tentativo di eludere il paradosso dell’essere finiti, costituisce.

    Sara Abate

    Il Più Grande Spettacolo al Mondo

    Arrivò di colpo il Circo Mintrigo. Un buffone alla volta: prima uno, poi tre. Li mandavano avanti, che tanto erano senza vergogna. Gialli o rossi, con le frange dei vestiti sporchi, le scarpacce polverose. Il trucco in faccia articolato, ma questi dettagli pezzenti che non si reggevano. Così, nel loro urlare oh! e urlare ah ah!, camminando a piedi alti, non fregavano nessuno. Seguiva un liofante deperito: portava la palandrana scarlatta con disonore. Se mi vedessero altri elefanti, pensava. Quindi la banda, ch'eran due indiani col tamburo e fine là. Il resto degli artisti seguiva alla distanza, in camionette colorate.

    Lo spettacolo non piaceva per nulla: l'anno precedente era stato un mezzo raggiro, così gli abitanti della zona lamentarono la puzza del fieno, ma non gioirono l’aroma dei popcorn. Il Circo s’insediò alla chetichella nel vasto parcheggio dietro gli ipermercati, nella zona industriale: il tendone fu issato in fretta e furia tra foglie di cavolo orfane e ciminiere. Pareva un fungaccio cresciuto nottetempo.

    Nanerottoli e africani giganti spediti in missione tappezzarono la città di manifesti, a gruppi affiancati se c'era il posto: cavalli bianchi, un signore con la tuba e la giacchina rossa, due ballerine scintillanti, una tigre ferocissima. Il titolo sopra, a caratteri floreali: Mintrigo. In basso, in un rettangolo fosforescente, data degli spettacoli e prezzo d’ingresso. Dopo tre giorni la gente non ne poteva più dei manifesti: li strappava, li copriva con altri o ci disegnava cose volgari col pennarello.

    Il Più Grande Spettacolo del Mondo aprì i battenti alla data convenuta (quella del riquadro fosforescente), ma pressappoco. Senza entusiasmo. Perché andava fatto e ormai che erano là, tanto valeva. Nessuno s’immaginava quella gran folla che invece giunse e perfino l'uomo dei biglietti fu contraddetto. Strappava e strappava, vedendo allungarsi la fila all'ingresso e chiedendosi cosa fosse saltato in testa alla gente. Compravano palloncini, popcorn, zucchero filato: insomma, facevano il pubblico dabbene. Sciamavano nel tendone e si disponevano sulle pancacce di legno, messe a fare colosseo intorno a un cerchio di rena puzzolente.

    Il Direttore, sbirciando dalla tenda del proscenio, guardava esterrefatto la folla assiepata che pareva in attesa.

    «Ma tutta questa gente che è venuta a fare? Non è che hanno sbagliato?»

    Verificò uno dei manifesti, pensando che per errore ci avessero dipinto promesse che non erano in grado di mantenere. Erano i soliti manifesti di ogni volta. Qualcuno disse: è arrivata la grande occasione. Impegniamoci e cerchiamo di fare un bello spettacolo, almeno una volta in vita nostra!. Questo accese entusiasmi, orgogli repressi, senso del dovere. Il Direttore passò allora in rassegna le truppe spettacolari. Si assicurò che tutto fosse in regola, che i pagliacci e i mangiafuoco fossero motivati, che i cavalli fossero lucidi, che la cravatta sua avesse il nodo perfetto. Sciolse i muscoli, poi fece un cenno alla banda.

    Le attrazioni umane, equine o feline entrarono d'un botto in scena. Con impennate, capriole, fiamme. Il Direttore corse in mezzo all'arena, saltò sopra il piedistallo suo, allargò le braccia e urlò raggiante: «Signore e Signori, il Circo Mintrigo!».

    Silenzio.

    Il pubblico non dava cenni di interesse. Non un Bravi, non un Oh!

    «Il Circo Mintrigo!» ripeté il Direttore. Nessuna reazione: manco un timido applauso. I pagliacci allora smisero di prendersi a calci, le cavallerizze di impennare, Gonzo l'Ammaestratore di incitare i pidocchi a frustate. Restarono perplessi: il pubblico c'era, ma li ignorava. Invece di guardare la rena sudicia e gli artisti, si guardavano fra loro. Con l'espressione stupefatta. Alcuni, bambini per età o bambini in spirito, stavano a bocca aperta, le mani al mento. Certi erano sorridenti, pressoché estatici, le mele caramellate prese a morsi.

