Effe
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Anteprima del libro
Effe - Filippo Scalisi
cuore
Il volo
f inalmente ho capito tutto!
Eh sì, ora tutto torna: le spiegazioni, i paragoni, gli inquietanti interrogativi di Effe il pazzo negli ultimi anni. Gli ultimi quattro anni della mia vita.
29 ottobre 2014
Quando arrivano a soccorrermi non sento neanche troppo male. Credevo che un tale volo avesse ben altre conseguenze.
La prima persona che arriva ha una voce che sembra ovattata. Come se le sue parole giungessero a me non attraverso le orecchie, come se assorbissi le vibrazioni di quei suoni. Mi sembra quasi di pensare quello che dice attraverso la sua voce. Una sensazione stranissima ed inquietante.
Grida aiuto, prima piano, poi sempre più forte. E’ una donna. E’ molto preoccupata. Vorrei rassicurarla, ma provo a parlare e le parole non mi escono. Ho fatto un bel volo, sembrava non arrivassi mai a terra. Arriva l’ambulanza, mi prendono e mi portano in ospedale.
Arrivano tutti, riconosco le loro voci. Sempre attraverso le vibrazioni. Che cosa strana! Si disperano, percepisco le loro urla. Provo a rispondere ma non riesco a parlare.
Poi mia madre. Cerco di comunicare con lei, un ulteriore tentativo per dire che non sento dolore, che sto bene. Soffro da matti nel sentire mia madre soffrire. Forse più di lei.
Ma', stai tranquilla, sto bene.
Vorrei dirle...queste parole però non riesco a farle uscire dalla bocca.
Non piangere, non è niente.
Niente! Già, niente. Questa è la parola giusta. Giusta, per chi muore.
Sono morto così, un volo di quasi quaranta metri. Immaginavo che la morte fosse diversa. Non lo immaginavo, forse lo speravo! Ma anche in questo Effe aveva ragione. L’anima continua a vivere. E non so quanto durerà questa mia condizione.
Sarà la vera materializzazione dell’inferno: quando gli altri ti credono morto. La morte c’è, ma riguarda tutto ciò che di materiale forma il tuo corpo. Ciò che gli uomini, quelli vivi, non sono ancora riusciti a capire, ora io l’ho capito, solo adesso, come tutti quelli che, come me, sono morti.
Ma ormai è tardi. Dove andrò adesso?
Ma, soprattutto, cosa accadrà?
L'inizio
a questo punto la storia fa un salto all'indietro di quattro anni esatti: una piccola famiglia appena nata che abita una casetta di campagna della bassa Ciociaria, un luogo che appare anonimo, in un tempo che sembra apparentemente insignificante...
29 ottobre 2010
"q uella costruzione antica, così vicina a casa nostra, sembrava osservarci e incombere sulla nostra voglia di andarci ogni volta che uscivamo e alzavamo lo sguardo.
Una chiesetta del XI secolo, là sopra, sul Monte Vetro.
Sono stato sempre innamorato del profilo delle montagne. Sin da piccolo, quando i miei genitori mi portavano in giro, rimanevo ore incantato a guardare la linea dell'orizzonte che disegnava forme riconoscibili. A volte trovavo in quei contorni dei profili divertenti. Il monte Cacume, visto dalla stazione ferroviaria di Frosinone, mi sembrava il naso di una vecchia senza dentiera, la montagna che sovrasta Venafro invece, vista dalla strada che conduce a Roccaraso, appariva come un santone indiano col doppio mento mentre, andando verso Napoli, subito dopo l'uscita autostradale di Caianello vedevo nella montagna a sinistra addirittura il profilo di Totò, messo un po' di lato sì, ma molto somigliante. Monte Vetro invece sembra quella specie di soprabito che porta il papa, quella mantellina corta che arriva a mezzobusto lasciando scoperti solo gli avambracci. E sulla sommità, osservandolo dalla strada che torna da Pontecorvo, si notano anche i muscoli trapezi.
L’ultima volta ci ero stato con mio nonno, nel 1986. Avevo solo dodici anni e ricordo di avere insistito tanto per andarci.
Ci si va, in un rito che si ripete ogni anno, il giorno di Pasquetta. Una processione che sale da tre punti diversi e che si riunisce poco prima di raggiungere la cima del monte, dov'è la chiesetta. Un’ora e mezza di scarpinata fu quanto impiegammo dal punto di accesso situato vicino casa dei miei nonni, dove da qualche mese abitavamo io e Laura, mia moglie.
