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Racconti di viaggio per il Valhalla
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Racconti di viaggio per il Valhalla
E-book321 pagine5 ore

Racconti di viaggio per il Valhalla

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Info su questo ebook

Un uomo in fuga. Il percorso personale di un giovane catapultato in un mondo glocalizzato di cui è figlio ma nel quale finisce per non ritrovarsi più.

Tra delirio e degrado, realtà ed allucinazione, tra crisi esistenziale e ricerca di un benessere mancato, il protagonista ritrova in una esperienza di ribellione giovanile vissuta sui binari di mezza Europa, la propria soluzione escatologica dinanzi ad una crisi globale.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2014
ISBN9786050318708
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    Anteprima del libro

    Racconti di viaggio per il Valhalla - Emmanuel De La Paix

    Emmanuel De La Paix

    Racconti di viaggio verso il Valhalla

    UUID:

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Credits

    A Romy. Ai nostri sentieri morbidi.

    Table of contents

    Credits

    1 - Luna, Pan di Zucchero

    2 - Le estati degli antichi

    3 - Il Rito: sbronze e baccanali

    4 - L’idea di Dio

    5 - L'idea del viaggio

    6 - Il ciclo dell’acqua

    7 - Il ciclo del fuoco

    8 - La bellezza di un fungo e l’arte di essere ladri

    9 - Pan per focaccia

    10 - Un porto con un vecchio juke-box

    11 - Malinconia e Baccalà

    12 - Le lingue del popolo

    13 - Pelle e millefoglie

    14 - Il pendolo di latta

    15 - Corde dell’anima

    16 - MY AMERICA

    17 - Un filo sottile

    18 - Il bagai

    19 - Calamari giganti

    20 - Il sangue degli altri

    21 - L’angoscia di impazzire

    22 - Sentieri morbidi

    23 - Tre mosse

    24 - Vite passate

    25 - Epilogo

    1 - Luna, Pan di Zucchero

    Dai Racconti di uno psicotico

    Sento bruciarmi il fuoco nelle vene. Devo uscire di qui al più presto. Uscire di casa, correre nei campi alla luce chiara della luna. Correre nella nera terra, morbida, profonda, umida.

    L'erba alta mi bagna i pantaloni e sento i vapori della brina che mi inseguono nel buio, nel freddo. Ho bisogno di correre più forte che posso. Mi devo sfogare, come un terremoto che squarcia profondo dalle gole ripiene di bollore; così mi sento, come ultima dirompente resistenza del gorgoglio rubino, come un ruggente squarcio immerso nel fumoso pallido chiarore del creato. E sento come un tenero ma chiaro vagito; per la prima volta in me una voce mi percorre. Una voce che ascoltata per intero ha il sapore di una supplica disperata, di un disperato sommerso bisogno. Scopro con orrore che ho una necessità così diversa da tutte le altre.

    Cerco a mani nude nella terra. Le mie vene si tendono protese verso le dita formicolanti, tra capillari percorsi e gonfi di brama che cercano impietosi il soddisfacimento del bisogno ad ogni costo. Così tutta l’ingegnosa struttura anatomica lavora implacabile sotto le pelli candide, tra le scarne carni che si insudiciano nel fango sgraziato. Gli occhi tradiscono l’incontrollata pulsione assatanata e un ghigno maligno avanza rubicondo sotto i raggi sinistri della luna non ancora al suo primo quarto. Lei, così flebile e sottile nel cielo, ammira con compiacente perversione la mia parte oscura delinearsi così spontaneamente, come un fungo che sboccia nel mezzo del pantano tra odori che non sono incensi e sapori che non sanno di ristorante. Ed in questo momento di estro e letizia, nella genesi della mia realizzazione, ecco che lei, spettatrice di innumerevoli lati oscuri che hanno corso il tempo attraverso folte generazioni di uomini ed essere immortali, ecco che lei in alcun modo riesce a vedere la sua altra faccia, quel lato oscuro che non si mostra mai. La grande bugiarda non si confessa mai, nemmeno a se stessa: un volto pulito di fronte al creato e una faccia occulta permanentemente celata. Nella nostra ipocrisia, il più grande furto della storia, il furto della luce riflesso al sole, non ci ha mai disturbato. Anzi, quella luce nel cielo l’abbiamo sempre ammirata. Perché se lei ruba per dare ai poveri esseri umani una briciola di candore, allora è giustizia. È coraggio. Ed io povero ringrazio questi raggi di luce strappata di riflesso al sole per potermi invaghire di questo ammiccante piatto di monete d’argento.

