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Sangue garibaldino
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E-book156 pagine2 ore

Sangue garibaldino

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Info su questo ebook

Si parla tanto di Garibaldi e della sua impresa, con i Mille, partita proprio da Genova. Su mille uomini, secondo le statistiche odierne, ci sarebbero dovuti essere sicuramente diversi omosessuali. La storia di questo romanzo prende spunto da ciò, un amore gay tra due garibaldini. Sesso, scene romantiche, disperazione: l’autore si è divertito ad esplorare i grandi stereotipi della letteratura ottocentesca, di cui è un profondo conoscitore, inseriti in un contesto storico su cui si è ampiamente documentato. Genova in molte occasioni è scenario della vicenda.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2013
ISBN9788875638696
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    Anteprima del libro

    Sangue garibaldino - Giorgio Ansaldo

    CAPITOLO PRIMO

    Dove si narra di alcuni personaggi

    che sono entusiasti di Giuseppe Garibaldi

    e per seguirlo cambiano la loro vita

    Si aggirava in quei tempi negli stretti carruggi maleodoranti di Genova, una figura d’uomo, del quale i più avevano paura e con cui fraternizzavano solo i loschi e i delinquenti. Si trattava di Rocco, detto il porco, il carbonaio di vico de’ Angeli.

    Il suo negozio, se così si poteva definire, era un fondaco buio, annerito dalla polvere di carbone, a cui si accedeva verso il basso tramite scalini di lavagna sbeccati, usurati e luridi. Chi passava davanti al suo portale aperto nel vicolo tetro, scorgeva solo una grande massa bigia costituita da cumuli di carbone, pavimento nero, pareti nere. Nel buio a volte guizzava il metallo di una pala, a volte baluginavano all’improvviso gli occhi azzurri del carbonaio, la cui faccia perennemente annerita e sporca si confondeva con il tutto.

    Rocco era alto e muscoloso, di una magrezza nervosa i cui muscoli si erano sviluppati da sé nello scaricare pesanti sacchi oltre la sopportazione umana. I suoi capelli lunghi, ondulati e corvini gli conferivano un aspetto ancor più selvaggio, quasi primitivo.

    In inverno indossava un casaccone di tela di Genova di colore indefinito, ma reso sostanzialmente nero dalla sozzura, le braghe, larghe e cenciose, erano tenute ferme in vita da uno spago sfilacciato. I piedi erano nudi in ogni stagione e c’era chi si chiedeva se mai avesse posseduto un paio di scarpe. In estate era seminudo, coperto soltanto da un cencio lercio intorno ai fianchi.

    Più che un uomo, veniva considerato una specie di animale ringhioso, anche perché non parlava quasi mai, ma se parlava erano più le bestemmie che le parole sane ad uscire dalla sua bocca.

    La gente del quartiere si rivolgeva a lui per acquistare il carbone piuttosto malvolentieri, ma poiché era l’unico carbonaio in zona, aveva una clientela assai vasta. I soldi guadagnati durante il giorno però venivano puntualmente scialacquati dall’infame durante la notte nelle bettole più scalerce, dove non era molto gradito, ma veniva sopportato dagli osti poiché spendeva tutti i suoi danari e dai trucidi e malfidati avventori poiché, quando era gonfio di vino, offriva spesso la bevuta a tutti, buttando le monete sudice nel cestino dell’oste.

    Pareva alla gente che non mangiasse mai, né dormisse mai, perché di notte, a qualsiasi ora, lo si poteva scorgere barcollare minaccioso ora qua, ora là, e sempre nei vicoli più sordidi e maleodoranti. Girava voce che si accoppiasse con i marinai che giungevano numerosi nell’angiporto, sbarcati dai mercantili e dalle golette. La maggior parte di essi cercava sesso nei postriboli, altri si accompagnavano alle donnine per strada che erano più a buon mercato, gli ultimi, i più squattrinati o forse i più pervertiti, andavano a farsi sbattere da Rocco il porco, tanto sempre sesso era.

    A volte, al mattino, lo si vedeva abbandonato, stravolto in qualche angolo buio in mezzo alla spazzatura e al piscio dei cani. Allora qualcuno, diciamo per buon cuore o forse per levarselo da sotto casa, gli tirava una secchiata d’acqua ed il poveraccio si rianimava di botto e tornava stancamente al suo lavoro.

