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Morte di un ebreo a Venezia: La nuova indagine del commissario Fellini
Morte di un ebreo a Venezia: La nuova indagine del commissario Fellini
Morte di un ebreo a Venezia: La nuova indagine del commissario Fellini
E-book251 pagine2 ore

Morte di un ebreo a Venezia: La nuova indagine del commissario Fellini

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Info su questo ebook

Leon De Donno, scrittore ebreo americano, autore di romanzi storici ambientati a Venezia, viene assassinato apparentemente senza un perché. Conquistato dal fascino della città lagunare, De Donno aveva deciso di prendervi casa acquistando un lussuoso palazzo sul Canal Grande. Il commissario Enzo Fellini, debilitato sul piano fisico e psichico, si ostina a indagare, a ricercare, a vivere. Riuscirà a scopri- re l’identità del Mostro che sovraintende a una perfida trama intessuta di morte? È Kippur, il “Giorno dell’espiazione”. La comunità ebraica di Venezia, chiusa nei suoi spazi sacri, celebra la festività più importante. Al mondo della morale, della preghiera e della fede, fanno da contraltare gli istinti e le pulsioni che scaturiscono dal lato buio dell’essere umano. Con sublime ironia, Morte di un ebreo a Venezia apre gli occhi a una visione inedita dell’ebraismo, del dramma della Shoah, della vita stessa. Offre prospettive e metafore che vanno oltre le consuete tautologie alla Schindler’s List.

Nathan Marchetti ha maturato esperienza più che ventennale nell’editoria italiana. Ha studiato moltissimo ma non per collezionare pezzi di carta (custodisce l’agognata laurea in garage). Dopo Giallo Venezia, Requiem Veneziano e Ultimo Carnevale a Venezia, ecco Morte di un ebreo a Venezia: la nuova indagine del commissario Fellini. Nathan Marchetti pubblica tutti i suoi romanzi e racconti, nessuno escluso, con Fratelli Frilli Editori (Genova).
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2022
ISBN9788869436444

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    Anteprima del libro

    Morte di un ebreo a Venezia - Nathan Marchetti

    PRIMA PARTE

    Rosebud

    1

    Nessuno vive come gli ebrei. A meno che non si tratti di ebrei. Non tutti gli ebrei, d’altronde, vivono ebraicamente.

    Leon De Donno, per esempio.

    Lui è ebreo. Però non vive come la maggior parte degli ebrei.

    Perfino dal punto di vista fisico sembra fatto apposta per starsene distante dalla sua religione.

    È biondo. Ha gli occhi azzurri. All’apparenza, potrebbe trattarsi di un attempato scandinavo.

    Non osserva le Mitzvot. Neanche una. Neanche mezza.

    Tra l’altro oggi, cinque ottobre, nel mondo ebraico si celebra Kippur, festa dell’espiazione cioè del perdono dei peccati. Alle sette del mattino, fregandosene del severo digiuno prescritto dalla Torah e dai Maestri, De Donno ha fatto colazione all’Hotel Candia di Venezia con uova, pancetta affumicata e un bel tazzone di caffè.

    Nella città lagunare è giunto tre giorni or sono. Non c’era mai stato prima.

    Adesso è in veranda. Fuma contemplando i palazzi innestati tra acqua e cielo.

    How lovely…, mormora con la sua voce gutturale.

    Leon De Donno nacque a New York, nel quartiere di Williamsburg, sessantanove anni fa. Venne circonciso a otto giorni di vita. Di Shabbat, tra l’altro.

    I suoi genitori erano osservanti in massima misura. In casa si impiegavano doppi tegami, doppi piatti, doppie stoviglie, doppi bicchieri: gli utensili venivano tenuti rigidamente separati onde evitare ogni contatto tra cibi a base di carne e cibi a base di latte.

    I familiari di Leon erano piissimi, dei veri ashkenaziti: durante i sette giorni di Pesakh si privavano perfino dei fagioli dato che i legumi secchi si gonfiano, a riposo nell’acqua, e ciò potrebbe ricordare l’agire del lievito.