    È buffo; nel rimescolarsi delle mie emozioni e dei miei pensieri, è un pensiero a tratti ironico. Impassibile, anche lei trascorre con me questa parte di tempo prezioso strappato al giorno. Illumina tutta la scena ed immobile mi osserva, lustre come il marmo. In questo quadretto di sonnolente quiete, lei mi scruta come fossi un minuscolo intruso dal sapore alieno, ma che sta assumendo il suo perché, tra un ansimare e l’altro. Quanti delitti hai accompagnato, quanti mani guidate da pensieri impuri hai assistito, chiedendo in dazio solo una fraterna complicità, donando in cambio solo l’esclusività di un proprio personalissimo rapporto, vincolando cani e serpi per mezzo di un reciproco inviolabile segreto?

    Per quanti ladri sei stata la giusta occasione e per quanti viscidi amanti la più tenera musa? Quante mani assassine hai accarezzato nel buio e poi tradito in maniera infame? Quanti fatti hai nascosto agli occhi di chi nel frattempo ti ammirava innocente?

    I campi fumano la terra, i vapori profumano di freddo, la notte trasuda d’inverno.

    Ora che sono solo con me stesso, immerso in questo trasporto quasi ultra-terreno, il mio vagito diviene una tempesta furiosa. Continuo a scavare verace nella terra, tra fanghi di diversa consistenza, sassi di varie fattezze, ostacoli di varia natura. Nel frattanto qualsiasi cosa che sia viva, qualsiasi cosa è un piccolo tesoro. Appena qualcosa si muove, lenta o veloce l'acchiappo e la ingoio tra morsi disperati. Addento tutto con un disgusto che è affogato da saltuarie importanti note di piacere, che si susseguono tra i ribrezzi di una fisicità lontana, ma che nonostante tutto, proseguono come immensi esplosioni tra quelle che divengono una delizia dopo l’altra nella mia bocca. Qualsiasi cosa, verme o blatta, cade impotente e ribelle nel gorgo, che diviene lurido pozzo senza fine. Mi importa sentire lo schifo. Nel pieno del suo vigore. Originale, istintuale, puro e primitivo, con una intenzionale ricerca ancestrale che ritrovo in alcuni croccanti istanti. Ma manca quel salto di qualità che in realtà cerco fin dal principio. Una pulsione che è si è lentamente trasformata in ossessione nel corso degli anni. Il sangue. Dal suo odore alla sua fluidità e colore, è in realtà un oggetto del desiderio che mi emoziona ancora, in una maniera estremamente istintuale ed adrenalinica. Compare così inaspettato un miraggio adorabile, un grazioso gioiello che girovaga sospeso nei suoi interessi. Immerso nelle ombre di un albero spoglio e decapitato, qualcosa si muove con un rumore ruvido e ruspante. La sequenza e l’alternanza dei fruscii mi fa sperare in un grosso e appetitoso topo di campagna. Bello succoso e grasso, visto il freddo che incalza la stagione. Immagino le castagne e il suo corpo danzarci sopra come su una graticola. Le frattaglie sparse condensarsi come uova nella carbonara. Mi alzo di scatto su due gambe, teso come una scocca in attesa di un segno, seppur vago. Inseguo con attenzione dapprima quello che mi sembra a orecchio un pigro fruscio, poi un insicuro saltello, poi un fraseggio leggero tra le zolle umide e cespugli bassi. Qualsiasi cosa sia mi sta fuggendo sotto gli occhi ed insopportabilmente non riesco a stargli dietro, pur se così grasso e tronfio. Nella confusione dei miei pensieri, alla ricerca di una fulgida intuizione, fa capolino nella mia visuale, uno ramo spoglio e grigio che si presenta austero quanto robusto. Come la zelante mano di un gobbo da teatro, eccolo lì il pezzo che in pieno palcoscenico mi suggerisce l’evoluzione del prossimo passaggio irreale: al tatto mi rendo conto che giace per inerzia come una pianta morta in un punto ormai secco. Già mi vedo tirare giù legne su questo grasso cappone selvatico, in uno scrosciante successo, anche se – aggiungo- il modesto risultato di tanta violenza rimarrà una modesta poltiglia scomposta di terra e piume.