Da qualche anno una delle strade di accesso era stata sistemata e resa carreggiabile sino ad un certo punto, abbreviando per più della metà il cammino. Da quel momento ero salito fino alla fine di quella carreggiata più volte, con la vecchia Multipla o con lo scooter.
Mi riproponevo di ritornarci anche con il trattore, il mezzo agricolo ereditato da mio nonno insieme alla casa.
Ma era un posto dove ero già stato e il mio istinto da esploratore mi consigliava di risparmiare le forze per un'altra meta, magari ancora da visitare.
Quella volta però la curiosità ebbe la meglio e salimmo in due, con lo scooter. Sarebbe stata una delle tante volte che andavamo lì sopra. Almeno questo è quello che feci credere a Laura.
Misi lo scooter sul cavalletto ed iniziammo a salire a piedi. Poco dopo si iniziava ad intravedere da lontano la piccola sagoma della chiesetta. A Laura non ebbi il coraggio di dire che era mia intenzione arrivare sin lì, sino alla cima.
Mancavano a occhio due o tre chilometri, e non più d'un paio d’ore di luce!
Dopo un quarto d’ora di cammino, la strada iniziava a scendere, raggiungemmo un vecchio ricovero di greggi, in mezzo ad una boscaglia, ed una struttura in mattoni utilizzata probabilmente per far asciugare le forme di Marzollina, un formaggio tipico di questi monti, dalla forma cilindrica ed un sapore per palati veri! Mi chiesi come cavolo avessero fatto a trasportare tutti quei mattoni fin lì senza una strada di accesso. Strada che spesso, e senza fortuna, continuai a cercare con lo sguardo tra brulli colli calcarei colonizzati da mortella e olivastro.
Attraversammo quindi il boschetto arrivando alla Isternola
, una vecchia cisterna in pietra situata tra il rilievo appena superato e l’altura sulla quale è posta la chiesetta. Superato questo avvallamento il sentiero riprendeva a salire. Laura iniziò a chiedermi se era mia intenzione raggiungere la vetta. La rassicurai dicendole che in qualsiasi momento lei avesse voluto saremmo tornati indietro. Intanto la costruzione veniva nascosta al nostro sguardo dai vicini rilievi rocciosi e la mancata visione della meta mi consentiva di rassicurare mia moglie sull'effettiva distanza da me stimata.
Ad un certo punto perdemmo il sentiero e ci ritrovammo in una piccola radura che l’abbondanza degli alberi da frutto ci faceva intuire essere stata abitata in tempi passati. Chissà chi erano quei matti che erano venuti ad abitare qui sopra, così lontani dalla civiltà? Dopo queste brevi riflessioni aggirammo un piccolo rilievo caratterizzato da tanti muretti a secco, forse resti di vecchie abitazioni, e fummo investiti dalla figura della chiesa della Madonna di Monte Vetro. Non distava da noi più di duecento metri, eravamo vicinissimi. Laura mi chiese per l'ennesima volta se non era il caso di tornare indietro. La guardai come si guarda un marziano:
-Ma sei pazza? Ora che siamo arrivati, dopo un’ora di cammino… Dai che manca poco…
-Fabri', non lo so, non ho tanta voglia. Mi fa un po’ paura… E’ così strano questo posto… Così desolato!
-Ma dai… E di cosa hai paura? Non c'è nessuno!
Cercai di rassicurarla ma quel posto faceva una strana impressione anche a me. Raggiungemmo una vecchia recinzione di pali e rete metallica costruita su un terrapieno contenuto da un muro in pietra e la superammo facilmente. La costruzione, molto esposta, aveva una vista di 360 gradi ed era completamente realizzata in pietra. Girammo un po’ intorno alla chiesa, Laura non si staccava di più d’un metro da me.
Incurante del suo stato d’animo soddisfacevo la mia curiosità guardandomi attorno: cercavo di immaginare quale motivazione avesse spinto gli abitanti di chissà quale epoca a costruire quella chiesa in un posto così remoto ed isolato. Chiesa
comunque è una parola grossa! Cappella, forse, descrive meglio l’edificio anche se la toponomastica ufficiale parla, non capisco il perché, di Santuario.
Pensai che molto probabilmente in quel luogo vi fosse stato, anticamente, un tempio pagano.