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Marmellata di Prugne Gialle
Marmellata di Prugne Gialle
Marmellata di Prugne Gialle
E-book227 pagine3 ore

Marmellata di Prugne Gialle

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Info su questo ebook

Un vecchio pastore evangelico, terzomondista, gandiano, mandeliano, universalista, fautore dell’accoglienza senza se e senza ma in nome della fraternità universale, si ritrova in manette accusato di un delitto perpetrato a danno di un ragazzo di colore per motivi passionali, sospettato prima di omosessualità, poi di gelosia.

Un giovane avvocato e un commissario di polizia fuori dagli schemi cercano di sbrogliare la matassa scoprendo un sottobosco sciocco e sublime, vitale e sorprendente, che appassiona e meraviglia: alzano il velo sull’universo ignoto delle confessioni religiose di minoranza, oasi di rinnovamento e di libertà, isole di anticonformismo e di coraggio, grotte di settarismo.

Ambientato in una sanguigna cittadina romagnola, Marmellata di prugne racconta ciò che muove gli umani da sempre verso il peccato e la redenzione. La paura, il pregiudizio, lo spazio vitale, un posto visibile nella massa anonima, l’amore impossibile, la necessità della consapevolezza e il dolore che porta con se.

In questo racconto che fruga e trova oltre le apparenze, i protagonisti sono gli insospettabili della porta accanto: il pastore Ruocco e il ruandese Jesus che trova in Italia chi lo avvelena, dopo essere sopravvissuto ai machete Hutu che hanno sterminato la sua famiglia, ad una fuga rocambolesca che lo ha portato in Uganda, in Zaire, in Tanzania, in Libia e ultimo approdo al largo delle coste siciliana, costretto in acqua da scafisti criminali armati di Kalashnikov.

L’autore, nel raccontare, come in tutte le sue opere, utilizza il taglio poetico nella convinzione espressa in una sua lirica secondo cui:

La poesia è lo spontaneo straboccare di sentimenti possenti,
Un microscopio del cuore
che scopre capolavori meravigliosi nelle cose trascurate.
Il poeta è un bambino che si meraviglia della vita che pulsa in ogni filo d’erba
Un eterno innamorato di ciò che cela ogni respiro.
La poesia rende solenne il dolore, sacro l’amore,
insopportabile la violenza
Infinito l’attimo, epica la vita qualunque;
Da voce alla sofferenza, agli aneliti, ai sentimenti,
All’anima che pulsa come un cuore nella foglia e nella stella,
Agli attimi, segni e pegni di eternità.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2019
ISBN9788829597611
Marmellata di Prugne Gialle

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    Anteprima del libro

    Marmellata di Prugne Gialle - Rolando Rizzo

    Gibran

    Capitolo 1

    Dal Ruanda, Jesus

    Tratterete lo straniero, che abita

    fra voi, come chi è nato fra voi; tu

    lo amerai come te stesso;

    Levitico 19:34

    Era il 3 gennaio di un inverno che sino alla sera prima era quasi parso l’irrompere della primavera. Alcuni rami di forsizia già sbocciavano d’oro e i fiori di pesco giapponesi, i Chaenomeles speciosa, erano già esplosi di rosso vivo, e negli angoli dei minuscoli prati davanti alle case i grumi teneri dei crochi bianchi, gialli, viola evocavano marzo.

    La Sernafolice nuova, quella di Ca’ Ossi in particolare, era un inno all’arcobaleno poiché lungo le vie quasi deserte che dividono le file di villette incastonate nei giardini, le tinte di primavera si mescolavano ai toni dell’autunno non ancora passato nonostante il calendario.

    Solo i monconi nerastri delle magnolie ridotte a smilze piramidi ricordavano gennaio.

    Il pastore evangelico emerito Ruocco aveva l’abitudine di alzarsi verso le cinque e mezzo del mattino. Da sempre adoperava quelle ore per studiare o per scrivere, soprattutto d’inverno.