    Facciamola breve: le famiglie che vivono sotto l’ombrello dell’Halakha’ hanno sempre doppie stoviglie. Ciò rende la misura di quanto praticare la religione ebraica sia una faticaccia.

    Con l’ebraismo, De Donno tenne duro fino alla quarantina.

    Poi un divorzio. Un altro. Un altro ancora.

    Liti. Avvocati. Psicologi.

    I suoi dodici maschi crescevano guardandolo di soppiatto. Le ex mogli gli intentavano cause su cause. E le vincevano tutte.

    Il lavoro di pubblicitario non bastava più per campare. Il computer comprato a rate stava diventando obsoleto. Il primo e ultimo cellulare della sua vita gli scivolò nel water.

    Al McDonald’s della Sesta Avenue, preso dalla disperazione, Leon De Donno consumò un hamburger contenente prosciutto e formaggio. Era il suo modo di battere i pugni contro il Cielo.

    Di fianco a lui c’era una coppia di pensionati WASP freschi di ricordi, appena atterrati all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy.

    Oh, Venice… How lovely…, diceva piano la signora. Gli americani, nei ristoranti, parlano a bassa voce. Sussurrano, come gli inglesi.

    What an incredible story…, continuava la donna in età avanzata. The ancient Doges… The Sala del Maggior Consiglio… The Ponte dei Sospiri… The Carcere dei Piombi… Giacomo Casanova…

    What incredible tramezzinoes, la interruppe suo marito.

    L’uomo rise come si ride a Boston. Sommessamente.

    La donna, invece, non rideva.

    Il suo sguardo fendeva l’atmosfera, sembrava in preda a una visione.

    What an incredible story…, ripeteva dimenticando di mangiare.

    Dopo un po’, i due se ne andarono.

    A partire da quello sguardo, Leon De Donno elaborò un’idea.

    Si recò da We Buy Gold Pawn Shop. Ne uscì con una vecchia, indistruttibile macchina per scrivere di fabbricazione italiana.

    All’epoca – fine anni Novanta – un’Olivetti Lettera 22 veniva considerata un ferrovecchio. Oggi è roba da collezionisti.

    Al Central Park, il nostro amico si posizionò a gambe incrociate sulla pavimentazione a mosaico dedicata alla memoria di John Lennon.

    Estrasse la Lettera 22 dalla custodia a valigetta. La posò sulle tessere di marmo bianche e nere. Inserì nel rullo un foglio giallastro che svolazzava lì attorno.

    Cominciò a battere sui tasti.

    Giacomo Casanova. The Sinner Doge.

    Il romanzo era ambientato nella Venezia del Seicento.

    Man mano che scriveva, De Donno si lasciava ispirare dalla parola Imagine, posta al centro del mosaico.

    Essa costituiva un imperativo. Un dovere.

    Tempo due settimane e il manoscritto fu pronto.

    Dopo settantasei rifiuti, la risma dattiloscritta venne accolta da un editore che aveva sede nel Bronx: Priaruggia Books, un’azienda di medie dimensioni comandata dal figlio di un genovese mancato prematuramente.

    David Priaruggia non era ebreo, tuttavia si atteneva in modo naturale al cuore dell’ebraismo: il rispetto per i genitori. Ricordava suo padre Marco quasi in ogni discorso.

    Il romanzo non ebbe alcun riscontro commerciale. Le vendite rasentavano quota zero.

    «Siamo a ridosso del Duemila. Nell’editoria di oggi c’è troppa gente che scrive e pubblica. È una vera e propria inflazione», ripeteva Priaruggia, come per scusarsi. Poi guardava l’interlocutore negli occhi. «Ma tu non preoccuparti, Leon. Ce la faremo».

    Nelle sue vene scorreva sangue tenace. A dispetto dei conti in rosso, l’editore continuò a credere nelle storie del Doge seduttore.

    Commissionò un altro romanzo a De Donno. Poi un altro. E un altro ancora. Sempre con lo stesso protagonista: Giacomo Casanova.

    «A mio padre, questi romanzi sarebbero piaciuti», diceva.

    Cominciò a prendere forma una vera e propria serie.

    La svolta, disgraziatamente, derivò dalla morte di Emily, deceduta in un incidente stradale. Emily era l’unica figlia di Leon De Donno, la sola della famiglia che non lo guardasse con cattiveria.

