Sirena: Viaggio umoristico nel ventre di Napoli
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Info su questo ebook
Apparentemente è qui per una sola ragione: scrivere una guida turistica. Con questo spirito e queste intenzioni, parte alla riscoperta di una zona della città che comprende ben presto non aver mai conosciuto davvero.
Durante il viaggio, a piedi o a bordo del pittoresco e imprevedibile tram L3, è accompagnato da due ragazzi, Nino e Ninetta, che gli mostrano la Sirena di oggi. A ogni fermata si imbatte in monumenti dimenticati, personaggi di una volta, carte e storie di una Napoli forse non così lontana come si direbbe. Ma qual è la vera ragione per cui Graziani è tornato, e cosa lo aspetta alla fine del viaggio?
Ricorrendo a vari stili e registri, attraversando diversi generi letterari ed epoche storiche, Aurelio Raiola accompagna il lettore in una discesa vertiginosa nell’oleografia di una Napoli descritta come mai prima: una cartolina dai colori opachi ma ancora vivissimi, percorsa da una tarantella antica eppur nuova, vissuta da donne e uomini di carne e cartone, fantasmi dalla normale eccezionalità.
Perché niente, a Sirena, è esattamente quel che sembra.
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Anteprima del libro
Sirena - Aurelio Raiola
Dieci
La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.
Dieci volumi ogni anno, con le prime 50 copie numerate a mano.
Homo Scrivens
Direttore di collana: Aldo Putignano
Editing: Aldo Putignano
Revisione bozze: Francesca Gerla
Copertina: Ugo Ciaccio
Autore: Aurelio Raiola
Titolo: Sirena
Viaggio umoristico nel ventre di Napoli
ISBN 9788832783506
I edizione Homo Scrivens, aprile 2014
I edizione ebook, maggio 2023
©2023 Homo Scrivens s.r.l.
via Santa Maria della Libera, 42
80127 Napoli
www.homoscrivens.it
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)
Aurelio Raiola
Sirena
Viaggio umoristico nel ventre di Napoli
logofrontespizioPer Anna e Tonino
per sempre
ARRIVO
Incastrato. Senza via d’uscita. E schiacciato, calcato, tutt’uno con una massa informe che occupa ogni spazio vuoto, rumina ogni spazio pieno e suda per riempire tutti gli interstizi. Che sfida ogni legge fisica, che irride l’impenetrabilità dei corpi e crea nuovi incroci tra genti, nuove soluzioni di arredamento, nuove posizioni che avviliscono il kamasutra.
È maggio, ma il tram 1 che mi tiene in ostaggio gode di un microclima regolato fisso su ferragosto. Fuori c’è un sole giovane e bello dal sorriso aperto che se la intende col cielo azzurro, e ogni giorno decidono insieme che Napoli debba essere la città più bella del mondo. Peccato che il tram abbia altre idee in merito. Dagli aeratori arriva, ininterrotta, un’aria untuosa e calda. Vorrei scappare, uscire fuori e spegnere il phon, perché di sicuro c’è un phon, non c’è altra spiegazione, un gigantesco phon di quelli professionali a tremila watt che al mattino mi scolpiscono una capigliatura alla Einstein e fanno saltare sempre il contatore. Vorrei scappare, ma non è possibile: tra me e l’uscita ci sono infinite molecole chiatte, intronate da troppi caffè e convertite da sempre al culto del facite ammuina. Vorrei ma non posso, e più che un’aspirazione sembra un cartello attaccato a mo’ di bavaglino da quando sono nato.
Che cazzo ci faccio qui?
Ho la mente annebbiata, non sono più abituato. Respirare è possibile, ma non troppo. È esercizio difficile, per solutori più che abili. Ci vuole una perfetta sincronia, il diaframma che richiama aria al ritmo sincopato del respiro altrui. Ho una valigetta ventiquattrore di un giovane commercialista che ha trovato una comoda sistemazione sui miei reni e una settantadue ore che un avvocato anziano mi ha poggiato sui piedi usandomi come carrello vivente. Sono un pezzo di un puzzle, un tassello di un mosaico strambo e irreale. Mi guardo intorno e vedo gli altri impassibili. Professionisti, altro che storie! I passeggeri del tram 1 sono avvezzi all’incastro, campioni mondiali assoluti di Tetris vivente. Il mio ginocchio destro, ad esempio, è stato accolto con rispetto e devozione dal décolleté di una zizzona dei quartieri spagnoli dall’aria bionda e svagata. Vorrei godere dell’indubbio effetto erotico della posizione, ma sono svagato anch’io. Non biondo, però. Almeno non più.