    Da un po’ di tempo sia il suo medico che sua moglie non facevano che fargli notare la necessità di diminuire di peso e lui si era comperata una bici da camera sulla quale pedalava malvolentieri, soprattutto perché la TV lo annoiava a morte e leggere su quel trabiccolo non poteva.

    Durante quella primavera innaturale, però, si era abituato a raggiungere uno dei lunghi viali tra le ville di Ca’ Ossi per camminare leggendo.

    Pur avendo rischiato un paio di volte di cozzare contro i pali della luce, Ruocco si era abituato a nutrire l’anima marciando nella convinzione di curare anche la salute. Era proprio il caso di dire: – Mens sana in corpore sano! – Anche se, alla fine di un’oretta di lettura cammin facendo amava passare dal Siciliano per gustarsi una strana treccina al marzapane e un caffè amaro condito dal rimorso dei coccodrilli, che era poi il dubbio se quello spuntino segreto non vanificasse l’intera scarpinata.

    Quel 3 gennaio di buon’ora, Ruocco si preparò come al solito per uscire verso la cultura letteraria (stava rileggendo per la terza volta, almeno, uno dei capolavori a lui più cari: Il fu Mattia Pascal di Pirandello), verso la libidine del marzapane e l’illusione di dimagrire.

    La moglie lo canzonò chiedendogli dove avesse la testa anche quel mattino.

    – Cosa hai fatto per due ore nello studio? Non hai sentito nemmeno una notizia? Non hai neppure aperto la finestra? Non hai sentito freddo? Non ti sei accorto che fuori nevica?

    – Nevica? Ma se è quasi primavera!

    La moglie aprì la finestra e, incredibile sorpresa per lui, ma i tg annunciavano l’evento da almeno una settimana, fuori cadeva lenta la neve!

    Il tetto del vicino era bianco come un trullo appena dipinto e anche il melograno, le betulle, il lauro del suo condominio parevano essere stati attraversati da una nuvola di panna.

    L’inverno era ritornato nelle ore notturne, come un ospite sgradito che aveva illuso di non più venire.

    Le minime e le massime in quell’unica notte, si erano abbassate di almeno quindici gradi.

    – Nevica lento e sottile – disse sua moglie. – Prima che le strade diventino impraticabili prendi l’auto, fai un salto al Conad e compera ciò che ci manca. Fai presto però, che se continua la neve creerà parecchi problemi. Inoltre: lo sai che giorno è oggi? Ti ricordi che abbiamo ospiti?

    – E che giorno è oggi? Ah, caspita è il mio compleanno, eh già, vengono i Pellegrini!

    – Ne compi 73, e in fatto di memoria si vedono tutti!

    – Ma dai, sono nato così! Non c’entra nulla l’età e nemmeno l’Alzheimer, almeno spero!

    Davanti al Conad stazionavano fissi e visibili due giovani di colore; in realtà erano tre. Infatti la coppia era ogni giorno diversamente assortita. Un terzo c’era, ma invisibile.

    Ruocco ogni volta che faceva spesa comperava qualcosa anche per loro e all’uscita gliene faceva dono: tre banane, tre dolcetti, tre succhi di frutta, una confezione di biscotti… che i due di turno accettavano sempre con molta gratitudine.

    Non era convinto di far bene. Non riusciva a capire quale era, nell’occasione, il bene da fare. Anzi, sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma non come farlo.

    In tutta la sua vita, la sua prassi verso i poveri era sempre stata quella sintetizzata dall’antico proverbio cinese: Se dai un pesce a un povero lo sfami per un giorno, se gli insegni a pescare lo sfami per la vita. Che era poi l’attitudine che aveva avuto su di lui l’educazione negli Istituti Evangelici di tutto il mondo fondati sui valori che hanno reso immortale la cultura ebraica: il lavoro manuale, la temperanza, la conoscenza…

    Quello di Firenze, ce n’è almeno uno in ogni paese del mondo, era al centro di due fattorie di proprietà dell’Istituto nelle quali i giovani poveri potevano lavorare d’estate per guadagnarsi la retta scolastica.