    Gonzo provò a schioccare altri colpi di frusta per attirare l'attenzione. Macchè. Quelli mangiavano schifezze e mentre masticavano si osservavano gli uni con gli altri. Rapiti, fascinati.

    Poi si cominciò.

    Con le mille ragazzine del telefono cellulare, che musicavano la scena con cascate di note squillanti e giochi di luce dagli schermi.

    Lo studente di ingegneria esitava a prender la mano della bionda che gli sedeva accanto. Tutti quanti là, a tenere il fiato. Che ce la fa o no? Che ci arriva? Oddio, non c'è la rete sotto. Esita? Si butta? Un volo e... ecco, la raggiunge!. Applausi accorati.

    Il padre pancione rosso in volto, gli è andata di traverso una cingomma: manda versacci rochi, agita le zampone. I vicini di panca sobbalzano, lo temono. Eroico, il bambino s’infila nelle fauci del babbo, mani e testa, quindi ne esce illeso, sollevando il dolciume tra pollice e indice, come in un prestigio. Il babbo ammansito.

    Quelli del pubblico risero poi a sganasciarsi, per il signore che versò l'aranciata in capo a quello davanti. E la vittima, per dargli lezione, si sbagliò e mollò una bussa a un gigante irascibile. Un parapiglia.

    C'era poi la signora coi cinque figlioli che si lamentavano e per sistemarli li passava uno sopra l'altro, sotto, per aria, di mano in mano, argomentava cinque panini per volta e uno per sé, più grande, che roteava nel mezzo. Non gli cadde una briciola e neppure un figliolo. Tripudio degli astanti.

    L'uomo delle dieci amanti, per non farsi riconoscere, balzava dall'una all'altra fra le panche, riuscendo a cambiarsi d’abito in un baleno quando non veduto. In un attimo era brigadiere, banchiere, arlecchino, farabutto.

    La ragazza con gli occhiali e tanti spasimanti che la assediavano, raccolte letteracce d'amore che non voleva, le strappò e ne fece neve, poi ne fece uccelli da lanciare in volo, ne fece barche da mandare lontane, ne fece perfino cani arrabbiati. Ne fece un panorama esotico di carta animata a riempire il tendone a mezza altezza, per lo stupore generale.

    Il ragazzo abile di mano che ecco! Osservate bene. Nessun trucco. Sparito l'orologio, andato il portafoglio. Ma che bravo! E ora?. Sparito lui.

    Infine quella donna grande come un pianeta, bella da morire, che per dichiararsi all'amore suo prese la rincorsa e saltò. Un volo, tre carpiati, leggera come fosse di carta velina. Sorvolò il liofante depresso, i cavallini smenci, i buffoni. Si fece il perimetro intero dell'arena in assetto aerodinamico. Atterrò nelle braccia di lui, l'amato, che l'accolse volentieri, lasciando di stucco la moglie troppo secca. Boati di giubilo.

    Il Direttore del Circo Mintrigo si tolse la tuba e si grattò il capo. Mai visto nulla del genere. O erano impazziti o chissà cosa: s'applaudivano fra di loro per le cose di ogni giorno. Uno dei pagliacci tirò lui l'orlo dei calzoni: «Capo, a quanto pare si sono accorti d'esser spettacolari pure loro».

    «Ah…» trasalì il Direttore, formulata a quel punto la circostanza. «Va be’, significa che siamo disoccupati. Meglio di nulla, almeno son contenti».

    Invitò i buffoni e gli artisti a sedersi prossimi. Mangiando bruscolini, guardavano rapiti quell'incredibile spettacolo.

    Non mi piace il suono che sta facendo

    Diceva Carlo, la lanterna in mano, mentre scendeva per i gradini umidi: «È qualcosa di straordinario, dovete proprio vederla...». E andava giù, un gradino alla volta, tra pareti muffite. Dietro di lui otto sconosciuti. Chi volenteroso, chi meno, di vedere la grande meraviglia promessa. Per tutti loro il programma della notte consisteva nel bere qualcosa ai tavoli della Locandaccia, in perfetta solitudine, quindi andarsene a casa con un nulla di fatto. Com'è che, invece, seguivano la lampadina, attenti a non scivolare sulle pietre lisce? Vedrete, una gran meraviglia, è una notte speciale. Chiudo su e andiamo di sotto a vederla. Così Carlo li aveva convinti. Come obbligati, in verità. Appoggiavano le mani ai mattoni bavosi, respiravano l'aria stantia, mugugnavano. Erano otto, di varie età e diversa apparenza, con otto motivi per dire: no, Carlo, è meglio di no. Lascia perdere, abbiamo altro per la testa. Ciascuno aveva pensato: un altro lo dirà… un altro di noi prenderà posizione. Così, insolventi, si erano lasciati infinocchiare.