E allora, che cazzo ci faccio qui?
Una spinta mi distrae da domande stupide, ma non riesco a capire da dove arrivi. Certo non dalla zizzona, occupata a massaggiarmi il ginocchio. È piuttosto un’onda tumultuosa, una scossa sussultoria che serpeggia per tutto il tram. Che ci prende, sobbalza, sbatte gli uni contro gli altri. Violenta, prepotente. Alzo gli occhi e vedo la fonte: due uomini in giacca blu e camicia celeste, al collo il borsello d’ordinanza.
«Biglietto, prego…»
Due controllori. Con questa folla, com’è possibile? Circondano un turista alto e pingue, con maglietta e cappello verde militare, la mano sinistra a cercare appiglio e la destra a proteggere una tasca dei pantaloncini caki.
«Biglietto… dovete passare il biglietto nella macchinetta…»
E smanacciano, sgomitano, stringono il malcapitato in spire sempre più avvolgenti.
«Ce mancava ’a mazzamma, stammatina!» sospira, ma non troppo, una voce femminile dal fondo del tram.
«Mister… signore… il biglietto…»
I due continuano a strattonarlo senza pietà, le mani a cercare varchi nelle tasche. Io sono immobile, non respiro eppure ansimo, fermo impietrito davanti a un borseggio insolente e brutale.
Il mister turista è gonfio di rabbia e paonazzo, mortificato dall’assenza di aiuto, mentre cerca di difendere moglie e portafogli. Ha capito tutto, molto più di me che resto attonito: lui ha le prove addosso. La moglie in canottiera rosa cerca solidarietà con gli occhi, ma in troppi abbassiamo impotenti lo sguardo. Le spinte incalzano, premono, fanno male. Mi arrivano gomitate dai borseggiatori e dai miei sensi di colpa. Mi lavorano ai fianchi, mi tolgono l’aria. La zizzona continua la sua distratta e preziosa opera sul mio ginocchio, mentre vorrei lanciarmi su quei due, gridare la mia vergogna e liberare il prigioniero. Ma i due ormai gli sono sopra, intorno e in ogni luogo, e le difese stanno crollando. Alzano la voce, si fanno sempre più addosso, sono quasi al malloppo.
«Biglietto biglietto» intimano alla vittima e poi, girando lo sguardo intorno «… ccà quaccheduno non si sta facendo i fatti suoi…»
Polpi, non esseri umani. Scivolosi, viscidi, minacciosi. Ho sempre avuto paura dei polpi, fin da quando uno mi afferrò, bambino, la caviglia. Pensai di morire, trascinato nel ridicolo sotto mezzo metro d’acqua da una piovra enorme e viola. Ma sono qui, sopravvissuto e qui. La piovra era una polipetto affogato e questi due non possono terrorizzare un tram intero. Ho deciso, mi butto.
«Scusate, posso chiedere un’informazione?» chiedo, cercando di mimare il più possibile un accento milanese che non mi è mai entrato dentro, ma ottengo lo scopo, si fermano.
Mi guardano stupiti, come il bambino di fronte a ET. Molto stupiti, non sono abituati a una disdicevole ingerenza. Troppo stupiti… perché aprono la bocca e non parlano?
Non ho il tempo di aspettare una risposta, alla mia domanda fessa e retorica, che una valanga mi travolge. Un maglio d’acciaio mi colpisce alla schiena. Si conficca nei muscoli dorsali e spinge. Spinge. Spinge senza sosta. Sento di svenire. Perdo il senso dell’orientamento e il respiro, vengo sommerso, vado sotto, il maglio umano spinge ancora e ancora, investo persone camicie scarpe gonne e magliette, travolgo tutto quello che trovo davanti, anche le mie paure e i due borseggiatori in divisa. Che restano immobili, zittiti, sepolti. Ma la valanga non si ferma.
