Memorie 1943-1945
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Anteprima del libro
Memorie 1943-1945 - Nino De Marchi
1945.
Prefazione
Caratteristica essenziale di questi ricordi di vita partigiana 1943-1945 di Nino De Marchi è la sua antiretoricità.
La sua testimonianza, filtrata a cinquant'anni e più di distanza, è una memoria asciutta, priva di orpelli e vuoti luoghi comuni, dove i ricordi si dipanano pian piano nella pagina sempre con grande misura ed equilibrio, evitando ogni facile concessione all'emozione e al sentimentalismo agiografico, a cui purtroppo - e dico purtroppo, perché ritengo che ciò non abbia reso un buon servizio alla Resistenza – ci ha abituato tanta parte della memorialistica del settore.
C'è in queste memorie lo sforzo costante da parte dell'autore di ritrovare e ricreare, al di fuori del mito che le è stato appiccicato addosso per tutto un cinquantennio, quella che è la vera dimensione del fenomeno Resistenza o Lotta di Liberazione come dir si voglia.
Una dimensione la cui prima cifra è la quotidianità. La lotta partigiana, così come emerge dalle pagine di De Marchi, è una lotta segnata non solo da momenti eccezionali, dalle vittorie, dagli episodi di eroismo individuale che pure ci sono stati, ma soprattutto da una somma di piccoli gesti, che si frantumano in una miriade di episodi e vedono come protagonisti molto spesso uomini e donne senza nome. È una lotta dove trovano cittadinanza gli aspetti più minuti, come l'universo dei pensieri e dei sentimenti, gli interrogativi, le riflessioni, le ansie e anche le paure.
La seconda cifra di questa Resistenza è poi quella della problematicità. Come ben sottolinea tra le righe De Marchi, la lotta partigiana fu uno dei più prolungati periodi i tensione fisica e morale che egli abbia mai dovuto affrontare.
Il partigiano era costantemente solo, costretto giornalmente ad operare scelte dalle quali spesso dipendeva non solo la sua vita, ma anche quella dei suoi compagni e di tutta la comunità più ampia ove operava. Scelte – val la pena di sottolineare – da cui il singolo non poteva prescindere e che, una volta adottate, tracciavano una specie di spartiacque con il proprio passato e nei confronti degli altri.
La terza dimensione della Resistenza presente in queste pagine è il contesto di violenza diffusa in cui vivevano i partigiani, i nazifascisti e la popolazione. De Marchi non ha reticenze nel raccontarci la durezza e l'atrocità di quei giorni, e le domande che quotidianamente affollavano la mente e il cuore di molti resistenti. Come trattare i nemici catturati? Come comportarsi con chi poco prima aveva bruciato la casa, ucciso il compagno, passato per le armi i familiari?
E qui emerge a tutto campo la pietas
del partigiano, anzi dell'uomo De Marchi. In quei momenti in cui la vita – sono parole sue – non aveva alcun valore, e in cui si era quasi necessariamente portati a rispondere alla violenza con una violenza, l'imperativo categorico fu quello di rimanere lucidi, di mantenere sempre l'equilibrio interiore anche e soprattutto nelle situazioni limite.
Perché solo controllando le emozioni, era possibile sostituire alle ragioni della forza quelle del dialogo, della persuasione, e perché no, anche del perdono.
Molte pagine sono poi dedicate alle vicende e ai luoghi della lotta, e cioè al Cansiglio, all'Alpago e al paese di Montanes, sempre nel cuore del protagonista, e soprattutto alle popolazioni dell'Altopiano che, pur apparentemente relegate sullo sfondo delle vicende narrate, rappresentano i protagonisti assoluti di quegli anni, condizione sine qua non
dell'esistenza del fenomeno partigiano. Sono infatti le popolazioni che nascondono, sfamano e aiutano nei momenti di difficoltà il partigiano Rolando (all'anagrafe Nino De Marchi), e come lui molti altri, rischiando in prima persona la vita e tutti i propri averi.
Non mancano anche gli episodi per così dire leggeri, come l'incontro di Tilman con Johnson, il qui pro quo
con gli alleati relativamente ai