    I media americani parlarono del dramma. Di più: si incaponirono sulla tragedia. L’uomo della strada imparò il nome e il cognome del padre della povera ragazza.

    Le vendite di Casanova salirono di colpo, vertiginosamente.

    Leon De Donno divenne un marchio registrato. David Priaruggia trasferì la sede della Priaruggia Books a Lower Manhattan, in un ufficio al decimo piano da cui si vedeva l’oceano.

    In un soffio, però, dovette tornarsene nel Bronx.

    Da laggiù, David snocciolava le perle di saggezza che aveva appreso da Marco: «Dicono che amici e nemici si conoscano nel momento del bisogno. La verità è che le due categorie si distinguono meglio quando le cose vanno alla grande».

    Infatti, De Donno aveva cambiato editore. Era passato alla concorrenza e tanti saluti.

    Subodorando nuovi bellicismi da parte delle ex mogli, forte dei dollari guadagnati coi diritti d’autore, lo scrittore si trasferì nella Svizzera francofona, a Lausanne, altresì detta Losanna.

    Colà abitò per molti anni insieme alla solita macchina per scrivere Olivetti Lettera 22.

    Quando serviva, spediva al suo nuovo editore missive di carta, come una volta.

    Aveva trovato il punto d’equilibrio. Ma non la felicità, perché i tipi come lui, purtroppo, non diventano mai felici. Qualcosa gli rodeva dentro istante dopo istante.

    A ogni modo, è difficile per tutti stare tranquilli. Tu non puoi stare calmo se, per capirci, un anonimo antisemita t’invia un piccolo, minuscolo pacchetto bomba imbucato nella cassetta postale situata a trenta metri dal tuo domicilio.

    Quattro giorni fa, Leon De Donno ha ricevuto il regalo. Non è esploso per miracolo. Di ciò ha informato le autorità elvetiche.

    Tre giorni fa, ha mollato la Svizzera.

    Per la primissima volta nella sua vita ha messo piede a Venezia.

    2

    A folle velocità – così, all’italiana, tanto per andare veloce – un motoscafo invade il Canal Grande.

    A bordo possiamo notare due persone.

    Sono le otto e dieci del mattino eppure Venezia è già trafficatissima forse perché si sta alzando un sole troppo potente per questa data: cinque ottobre.

    L’uomo al timone prorompe in una sonora risata.

    Si chiama Calogero Venezia, però a Venezia non c’era mai venuto prima d’ora.

    Nacque a Palermo quarantotto anni fa. Vive a Ferrara. Di solito lavora nei paesini della provincia estense. Si tratta di borghi dai nomi gentili: Gaibanella, Benvignante, Diamantina, Anita...

    Venezia gli mancava. Calogero Venezia non vedeva l’ora di porla in lista.

    Non ha nemmeno la quinta elementare. Tuttavia lo chiamano tutti Il Medico Delle Case.

    In effetti, è competentissimo. A colpo d’occhio sa valutare lo stato di salute di qualsivoglia abitazione. È meglio di un ingegnere. E per ciò che gli interessa veramente supera di gran lunga Sherlock Holmes.

    Va detto: assomiglia a Robert De Niro. Viene spontaneo supporre che i due siano parenti, neanche troppo alla lontana. La differenza sta nelle possenti braccia di Calogero. E in quel filo di pancetta che, diciamolo, non dispiace quasi mai alle donne.

    Il motoscafo è stato preso a noleggio: lo studio clinico – un capannone con dentro di tutto, dai trapani alla magnetite, dallo stagnatore ai calendari con le donne nude – ha sede in una città dove non si adoperano più i canali per spostarsi.

    Lo si faceva nel Medioevo. Ma questa è un’altra storia.

    3

    So lovely…, mormora Leon De Donno dalla veranda dell’Hotel Candia.

    Perché temeva di rimanere deluso?

    Perché fino a tre giorni fa, si teneva lontano dalla città costruita sull’acqua?

    Okay, lo sguardo di quella pensionata al McDonald’s parlava chiaro. Però, si sa, tutti ammirano Venezia. Tutti la declamano.