    Quando un giovane si affacciava all’Istituto ed esprimeva il desiderio di farne parte senza però averne le possibilità economiche, la risposta era sempre quella che gli dette quando era ragazzo il direttore Enrico Long: – Il fattore economico non potrà mai essere un impedimento all’educazione di un giovane. Oltre alla sua capacità di benedire, Dio ha inventato il lavoro e qui puoi lavorare.

    Si chiedeva ogni giorno se aiutandoli li incoraggiava a mendicare. Non loro tre che conosceva assai bene e che frequentavano la sua casa, ma i questuanti in generale.

    Ma il contesto nel quale quei tre giovani erano venuti a trovarsi era caratterizzato da una fase maledetta di drammatica disoccupazione, di imprese che chiudevano una dopo l’altra. La crisi che spesso è invisibile, a Sernafolice diventava ogni giorno più visibile. Non solo i cartelli Vendesi e Affittasi si moltiplicavano davanti alle villette a schiera, ai condomini, ma dappertutto negozi splendidi il giorno prima, in pochi giorni si trasformavano in buchi vuoti, bui e polverosi.

    Inoltre i tre erano clandestini, non avevano alcun permesso di soggiorno e temevano di essere espulsi da un giorno all’altro.

    In realtà erano già stati espulsi un paio di volte, ma con le formule strane delle strane leggi che caratterizzano quella che fu la culla del diritto. Avevano così cambiato due volte città, ma sapevano che la cosa non poteva durare all’infinito.

    I tre erano bene organizzati. A turno, uno stazionava davanti all’ingresso del Conad e si limitava semplicemente a salutare sorridendo, senza nulla chiedere. Il secondo attendeva nel parcheggio con lo stesso atteggiamento e la disponibilità a riportare indietro il carrello dal quale ricavava l’euro adoperato per prenderlo e nello stesso tempo vigilava sulla via di destra dalla quale poteva venire la polizia. Il terzo sorvegliava la via di sinistra. Quando si materializzava una divisa, si sentiva un fischio e i tre sparivano.

    L’atteggiamento rispettoso, educato, in punta di piedi aveva conquistato una clientela non numerosissima ma costante e sufficiente a dar loro la possibilità di sopravvivere dignitosamente. Tra gli euro di qualche carrello, i doni in natura di numerosi vecchietti, pastore compreso, e qualche altra moneta, non mettevano assieme ricchezze, ma il giusto per nutrirsi e vestirsi dignitosamente riuscivano a ricavarlo.

    Vivevano assieme in un monolocale con cucina che tenevano pulito e ordinato, pagavano regolarmente l’affitto e ogni volta che uscivano di casa il vecchio proprietario, un farmacista in pensione, diceva alla moglie: – Ma che pulizia questi ragazzi di colore! Chi l’avrebbe detto?

    Non erano diventati mendicanti di professione, coltivavano la speranza di legalizzare la loro posizione in Italia o altrove e di trovare un lavoro.

    Via via che il pastore Ruocco li conosceva ne diveniva sempre più amico.

    Vivevano, certo, momenti di esaltazione e di scoraggiamento, ma avevano lasciato l’inferno, e il contesto in cui soggiornavano era comunque, e in confronto, un tempo di speranza.

    – Passerà questa crisi – diceva il pastore Ruocco – e bravi come siete vi sistemerete tutti. Io sto spargendo dappertutto la voce della vostra esistenza e vedrete che qualcosa salterà fuori!

    Mai avrebbe potuto immaginare che l’amicizia con quei tre ragazzi, ognuno dei quali aveva conseguito la maturità liceale nel proprio paese, e che avrebbero potuto essere i nipoti da sempre desiderati, lo avrebbe reso protagonista dell’esperienza più inimmaginabile della sua non breve vita.