    Al termine della scala v’era una porta di ferro con rinforzi, che si apriva con chiavi e numeri. Carlo teneva la lanterna tra le gambe mentre spingeva, inseriva, ruotava e digitava. Alle sue spalle, gli otto della Locandaccia speravano che la porta non si aprisse. Va bene, Carlo, ci hai provato. Lasciaci andare. Invece la porta si aprì. Era così robusta che Carlo dovette fare forza con le due braccia per spalancarla. Nel mentre sorrideva compiaciuto. Una notte speciale, sbuffò. Entrò solerte e accese la luce. Già dalle scale s’intravedevano gli scaffali ordinati, zeppi di bottiglie. Dalle più nuove alle più vecchie. Dalle nipoti alle prozie. Erano scaffali pensati apposta, con ripiani scanalati, così che le bottiglie dormissero con il collo dritto, mostrando il sedere. Perfetto per la lombalgia. Carlo invitò tutti, li lasciò passare, si sentì beato di presentare il suo museo a larghi gesti. Ce n'erano di vecchi italiani, di eleganti francesi, qualche greco sparuto e un'infinità di altri. Alcuni aspri, certi dolci. Tutti dormivano il sonno dei giusti. L'aria era fresca, umida e odorava assieme di polvere, di fungo e di legname bagnato. Ma non troppo. Dal soffitto ad archi di pietre annerite penzolavano lampadine bruciate. Un poco dappertutto si vedevano ragnatele uniformi, come pezzetti di carta grigia. Sul pavimento giallo c'erano crepe, botti e sgabelli di legno.

    Carlo volle essere seguito ancora. Scortò la compagine al fondo della cantina, dov’erano sistemate le uve preistoriche, sigillate nelle bottiglie con cera e spago; con le etichette ingiallite, i nomi svolazzanti. Sulla parete di fondo spiccava una cassaforte con due rotelle. Carlo soffiò via le ragnatele impolverate, fece largo su un basso tavolino a fianco, che avrebbe dovuto ospitare il tesoro di quella notte, agì sulle ruzzole numerate, quindi aprì lo sportello. All’interno v’era un fagotto, posato tra due cuscini.

    «Ecco l'ultima meraviglia del mondo».

    I convitati fecero cerchio intorno al tavolino. Sotto il cencio, s’intuiva la sagoma di una bottiglia: stretta in cima e più larga in fondo. Carlo sollevò le maniche come il migliore dei prestigiatori, afferrò il panno per la cima e quindi, con un gesto eclatante, tolse il sudario magico. Si sentì un grosso colpo: meno di un tuono, ma più di una portiera sbattuta.

    «È una bottiglia!» disse una degli otto: una ragazza bionda, graziosa, piuttosto innocente. Credeva d’aver indovinato qualcosa di difficile.

    «È una bottiglia con delle cozze attaccate» specificò un altro.

    Carlo parlò: «Questa è l'unica rimasta delle Cantine Verlion, annata 1899. Forse tanto vecchia non è, ma state a sentire. I Verlion non facevano vino, ma si divertivano con l'aceto. Erano pazzi. Un giorno uscì loro male e imbottigliarono questo, che, fatalità, è considerato il miglior vino di sempre. Il più buono. Se ne bevi poco è leggero, da ballo a corte. Due dita in più e diventa da pasto. Puoi berlo piano, succhiando sopra la lingua, e saprà di bacio di donna. Lo mandi giù a garganella e ti diventa carne di cinghiale. Lo bevi con un Mont-Blanc? E sa di more. Lo metti in un motore? E quello fischia e parte come una benzina da Gran Premio. È un vino folle. Se lo spruzzi per aria, ricade come coriandoli. Tanto piaceva che lo vollero al Congresso Americano. I Verlion, che non

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