    Così, nell'esaltazione più assoluta, in uno di quelli che rimarranno tra i momenti più elettivi della mia vita, di quelli che segnano il passaggio tra una situazione precedente che non tornerà più e quell'illusione di soddisfazione che mi porta a questo significativo baratto, nella ricerca molto metafisica della felicità che sto provando, eccomi accanirmi su questo pezzo di legna che riesco a strappare dalla pianta madre con pochi pesanti strattoni. Ho già perso troppo tempo. Inseguo il corpicino (che ora riesco a vedere con una buona definizione) mentre breccia tra un susseguirsi di erbe, rovi, arbusti e piccoli ostacoli. Se mi dovesse fuggire credo che impazzirei dal dolore per la perdita della preda, che è a uno schiocco di dita.

    Mi tramuto in una bestia inselvatichita. Voglio mangiarmi il topo con tutta la violenza e il disgusto che posso provare. Sono la bestia che ha fame, che scalcia per il pane, senza giustizia se non quella che riesco a strapparmi nella giungla. Mi avvicino con un veloce balzo e inizio a colpire con veemenza il suolo, tarando il mio braccio già al secondo colpo, controllato di una precisione quasi chirurgica. Mi scopro cacciatore nato. Prendendo di striscio la bestiola, con un colpo fortuito e ben assestato, la stordisco. È una di quelle fortune che ricompensano abbondantemente la buona perseveranza merita di dedizione. Anche quando non si è propriamente consoni e all'altezza della situazione il destino, a volte, sa renderci grazia. Casca così, tra un cuscino di gramigna e pantano, questo miracolo fuori dall'ordinario e non perdo un attimo. Armo le poche unghie che mi ritrovo attaccate e, anche se spaccate dalle ricerche veraci tra tortuose radici e sassi stridenti, con violenza provo a massimizzare la loro resa utile incidendogli il collo come per soffocarlo. La gretta operazione è suggerita un po’ dall'istinto, un po’ da una stilizzata ed approssimativa concezione dell'anatomia animale. Sento il piccolo esserino squittire ed è un suono graffiante, talmente stridente da ostruire i miei capillari e raggelarmi la schiena dando vita dentro di me ad una certa resistenza, sviluppando un certo senso di repulsione. Ma devo ucciderla in qualche maniera. Avvicino il viso piuttosto goffamente e faccio di quanto più semplice. La mordo, a dire il vero, piuttosto sgraziatamente. Per questo il primo tentativo non da un grande esito e, con più decisione e rabbia, insisto. Insisto fino a che, piano piano, la situazione non volge a mio favore, tra una contorsione e l’altra, tra un groviglio di pelle e toste fibre, così difficile da organizzare, da consumare. È viva e calda. Ma non è proprio come mangiare una bistecca. Si dibatte tra impeti di rabbia a cui devo tenere testa, devo gestire una situazione in equilibrio tra giuste posture e interne pulsioni cariche di vertigini. Nel godimento assurdo di un sangue che appare ai miei sensi così copioso, ridimensionando il quadro della situazione, infondo mi sto limitando a qualche morso ben piazzato, gonfio di disgusto, tra la resistenza di una robustezza di sapore che solo averla in bocca sazia qualsiasi appetito.

    Stasera ho fatto merenda, sogghigno. Il sogghigno si tramuta in risa gustose. È così che rido solo nel freddo buio della notte. La mia prima merenda. Mi dirigo spompato verso casa, soddisfatto, come al ritorno da una attività ricreativa. Sporco ed unto come una maiala senese. Inizio ad immaginare che tra le prossime attività che dovrò svolgere, ci dovrà essere lo spazio per un ricostituente bagno profumoso. Con poca immaginazione mi accorgo che non riesco proprio più a farmi violenza e si impone quel suono osceno dato dalla contorsione irrefrenabile, intensa e sbudellante delle mie interiora. Penso che il dolore dell’apparato digerente sia uno dei più lancinanti a cui una persona possa sottoporsi. È un malessere debilitante, capace di togliere ogni facoltà di reazione. Persino quella di piangere. Il dolore assorbe tutte le tue capacità ed energie: sostanzialmente il corpo cerca risorse di compensazione fino a toglierti il respiro, in una sorta di irreversibile collasso.