    Capitolo 2

    Il Bacile

    Credo che avere la terra e non

    rovinarla sia la più bella forma

    d’arte che si possa desiderare.

    Andy Warhol

    – Che ne dici cara, domenica prossima andiamo al Bacile?

    – Sì, credo sia possibile, ma decidiamolo tra qualche giorno; abbiamo delle incombenze che non possiamo rimandare, credo che ce la possiamo fare, però aiutami. Esci ogni tanto dal tuo studio.

    – Ma certo – disse Ruocco, – lo sai che sono il tuo Cavalier servente!

    – Sì, negli intervalli… che sono rari.

    Ruocco amava la terra. Per anni era stato un suo sogno possederne un pezzetto, magari piccolo ma suo…

    Aveva respirato quel sogno tutta l’infanzia; gli veniva dal nonno, dal suo zio più amato, da suo padre.

    Tutti avevano vissuto della terra; avevano coltivato vigne e poderi, fatto girare mulini, curato oliveti come figli, ma da mezzadri o fittuari.

    Furono persone di specchiata onestà, assai poco portati al compromesso, a chiudere un occhio per amor di pace. Rinnovavano sempre le terre loro affidate, le rendevano produttive spezzandosi la schiena dall’alba al tramonto. D’estate erano capaci di lavorare anche di notte, al tempo della vendemmia e della mietitura. Ebbero tutti famiglie numerose e tutti lavoravano duramente, ma amavano essere riconosciuti, trattati rigorosamente secondo i contratti stabiliti e con rispetto.

    Bastava poco per abbandonare il podere, la vigna, magari rimettendoci.

    Nella maggior parte dei casi restarono a lungo nello stesso posto. I padroni, anche se approfittatori e avari, si rendevano presto conto che quella specie contadina faceva i loro interessi e che conveniva loro essere corretti. Ma l’abitudine al privilegio, allo sfruttamento, alla convinzione di appartenere a un ceto superiore, qualche volta li tradiva e allora bastava un gesto, una frase, un atto scorretto per provocare nella razza contadina Ruocco reazioni fiere, orgogliose, che si accompagnavano alla richiesta di risarcimento se l’ingiustizia era economica o di scuse se era morale.

    Sognarono tutti un loro podere tutta la vita, magari piccolo, ma di loro proprietà. Fossero riusciti ad averlo ne avrebbero fatto un giardino dell’Eden, ma non ci riuscirono mai.

    Avrebbero potuto riuscirvi con un poco di furbizia, ma ne erano privi e soprattutto erano allergici ai debiti. La paura di non poterli onorare li bloccava, pur se chi fa impresa inizia quasi sempre a debito.

    Il sogno sarebbe stato realizzabile anche negli anni 60, quando i poderi si deprezzarono e molti padroncini cercavano di liberarsene a causa della Riforma Agraria, e soprattutto dell’emigrazione al Nord e in Europa, che vide troppi giovani partire e rese abbandonate molta parte delle campagne meno produttive.

    A uno zio di Ruocco e anche a suo padre offrirono dei poderi a cifre irrisorie e rateizzabili, ma erano ormai diventati vecchi e i figli erano tutti partiti.

    In genere, o comunque spesso, i figli dei contadini disprezzano la campagna e la terra e non vedono l’ora di abbandonarla per la città e per lavori che possono essere eseguiti con la schiena diritta, che abbiano orari brevi e lascino quanto più tempo libero possibile. Ruocco era diverso. Non lasciò la terra perché l’odiasse, anzi l’amò sin da piccolo. Casomai avrebbe provato disagio per la città nella quale si sarebbe sentito un estraneo sempre. Avrebbe lasciato la terra per la Vocazione pastorale, l’avrebbe ricordata sempre con amore e riconoscenza e predicato un messaggio che gioirebbe di un orizzonte definitivo, universale e cosmico, un ritorno a nuovi cieli e nuova terra dove giustizia abiti.