    Fino a che punto ci si può fidare dei luoghi comuni?

    Finora, Leon De Donno aveva soltanto immaginato la Serenissima. Di più: s’era illuso che la distanza lo aiutasse a immaginarla meglio.

    Da tre giorni ha la faccia sbalordita di chi osa fare i conti senza l’oste. Si sente sopraffatto dalla gioiosa ignoranza della gente italica, dallo spreco delle emozioni, dalla bellezza indescrivibile che coabita con le nefandezze.

    Esce dall’hotel. A piedi, si dirige verso il luogo dell’appuntamento.

    Nota giganteschi tramezzini che fanno bella mostra nelle vetrine dei bar.

    Sorride ricordando: What incredible tramezzinoes…

    Attraversando i ponti, sente la città parlargli con i vaghi sussurri di un amante: S-ciaf… S-ciaf…

    Finora, De Donno ha vietato esplicitamente che le storie incentrate sul dogado di Giacomo Casanova venissero tradotte nell’idioma di Dante. Ciò in base al sospetto che gli Italiani urlassero ai quattro venti le innumerevoli incongruenze tra le invenzioni dello scrittore e la storia della Serenissima. E che, conseguentemente, dall’Italia partisse una campagna denigratoria.

    Ogni impero, compresi quelli fatti di carta libresca e impalpabili pagine di ebook, può crollare in un nanosecondo.

    Come tanti altri, De Donno sopravvalutava il sedicente Popolo di poeti, santi, pensatori, scienziati, navigatori, trasmigratori. Credeva che chiunque nasce nello Stivale goda del dono sublime della scienza infusa oltre a nutrirsi, pasto dopo pasto, di spaghetti e pizza al malinconico suono del mandolino.

    David Priaruggia rideva, quando Leon gli esponeva queste fisime. Però non ribatteva.

    Il nuovo editore, De Donno non l’ha mai visto né sentito. È un pezzo talmente grosso che nessuno tra gli autori della scuderia entra in contatto diretto con lui. Chi scrive per i suoi marchi si confronta con i sottoposti, con i vice. Al massimo, con la segretaria del capo supremo.

    Su un solo punto, De Donno si è dimostrato irremovibile: niente traduzioni in lingua italiana.

    Proprio il fatto di non aver pubblicato neanche una riga in Italia ha convinto Leon De Donno a trasferirsi nel Bel Paese. Spera che qui nessun antisemita gli manderà pacchettini pronti a esplodere.

    Ieri ha scelto la casa che intende acquistare. Ha fatto contattare dall’Hotel Candia l’agenzia che tratta l’immobile. Inoltre ha telefonato a un magazzino di Salem, nel Massachusetts. I suoi numerosi libri arriveranno tra circa due mesi.

    Si è alzato di buon’ora. Ha fatto colazione. Ha fumato due Chesterfield.

    Si è goduto la passeggiata.

    E adesso, alle otto e dieci, ha raggiunto il molo privato di Palazzo Fanón, al cospetto del Canal Grande.

    4

    «Come sta tua cugina?», chiede il Dr. Calogero Venezia, voltandosi.

    Il suo dipendente albanese sbuffa. Sta lavorando con il Medico Delle Case da una manciata di giorni ma ha già capito l’antifona.

    Nick Belushi esibisce occhi rassegnati. La sua testa è rapata come quella di un penitente.

    «Guarda avanti…», inveisce con l’accento cupo dei Balcani. «Guarda avanti, ti ho detto…».

    All’ultimo, il palermitano-ferrarese scansa un vaporetto. Poi dribbla un paio di gondole.

    «Mona!», gli grida un gondoliere.

    Il Medico Delle Case si volta nuovamente verso Belushi.

    «Quand’è che me la dà, tua cugina?».

    «Che te ne frega di mia cugina?», sbotta l’albanese. «Abita a Lushnja, tu non l’hai mai vista».

    «Lo dice il proverbio, no? La cugina, si monta per prima».

    «Ma tu non ce l’hai una cugina?».

    «Mica lo dice, il proverbio, di chi è ’sta cugina».

    Al Dr. Venezia piace che

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