Il tram arriva all’ultima fermata, il conducente apre le porte e catapulto mister turista e coniuge fuori dal tram, fuori dalla zona pericolo, fuori da uno spazio chiuso di ignavia e vergogna, mentre una vocina sentenzia: «’A mazzamma nun ce piace, puah!» Proviene dal fondo del tram, appartiene a una vecchina storta e minuscola sbracciata come una lavandaia, che si ravvia i capelli bianchi raccolti in una crocchia scomposta, prende il trolley con la spesa e si allontana salmodiando improperi contro ’e ggiuvane ’e mo. Non è possibile che sia stata lei a produrre lo tsunami che mi ha lanciato come un giavellotto contro i due ladri. Eppure sono saltato loro addosso senza avere capacità né intenzione. Eppure ho sentito la spinta irresistibile della corda tesa da troppi viaggiatori oppressi da sempre trasformarmi in freccia e colpire. Eppure… eppure sono arrivato a Sirena.
Con i due in rapida fuga, evocando minacce, e la zizzona accanto a me, per terra, finalmente sganciata dal ginocchio ormai in necrosi per mancanza di ossigeno. Le porgo una mano per aiutarla ad alzarsi, e mi accorgo solo ora di quanto sia bella. Trattengo la mia mano nella sua un istante di troppo per serbarne il ricordo, mentre il sole alle mie spalle, spuntato da poco dall’ombra del Vesuvio, le disegna un sorriso dolce e luminoso. Sono mancato per troppi anni, ma non ho mai dimenticato quanto le donne di Napoli siano tutte, nessuna esclusa, una sirena. Ma senza la condanna dell’oblio.
E ora ricordo che cazzo ci faccio qui.
SIRENOPE
Le chiamano ancora oggi le gemelline della rete, perché adoravano giocare con le reti dei pescatori. Soprattutto di notte, quando anche il più temprato dei lavoratori del mare si lasciava sedurre dalla stanchezza e finiva per allascare la rete; a quel punto, le gemelline allargavano le maglie e liberavano tutto il pescato: guizzante pesce di paranza, triglie dagli occhietti svegli, seppie tentacolari, alici, mezze alici e alicelle. In cambio, però, lasciavano sempre un dono: una conchiglia, una piccola perla nera oppure un biglietto con scritto Pesce d’aprile
. Dipendeva dalle stagioni. I pescatori, uomini rudi e non avvezzi alle raffinatezze letterarie, preferivano però le perle ai pizzini.
Partenope e Sirenope, così erano conosciute nel globo acqueo, erano cugine di primo grado e in qualche modo complementari: l’una amava il canto, l’altra passeggiare sul bagnasciuga; l’una preferiva gli spaghetti alla chitarra, l’altra la chitarra agli spaghetti. Non potevano essere più diverse, eppure non potevano vivere l’una senza l’altra. Nate nello stesso giorno dello stesso anno, avevano frequentato sin da piccole le stesse scuole: l’asilo dalle pinguine dell’Ordine delle Adoratrici dello Stoccafisso, le elementari alla scuola Nemo e le medie alla scuola Moby Dick. Ora erano iscritte entrambe all’ultimo anno del Liceo sperimentale con indirizzo ittico-pedagogico Acqua Pazza. Erano talmente in simbiosi che Partenope parlava per entrambe, al punto che durante le interrogazioni Sirenope bisbigliava la risposta nelle orecchie di Partenope e quest’ultima rispondeva ai professori.
Crescendo, erano diventate due pezzi di figliole, nel senso letterale del termine, ed erano le più corteggiate della scuola. Vivevano quell’allegra e scanzonata stagione che ti fa preferire una vera amicizia al più romantico degli amori.
Festeggiarono poi la maggiore età con una solenne sbornia al Bar dei Sargassi, dove un merluzzo freddo di chiamata e dall’aspetto intirizzito spedì loro un biglietto tramite un cameriere vestito da pinguino: Gradireste un cocktail?
Per carità, che Nettuno ce ne scampi!
fu l’incommentabile gioco di parole riportato sul biglietto di risposta, che congelò il merluzzo e suscitò l’immediata ilarità di tutta la fauna ittica presente, scatenando le formali proteste della FIGA, la Federazione Internazionale dei Gamberi e Affini.