    Molti credenti sognano il cielo e ipotizzano una vita da angeli. Ruocco credette sempre nel rinnovamento di questa terra che ritornerà l’Eden che fu nella sua perfezione originaria soltanto con l’eliminazione del male, che è ingiustizia e violenza. Soleva dire:

    – Questa creazione è creatura di Dio in tutta la sua concretezza… È la violenza che vi si è introdotta che rende ogni cosa malata… Guarito quel tumore, questa terrà sarà celeste…

    Il vecchio pastore su questo tema citava spesso gli apostoli Pietro e Paolo, che rispettivamente scrissero:

    Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo.

    Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia.

    Nel frattempo, in attesa della consumazione di quella Beata speranza, Ruocco in sintonia con la sua famiglia godeva l’attuale terra tutte le volte che poteva. Di tempo ne aveva poco ma appena era possibile e il clima lo permetteva, Ruocco e famiglia cercavano sempre la montagna più vicina, anche soltanto per passeggiare tra gli abeti e consumare un panino lungo un ruscello pulito.

    Soprattutto nella prima parte del suo ministero, Ruocco viaggiò molto in auto e amava saziarsi dei paesaggi e notare cascine abbandonate sognando di possederne una e ripetendosi ad alta voce da solo o con altri: – Possibile che con tanta terra io non ne possa possedere un angolino?

    In cima ai suoi sogni c’era quello di un casetta in montagna con un angolo di terra seppure minuscolo da trasformare in orto e giardino. Sapeva di non poter realizzare nulla di tutto questo prima della pensione. Gli impegni professionali, di cui era innamorato, non gli lasciavano che qualche domenica, ma diceva: – Se arriverò all’età della pensione in buona salute spero di potere usare i risparmi per un angolino di montagna.

    E poco prima di andare in pensione ricevette improvvisamente e inaspettatamente quel dono.

    Dopo avere invano visitato decine di angoli meravigliosi ma sempre troppo cari per la quantità dei suoi risparmi, ne trovò uno che, a suo dire, il Signore gli volle affidare come buona uscita per il suo servizio imperfetto ma fedele.

    Mancavano solo due anni alla pensione. Ormai si era rassegnato a vivere in città. Sua moglie lo aveva convinto che quel sogno era al di fuori delle sue possibilità e che tutto al più, una volta in pensione, avrebbero passato un numero maggiore di giornate sui monti da mattina a sera.

    Un mattino però Ruocco, seduto sulla poltrona di un parrucchiere, lesse proprio sullo specchio un cartoncino scritto a pennarello:

    Vendesi casa e 800 metri di terra in Casentino. Accanto compariva la cifra, superiore ai suoi risparmi, ma decisamente bassa in rapporto a tutte le precedenti…

    Prese l’appunto e ne parlò a casa a sua moglie che ci rise su. – Sarà un catapecchia! – gli disse, – un rudere per cui bisognerà spendere cifre che non abbiamo… Lascia perdere, evitiamoci questa nuova delusione!

    Ritornando alla carica più volte, e prospettando comunque una scampagnata, riuscì convincere la moglie ad andare almeno a vedere.

    Si ritrovarono in un borghetto che comprendeva sette case di pietra a vista dai tetti rossi. Era stata una ricca masseria al centro di centinaia di ettari di seminativo e di boschi che includeva l’abitazione padronale, alcune abitazioni contadine, magazzini, stalle, fienili. Più lontano nella valle anche un mulino ad acqua.

    Con la riforma del diritto proprietario l’immensa tenuta fu divisa tra i fratelli che negli anni 50 abbandonarono tutti la loro porzione, tranne uno, per le industrie da Firenze in su.

    Solo la casa padronale costruita nel Quattrocento rimase sempre abitata come seconda casa dall’unico erede, che però aveva la sua prima

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