    I conati si schiariscono in gemiti gutturali piuttosto cadenzati ma non vomito fino a che riesco a mantenere un briciolo di orgoglio. Sarebbe vanificare l’andamento di tutta la nottata, anche se in realtà abbiamo vissuto un andazzo piuttosto scanzonato e quasi vuoto di una precisa logica. Stasera l’istinto è l’unico vero leitmotiv. Rientro confuso in casa. Più vicina a una baracca che a una residenza. Non mi interessa troppo lavarmi in questo momento di disagio. Ripenso a quella bestia che si muoveva squittendo, uno squittio che mi resta in testa come un motivetto indelebile delle peggiori frequenze, come una ninna che satura di ossessione ogni traccia di musicalità. Volgo il pensiero alla mia ferocia, in maniera quasi automatica associo quella prepotente emotività al mio aspetto di animale indemoniato. I miei capelli sono una originale ragnatela che imprigionano residui di sterpaglie maleodoranti di un glorioso passato ormai trascorso. Febbricitante mi sento come l’ultimo grande artista ad aver composto la sua più grande opera finale, e sporcarsi le mani, per l’arte da studio, da bottega quasi artigiana, fa parte del gioco: per questo deve essere motivo di tanto apprezzamento. Per cui, in sostanza, mi elevo al di sopra di queste materialità e amenità terrene e mi convinco a restare sporco come un maiale, completamente svuotato dall'estasi e da tutto il suo estro. I postumi del sollazzo li sento salire potenti ed entusiasti. Non mi ricordo l'ultima volta che sono stato così male. Mi piego in due di lato, nel letto, accasciandomi tra le lenzuola che, come me, avrebbero bisogno di una attenta ripassata. Mi distendo prestando attenzione a farlo sul lato sinistro. Chiudo gli occhi. Prego affinché il dolore mi abbandoni. Dormo un poco, ma sono in uno stato febbrile tale che inizio a sentire un certo senso di insicura irrequietezza. Entro in bagno e ripongo attenzione alle unghie spaccate e impiastricciate di terra. Facendo scorrere l’acqua calda mi ritrovo a veder scoperte quel che rimane delle mie unghie e penso che una qualche importante decisione andrà pur presa stasera. Per alcune, la sorte ha già deciso che era meglio rimanessero a terra e così mi ritrovo senza un paio di unghie nei punti che ora dolgono e bruciano. A ben vedere, non avere unghie sembra organicamente più funzionale: nella vita di tutti i giorni non dobbiamo tagliere le gole ai ratti con le nostre unghie. Forse la nostra modernità potrebbe accelerare certe scelte selettive della natura che vengono intraprese solitamente in qualche milione di anni, anche se esteticamente potremmo avere delle resistenze. Ma forse il nostro destino biologico, adattato al nostro mondo tecnologico fatto di tastiere wireless e schermi touch-screen potrebbe portarci a essere animali senza unghie. Con mani più funzionali. Essere senza unghie potrebbe renderci esseri migliori penso. Poi penso che non devo prendere certe fisse, certi pensieri. Non devo intrattenermi con quelle fissazioni che poi mi disturbano e non sono funzionali alla mia quotidianità. Concentriamoci sul presente. Mi sforzo per cambiare il mio circolo di pensieri.

    Ripenso alla blatta, al suo guscio importante, alle antenne violacee e splendenti. Ora che sono svuotato dal desiderio, l’immagine accorcia di molto la distanza tra i miei succi gastrici ed il pavimento. Ora che le mie ultime ventiquattro ore di sana dieta mediterranea mi si sono ripresentate davanti è interessante notare come questa spruzzata artistica di colore dia un tocco cromatico interessante a questo povero arredamento in legno. Una interessante esplosione di colore opacizzata ma con una decisa cromatura alla ricerca di una mimesi con l’ambiente. Potrebbe essere un’opera d’arte. Domani in ogni caso mi toccherà ripulire questo schifo. Torno tra quelle coperte avviluppate che sicuramente distenderanno le mie membra e daranno quella idea di riposo assoluto che ora cerco. Ma il vuoto del mio stomaco è solamente una imbarazzante illusione perché appena disteso sento che il malessere non si è fermato lì. Il motivo è sceso allegro giù per il profondo delle mie elasticità interiori. Torno mesto tra i brividi e mi affondo delicatamente nel letto con l’unico pensiero di addormentarmi.