Erano giovani e felici, insomma, per quanto lo si possa essere vivendo una vita dimezzata, metà marina e metà terrestre. Ma un giorno, giorno di calma apparente, giorno di aria tesa e acre come una profezia, giorno di mare ammaccato in superficie dalla pioggia che impetuosa aveva funestato la notte ma gonfio e ribollente nelle sue viscere più profonde e buie, le giovani cugine incrociarono la nave del prode Odisseo. Per Partenope, che nella sua breve vita non aveva mai posato gli occhi su un maschio più bello e valoroso, fu amore a prima vista. Ma, purtroppo, non fu amore a primo udito.
Messo in guardia dalla maga Circe, infatti, Odisseo si era fatto legare all’albero maestro e, pur dilaniato dal desiderio, non poté corrispondere al suo canto malioso e seducente. Il piccolo cuore di lei non sopportò il dolore di essere stata incapace di far innamorare un signor Nessuno e si gettò nei flutti del Mediterraneo, che ordinò alle onde benevole di portare il corpo fino alle coste della Campania e deporlo con delicatezza in un golfo bellissimo dal mare cristallino in cui si specchiavano verdi colline.
I pietosi abitanti del luogo costruirono una tomba in memoria del suo amore non corrisposto e nelle vicinanze sorse la città di Partenope, l’attuale Napoli.
Sirenope, nel frattempo, aveva ricevuto dalla cugina l’incarico di intrattenere i marinai di Ulisse e fece appello a tutte le sue risorse. Non avendo scioltezza di favella, come sappiamo, non trovò di meglio che ripassarsi tutta la ciurma, occupazione che aveva scoperto essere molto più interessante che scommettere ai cavallucci marini o limonare con i tritoni (attività, quest’ultima, ritenuta di cattivo auspicio). Purtroppo, nel bel mezzo della ripassata, quando Partenope si tuffò in mare inciampò con la pinna in una gomena e trascinò la gemellina nel mare. E solo grazie alla sua grande voglia di vivere Sirenope riuscì a salvarsi raggiungendo a nuoto la costa campana. Per sua fortuna le ospitali genti del luogo la rifocillarono e curarono amorevolmente. A contatto per la prima volta con un essere metà donna e metà pesce, per di più apparentemente incapace di pronunziare parola, i nativi la chiamarono ’a Sirena. Così, semplice semplice, in virtù della vivida fantasia che li ha resi famosi nel mondo.
Di lì a poco, all’interno di Partenope, il nucleo che si sarebbe trasformato in una delle città più famose al mondo, Napoli, nacque un piccolo ma fiero quartiere, purissima gemma incastonata tra il Vesuvio, il mare e la monnezza, che prese il nome dalla sua ispiratrice, Sirena (chiamiamola pure noi così).
Sirena era ancora una fanciulla quando arrivò, ma la sua gaiezza si sommò a quella dei sirenesi (chiamiamoli pure noi così) e il contagio divenne inarrestabile, una vera e propria epidemia di buon umore. Dai paesi vicini furono inviate spie per cercare di capire quale fosse la causa di questa incomprensibile allegria. Tutto sommato Sirena era un quartiere povero; i suoi abitanti erano per lo più pescatori, ma indomiti e autosufficienti: gli anziani coltivavano gli orti, le donne erano maestre di cucito e abili nel riempire la tavola e il letto con poco, spesso con il primo ospite che si trovavano davanti.
La sirena Sirena era vezzeggiata e coccolata anche per la generosità con cui dispensava il suo tocco. Venne un tempo in cui il mare era sempre tempestoso e avaro di tesori. Allora Sirena si recò sulla spiaggia e cominciò a parlargli nella sua lingua muta, inudibile, ma il mare ascoltò e le onde impetuose si calmarono. Quel giorno ci fu la pesca più straordinaria che si ricordi: i cefali, enormi, ancora più grandi dei leggendari esemplari catturati da zio ’Ndulino, il pescatore più anziano e bugiardo di Sirena, si diedero appuntamento presso lo scoglio dei Miracoli; i polpi, smisurati, presero un granchio e lo trascinarono al guinzaglio; i granchi dal moto circolare non tagliarono il guinzaglio con le chele ma convinsero i gamberi della necessità di fare un passo