    In realtà, una sorta di casa ce l’aveva Rocco il carbonaio: si trattava di un cubicolo puzzolente sopra al negozio, dove l’uomo si arrampicava tramite una scala a pioli e vi trovava pace quando le gozzoviglie lo avevano stremato. Un pagliericcio in terra, pochi oggetti personali, un bugliolo per i suoi escrementi, che svuotava non spesso, scaricandoli fuori da una finestrella che si affacciava su un vicolo talmente stretto, che difficilmente vedeva il transito di esseri umani.

    A tredici anni, orfano e affidato alla strada, era stato raccattato dal vecchio carbonaio ebreo Giosuè e tenuto come garzone di bottega. In quegli anni dell’adolescenza, Rocco aveva una parvenza gradevole: i riccioli neri, gli occhi cerulei, un bel corpo in crescita. Il carbonaio lo aveva alloggiato nel cubicolo, che Rocco occupava tuttora, e lo pagava poco, ma abbastanza da poter condurre una vita quasi normale. Ma il garzone era schivo, ombroso, traumatizzato da chissà quali orrori infantili e non parlava con nessuno, tranne che con l’anziano vedovo, un uomo avaro e rissoso, ma sostanzialmente buono col ragazzo.

    Fu quando il vecchio decrepito tirò le cuoia, che la vita di Rocco pian piano scivolò nel baratro. Gli rimase il fondaco, gli rimase l’alloggio, ma di giorno in giorno, forse lacerato dal dolore per la morte del padre putativo, la qualità della sua vita degenerò fino ad arrivare, alla soglia dei venticinque anni, allo sfacelo attuale.

    Ormai anche la sua sessualità animalesca era nota a tutti e le madri spaventavano i propri bambini, dicendo loro che quello era un orco e che bisognava girargli alla larga. Certi adolescenti curiosi bazzicavano dalle parti del fondaco, ma le loro famiglie rintuzzavano quelle morbosità con severe punizioni.

    Alcuni anni addietro, era stato trovato un mozzo sedicenne morto strangolato tra la spazzatura di vico de’ Macelli. L’opinione popolare indicò subito Rocco come il colpevole più probabile. La gente si assiepava intorno al negozio ingiuriandolo, la sua diversità lo rendeva facile bersaglio di accuse infamanti e truci supposizioni. Il povero cristo si era chiuso dentro, portale sprangato, e dalla finestrina del piano di sopra, non sapendo difendersi a parole, scodellava fuori un fiume di bestemmie irripetibili. E più imprecava, e più i benpensanti si accanivano contro di lui.

    Quella volta rischiò il linciaggio. Più di uno pensò che fosse una buona occasione per levarselo dai piedi, colpevole od innocente che fosse. Altri erano convinti che il carbonaio avesse strangolato il giovane mozzo, poiché si era rifiutato di soddisfare le sue voglie sodomitiche.

    Rocco singhiozzava in un angolo della sua stanza, maledicendo Iddio e tutti i santi, spaventato, solo e disorientato, ma con la certezza di essere innocente.

    Per fortuna di prove non se ne trovarono, anzi saltò fuori che il giovane mozzo aveva contratto molti debiti di gioco nelle numerose bische di Sottoripa: un movente più che sufficiente, in certi ambienti, per motivare un brutale assassinio.

    A parte questo episodio sconvolgente, la vita di Rocco scorreva sempre uguale, immerso nelle brutture e nell’alienazione, ma il giovane uomo non era poi così insensato e degradato come la gente pensava. Dentro di sé soffriva, vedeva che chi lo circondava, pur nella miseria, viveva una vita migliore della sua, sapeva che lui stesso avrebbe voluto qualcosa d’altro, qualcosa di meglio, ma non aveva idea di come fare per avere una vita più degna di essere vissuta. Nella sua stanza piangeva lacrime amare, si addormentava nella depressione e poi tamponava le ferite della sua esistenza nell’unico modo che conosceva: il vino ed il sesso.

    Nell’aprile del 1860, a Genova si parlava molto della presenza di Giuseppe Garibaldi in città. Era ospite di Candido Augusto Vecchi a villa Spinola e stava preparando la sua grande spedizione verso la Sicilia. Cercava volontari per questa sua nuova missione che, a detta di molti, avrebbe rivoluzionato i destini del paese. Tanti erano scettici, altri però ne furono entusiasti. Ne parlavano i nobili come i medio borghesi. Se ne parlava persino nelle bettole e nelle osterie. Molte madri fremevano spaventate all’idea che i figli o i mariti volessero andar volontari, altre si inorgoglivano vedendo i loro uomini bruciar di passione. Rocco non doveva render conto a nessuno, nessuno avrebbe pianto per la sua partenza, perché non presentarsi?