    Ogni tanto abbiamo tutti bisogno di un aiuto per passare quel fronte che delimita lo stato normale delle cose e lo stato straordinario delle cose. Abbiamo bisogno di un aiuto a volte per ritornare alla normalità, per non restare troppo su di giri. Altre volte abbiamo bisogno di una spinta in su' per eleggerci a uno stadio intellettivo superiore, una alterazione psichica che a volte non ci si riesce facilmente. Oggi direi che è decisamente un giorno fuori dall'ordinario, perché non fa la media delle mie giornate-tipo dell’anno. Per cui, con questa sensazione di solido appagamento relativo al mio rigore morale, riesumo mentalmente gli strumenti strettamente necessari ai fini di una bella dormita, per cercare di abbassare il contagiri. Vista la situazione, scorro mentalmente il mio inventario di risorse che ho presenti in casa e scarto immediatamente tutti i prodotti che richiedono un certo impegno intellettuale e/o umorale e mi dirigo immediatamente tra la classe degli ansiolitici a base di benzodiazepine che ho attualmente disponibili. Tra ansiolitici e sonniferi mi giostro con destrezza e valuto le serie di alternative possibili fino a che non mi convinco per la classica mezza dose di ansiolitico da preferirsi preferibilmente nelle ore serali o precedenti il sonno. Meglio prenderla ora la classica mezza dose, così che mi rilasso un attimo e rifletto un po’ prima di cadere felice nel sonno. Una volta tolto lo stato ansioso dovrei scivolare tranquillo nel sonno. Mi sento troppo stanco per addormentarmi, ma non voglio nemmeno prendermi una bomba che mi immerga feroce in un sonno senza sogni. Voglio solo essere meno esagitato per la condizione fisica non proprio felice che sento sta per crollarmi addosso. Inoltre penso di conciliare un attimo il sonno facendo due calcoli in libertà. Osservo la scatoletta di Xanax.

    La prima volta che ho conosciuto questo ansiolitico lo avevo visto ad una festa di capodanno, una di quelle in cui sei buttato con l’allegra prospettiva di veder strisciare sotto i tuoi piedi il tempo che passa inesorabile, mentre noi tutti ci inganniamo, tra un appetizer e un prosecco, che la vita aspetta solo noi, in cicli di dodici mesi. In questo modo ci sentiamo legittimati a schermare i nostri problemi personali, convinti di buttarci alle spalle la serie di errori commessa nell'anno appena concluso e ripromettendoci il buon proposito di non soffrire troppo nella realizzazione dei nostri prossimi fallimenti. L’unica cosa che in verità ritorna ciclica è la percezione che noi stessi abbiamo per la meccanica, la fisica e l’eternità delle sue leggi; per cui noi ci illudiamo che l’estate sia sempre estate e l’inverno sia sempre inverno e che quindi il tempo sia ciclico. Nel frattempo il tempo scorre bello spedito e noi restiamo le solite grette persone; così io festeggio capodanno. Lo festeggio così, mentre mi rivolgono un quando sei nato? e io rispondo, incompreso, che sono nato d’inverno. Pur senza traccia, questa domanda permane, anche se eterea, nelle mie orecchie, come una interpunzione distratta, un amabile apostrofo di congiunzione al preludio di quel mio movimento di labbra desiderose di un sorso di pro-secco mentre il mio interlocutore prosegue indisturbato, magari dopo un educato brevissimo colpo di risa. La maggior parte degli invitati non conosceva di certo il mio sarcasmo, e così, senza offesa, saltavo di palo in frasca, da un gruppetto di nuovi amici ad un altro, tra una tartina e uno spumante, un salatino e un bacio sulle guance, aspettando inesorabile il passare del tempo. Ciclico, naturalmente. Tra i mirabili nuovi mondi con cui entravo in contatto, nulla in realtà riusciva ad intrattenermi veramente. Come una farfalla che vive una sola gloriosa primavera, volevo godere un po’ di tutti i nettari e appena facevo il pieno di alcol, raccoglievo il piccolo tesoretto di sapere, conoscenza, incontro o semplice carburante d’uva nera per svolazzare fuggevole in piroette esuberanti verso il prossimo certo momento di gaudio. Quand'ecco che un ammiccante terzetto converge mirabile. Il terzetto era intento con le mani nella marmellata, alla ricerca di come comporre una canna. Ebbene non voglio spiegare a voi, illustrissimi, le dilettantesche operazioni per il dispiegamento di un arnese di elementare assunzione. Ma rimasi colpito dal deposito della crema di hashish e dal suo inventario. Questo ansiolitico si presentava così davanti a me: due capsule rivestite di poliestere di un bianco anonimo, riposto affabilmente come un ago in un pagliaio, mimetizzato quel che serve, affascinante e rustico come una bionda nuda su un giaciglio di paglia, in questo minuscolo cesto di vimini in lieta compagnia di un accendino, due filtri fatti con qualche biglietto di mezzo pubblico, un tocco di pasta olivastra di hashish, un sonnifero e un paio di caramelle gommose di quelle verdi, color mela, ricoperte di zucchero, abbandonate in mezzo a delle graffette da ufficio di diverso formato e qualche spilla da balia. Una presentazione innocente, che si pone come un pittogramma tutto da immaginare e scoprire. Questa ragazzetta, la proprietaria del piccolo tesoretto, scherzava con il suo amico, un personaggio gaio, ben piazzato e dalla chioma splendente di un biondo fiamma. Chiamavano il viminello la casetta dei desideri. Le sue dita effeminate si soffermano sull'ansiolitico e lei suggerisce: bè, stasera abbiamo bevuto troppo per prendere anche una bomba di Xanax. Perché la la bomba di Xanax, come tutta la classe degli ansiolitici, fa effetto con l'alcol e lo fa di brutto.

    Ovviamente il punto non era l'ansiolitico: questi volevano farsi una bella canna. La discussione verteva su quanto lunga fare la canna, se la carota reggeva la portava. Si concettualizzava sulle portate di peso, spinta e portata, si maneggiavano questi concetti come ingegneri al politecnico. Così ché la nostra fu una conoscenza fuggevole, un incontro del tutto casuale. Ma io ho buona memoria per certe cose e sono anche abbastanza interessato a scoprire determinati dettagli quando serve. In quell'istante iniziavo a scoprire che ero rimasto troppo indietro: ero ancora un liceale che immergeva un po’ di brandy nel punch della festa di fine corso. Gli altri invece, erano gente seria. Era ormai chiaro che dopo i classici cannoni e le classiche paste, i celeberrimi trip e i farinacei derivati dalla coca (che non erano più solo per ricchi borghesi), in questa democratizzazione selvaggia del business della droga, in cima alla top quaranta delle ganzate da farci tutti assieme, spuntavano e brillavano ansiolitici e sonniferi, veri privilegi dei pochi Giusti. Questi avevano accesso ad impossibili ed improbabili ricette mediche per prodotti in definitiva legali e autorizzati, addirittura suggeriti dal medico curante. Un privilegio di pochi, potersi fare un viaggio autorizzato, giusto per scoprire, per capire qualcosa di più, o forse per capire niente e consolidare le verità di San Tommaso, che voleva provare (in fondo come noi) l’empirismo della Teologia dei Grandi. Tirando due somme (oltre che due righe) alla fine, per andare a pipparsi la cocaina, a questo punto ci si organizza per bene: ci si trova un buon analista e ci si fa dare un farmaco, di quelli buoni, da un vero psichiatra. Almeno sono seguito sul serio, e da uno specialista, senza dovermi per forza cibare della merda che innaffia le strade e che schiuma su ogni bancone. Ma ai tempi di quel capodanno, queste conclusioni erano proprio di un altro livello. Spensierati come eravamo, avevamo appena finito di correre dietro ai primi aquiloni e tutto questo mondo lo si sarebbe conosciuto molto meglio da grandi. Non c’era mica fretta. Quando il nascondiglio è sotto gli occhi di tutti (farmacie, ospedali, consultori, studi medici), nessuno lo trova, nessuno te lo ruba e stai certo che lui da solo non scappa. Di fatto quella volta, ci eravamo fatti un gran bel cannone. In semplicità. Senza troppi problemi. Un bel cannone tra marcioni. Che capodanno stupendo!