    Fu però Cecco, un anziano compagno di bevute mal in arnese come lui, che parve trovare argomenti per dissuaderlo:

    «...Che il diavolo si porti Garibaldi! Smettila di pazziare Rocco! Che ci viene in tasca a noi derelitti? Nella merda siamo e nella merda rimarremo. Vuoi fare l’eroe, Rocco il porco? Ma tu sei già un eroe per tutti i marinai che sollazzi di notte! Quelli ti faranno un monumento, altro che Garibaldi».

    Rocco taceva, ma non condivideva. Tant’è nel suo animo sentiva che arruolarsi poteva costituire una svolta nella sua misera vita fuligginosa. Ma il maledetto Cecco continuava e gli argomenti non gli mancavano:

    «...E poi diciamolo: vabbè che quelli prendono tutti perché hanno bisogno di uomini, ma io e te non siamo più uomini, forse non lo siamo mai stati. Non ti vedi Rocco? Tu sei rumenta, spazzatura, sterco di cane, ed io una damigiana di vino andato a male. Rocco, grande figlio di bagascia, credimi se ti presenti, quelli si spaventano. I carabinieri non ti arruolano... ti arrestano. Dammi ascolto, prima guardati allo specchio, poi capirai quello che intendo... Porco il tuo d... iavolo!».

    Rocco, quella sera, dopo i primi bicchieri, si allontanò dall’osteria. Aveva bisogno di ragionare ed il vino non andava bene a quello scopo. Cominciò a camminare piano nei portici di Sottoripa.

    I tanti esercizi commerciali erano ancora in piena attività, persino i pesciai avevano ancora qualche polpo e qualche calamaro da smerciare. Il figlio della pesciaia Ginetta, Giobatta, roteava nell’aria l’ultimo sacchetto a rete pieno di cozze, per attirare l’attenzione dei passanti tardivi e lo offriva ad un prezzo di favore. Mustafà il mercante di granaglie ravanava con una spatola nel sacco dei piselli secchi vocalizzando una nenia incomprensibile ma affascinante. Felicita, che una volta era una bella donna, bamboleggiava all’angolo di strada col suo banchetto di profumi esotici, facendo capire che non vendeva solo profumi ma per pochi soldi anche se stessa: gli affari non le andavano bene come una volta comunque.

    Nessuno riconosceva Rocco. Il suo vicolo non era poi così distante, ma il quartiere era così intricato di carruggi e viuzze che bastava spostarsi di pochi metri verso il mare per accedere alla zona di Caricamento e lì sembrava di essere in un altro mondo.

    Il carbonaio si sedette sullo scalino del portone di un palazzo. Gli pareva un buon posto per pensare, mentre il passeggio davanti a lui scorreva intenso.

    Un gruppo di marinai, già belli ubriachi passò cantando una canzonaccia piena di doppi sensi, lo superarono come non lo avessero manco visto, ma dal branco uno di essi rimase indietro e con aria guardinga gli si avvicinò.

    «Ohilà, bell’uomo, noi ci conosciamo!» esordì con aria spavalda.

    Rocco fece di no con la testa. Allora il ragazzo gli si sedette a fianco e con piglio più confidenziale aggiunse:

    «Ma sì, tu sei Rocco il carbonaio...». Ci fu un attimo di pausa quasi che il marinaio non trovasse le parole per continuare. Poi si fece coraggio e disse a bassa voce:

    «L’altra volta mi hai dato piacere. Ho goduto tanto. Lo vuoi rifare? Se lo fai ti regalo un sigaro» ed estrasse dalla tasca un sigarone marrone. «E tu mi regali il tuo» concluse cercando di esser spiritoso.

    Rocco lo guardò e questa volta lo riconobbe. Era un bel ragazzo dall’aria un po’ svanita. Sì, anche a Rocco era piaciuto fargli la festa, ma quella sera non era proprio in vena e scosse di nuovo la testa. Il marinaio indugiò ancora un po’, speranzoso di fargli cambiare idea e si bagnò le labbra con la lingua in un ultimo tentativo di abbordarlo, poi si alzò capendo di non aver speranze. Fece pochi passi, poi tornò verso Rocco e gli posò in mano il sigaro prima di dileguarsi nella notte.

    Una notte che Rocco passò nella sua stamberga, ma che non fu meno accidentata delle sue solite serate spese in giro a straviziare.

    Gli era scattata nella testa una maledizione: la sua stanza, il suo fondaco, le sue bettole, le sue scopate non gli appartenevano più, sentiva il suo spirito proiettato in alto mare sul bastimento di Giuseppe Garibaldi, che faceva rotta verso la

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