    A furia di parlare di droghe, rifletto anche sul fatto che c’è della chetamina in casa da qualche parte, che conservo per le occasioni speciali. Le dita effeminate tamburellano allegramente nel cestello dei vimini mentre immagino una busta accartocciata tra una graffetta e il tappo di una stilografica. Nel mio inventario mentale è uno di quei prodotti a più basso rigiro e a valore unitario in realtà più alto. La chetamina è ben conosciuta per essere un anestetico di uso prevalentemente veterinario per la sua forte tossicità. In prevalenza più consona ai cavalli che alle necessità umane. Ma si sa che io sono un animale. Mi aveva dato una botta tale che ero certo di giungere repentinamente il collasso senza speranza di salvezza alcuna. Ma questo straordinario mondo è a volte figlio di un continuo connubio di casi fortuiti e sorprese eccezionali. Io non ero morto e la chetamina era rimasta lì. Più di mezza bustina. Le dita fumate di hashish si immergono nei capelli biondo paglia del mio amicone gay. Gli occhi irritati dal fumo cercano freschezza nei nostri sguardi. La spensieratezza dei gesti di oggi sono le solide basi per la disperazione di domani. Le modalità di assunzione praticate dai disperati sono diverse ma il mio cruccio principale rimase sempre l’enigma della scelta per via polmonare piuttosto che endovenosa. A volte mi capita che a sentire certe narrazioni, provo quasi una sorta di rimorso nell'aver prediletto una via piuttosto che l’altra. Anche perché è una di quelle cose che si fa una tantum nella vita. Ma infondo queste considerazioni (tra una scelta di somministrazione anziché un’altra) dipendono sempre un po’ dal narratore.

    Ecco che un altro pensiero mi distrae, portandomi nell'anticamera del piacere. Mentre il mio corpo si riscalda di un torpore farmacologico, penso a come sarebbe andare di eroina proprio ora, in questo momento di calda letizia acquisita, giù per i meandri sublimi del mio tunnel personale.

    Mi focalizzo impotente su una buona dose di eroina. Ripercorro il dolce percorso che la porta a me, schiacciata sotto uno stantuffo, spinta dentro ad un ago, leggera, calibrata a goccia a goccia per una complice vena stretta e contratta fino all'estrema sensazione di libertà. Il pensiero mi prende subito bene, mi rende felice! Mentre ecco che immagino che infilo l'ago nel giusto punto penso che sono pazzo a farmi ora che sto così male, ma si vive una tantum. Tutti mi dicono che ho delle belle vene. Un complimento da specialisti. Un po’ come un complimento per fisici da modelle. Mentre sudo di febbre, con la testa che mi scoppia di allucinosi e confusione, la parola una tantum mi fa venire in mente la pubblicità del tantum gel. Benzidamina conosciuta anche come cloridrato. Una Tantum. Immagino una scritta blu enorme che si ingrossa su di uno sfondo bianco ospedale.

    Il mio volto sorridente tirato a lucido è in televisione. I miei denti sono colonne di marmo che tengono i bordi del televisori. Il mio ghigno famelico è irreale e la mia pelle luccica come porcellana al sole. Il mio sorriso cresce a dismisura inghiottendo lo schermo. Una voce ferma fuori campo recita: Una tantum. Il farmaco. Lo prendi una volta e poi muori. L'impostazione vocale è tipica degli anni ottanta. Lo spot è surreale, psichedelico. Nei colori, nei suoni, nelle forme grafiche. Adesso esplodo come nello schermo, penso. Ora muoio.

    Il pensiero mi fa sentire eccitato come se una bomba di adrenalina mi fosse esplosa improvvisa nelle vene. Bisogna provare tutto o no? Non è questa la vita che si vive una volta sola, per una sola volta? Mentre dolori, godimento e torpore si susseguono, io ripercorro mentalmente l’operazione ancora una volta in maniera talmente vivida da

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