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Un partigiano del comandante “Pippo”: L'XI Zona nei ricordi di "Pelo"
Un partigiano del comandante “Pippo”: L'XI Zona nei ricordi di "Pelo"
Un partigiano del comandante “Pippo”: L'XI Zona nei ricordi di "Pelo"
E-book293 pagine4 ore

Un partigiano del comandante “Pippo”: L'XI Zona nei ricordi di "Pelo"

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Info su questo ebook

Aldo Battaglini detto "Pelo", partigiano di "Pippo", il famoso comandante Manrico Ducceschi, dopo molti anni scrive un libro componendo frammentati ricordi e ricostruendo la vita da "bandito". Ragazzo di vent'anni, ha però le idee chiare e lotta, soffrendo la fame e il freddo, contro i tedeschi e i fascisti. Lotta contro il male che il fascismo ha inculcato in quei giovani ragazzi, lotta contro l'odio insegnato a scuola e lotta contro l'impossibile amore per la guerra. Ma non è solo diario di battaglie e scontri il lungo racconto del partigiano Battaglini. La narrazione ci porta a conoscere la geografia della montagna, del territorio tenuto dall'XI Zona, composta da capanne, foci, sentieri, pendici e crinali, e ancora uomini e donne. E qui gli incontri e l'aiuto della popolazione ai partigiani, anche quando sanno che su "Pelo" pende una taglia da ventimila lire. L'autore, in prima e terza persona, racconta l'8 settembre, l'impiego come carabiniere ausiliario e infine la scelta di darsi alla macchia e fare il partigiano. Pubblicazione in collaborazione con Associazione Volontari della Libertà Lucca (AVL - FIVL).            
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2018
ISBN9788899735449
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    Anteprima del libro

    Un partigiano del comandante “Pippo” - Aldo Battaglini

    Nota per il lettore.

    Aldo Battaglini scrive queste memorie in alcuni anni seguendo due stili di stesura: la prima e la terza persona. Alcuni racconti riferiscono di eventi già precedentemente raccontati nel testo. Abbiamo voluto lasciarli tutti come il partigiano Pelo volle presentarli.

    Prefazione

    Il racconto che da tanto tempo avevo in animo di scrivere ha avuto una sua prima, travagliata nascita nel 1988. A quell’epoca si chiamava PELO, che era il titolo più ovvio da dare ad un libro di memorie di un partigiano che aveva come nome di battaglia, appunto, Pelo.

    Mettere sulla carta, dapprima a mano e poi ricopiare a macchina, due anni di vita partigiana, mi costò circa tre mesi di duro lavoro.

    Alla fine le mie fatiche erano contenute in circa 250 fogli dattiloscritti. I parenti e gli amici che, dietro la mia indefessa pressione, dovettero sobbarcarsi l’onere di una pesante e noiosa lettura, dovettero poi trovare il coraggio di dare al sottoscritto i loro spassionati pareri.

    É troppo lungo.

    É pesante e monotono.

    Non c’è calore.

    É ripetitivo. Noioso. Prolisso.

    Questi erano i pareri più frequenti. Io, che ero nella convinzione di aver scritto un’opera che sarebbe passata ai posteri come una delle più belle mai scritte, ascoltavo demoralizzato.

    Il mio prezioso e faticato manoscritto finì in un cassetto nel quale ha passato alcuni anni. Ora è tornato a galla, ha preso una forma completamente diversa, è scritto in uno stile che niente ha da invidiare a quello dei grandi ed è pronto per essere stampato in migliaia di copie che andranno a ruba.

    Intanto ringrazio di cuore quei pochi che saranno tanto valorosi e cortesi da voler trovare il tempo, la voglia e la pazienza per una prima coraggiosa lettura.

    Un particolare ringraziamento rivolgerò a coloro che, tra quei pochi che troveranno il coraggio di leggermi, useranno ad ogni piè sospinto il favore di pensare che io non sono uno scrittore; non uno scrittore dilettante né, tanto meno, uno scrittore professionista.

    Non ho seguito corsi di specializzazione, non sono uno storico, in me non c’è la presunzione di ricostruire la storia della formazione partigiana nell’ambito della quale ho avuto la fortuna di combattere.

    Nessun’altra intenzione ho se non quella di raccontare, più che altro a me stesso, alcuni episodi di vita vissuta, intensamente vissuta, in quel periodo bollente.

    Fra l’altro è necessario ricordare che da allora sono passati la bellezza di oltre cinquanta anni e che la memoria può permettersi di fare brutti scherzi. É doveroso pensare che quando ci si incontra tra amici che hanno vissuto, allora, la mia stessa vita e, fra gli amici, quelli che hanno vissuto la stessa avventura, non riusciamo a ricordarla nello stesso modo!

    Eravamo sullo stesso sentiero, a venti metri l’uno dall’altro, eravamo immersi nello stesso episodio: io ne ricordo lo svolgimento in una data maniera, egli in un’altra.

    Forse è la legge della vita che impone queste cose, forse è il trascorrere implacabile del tempo, che tutto cambia e deforma.

    Ma la cosa ha una importanza relativa, se si tiene presente il fatto che io non pretendo di esibire la verità assoluta; non sono io quello che può giurare su quanto è realmente accaduto tanti anni addietro.

    Aderendo a quanto io ritengo sia la verità, mi sono permesso ad un certo punto di correggere quanto è stato scritto, in una sua opera, da un amico¹: gli errori nei quali egli è caduto (alcuni hanno ben poca importanza) non sono da addebitare a lui ma piuttosto al fatto che egli non era con noi in quel periodo.

    Comunque, e questo è il punto, nel caso mi trovassi a dover giurare sulla verità di alcune delle mie asserzioni, sentirei il dovere di rifiutare.

    Aldo Battaglini detto Pelo

    Introduzione

    Durante l’ultimo conflitto (e speriamo che sia l’ultimo) molti uomini, in tutte le parti del mondo, si sono trovati costretti a condurre un tipo tutto particolare di guerra: la guerriglia contro i nemici che avevano occupato (militarmente in molti casi, in altri casi politicamente) le loro terre.

    Solo per fare alcuni esempi, questo è successo in Francia per ben quattro anni sotto il dominio delle truppe tedesche, nella parte della Russia occupata dai nazisti, nella Iugoslavia, in Polonia, in Finlandia, in Norvegia, in Grecia. Ma anche nella Birmania e in tutte le terre e le isole del Pacifico occupate dai giapponesi, nel Laos, in Cambogia, nel Vietnam, in India. E in Italia.

    In alcuni paesi la guerriglia era organizzata in maniera più complessa ed articolata, più organizzata, diciamo; in altri era un movimento nato pressoché spontaneamente: giovani e meno giovani che si recavano in montagna o in collina, oppure nelle paludi; molti, all’inizio, solo per sfuggire al nemico nascondendosi. Alcuni, più illuminati e coscienti, allo scopo di organizzare una resistenza (la resistenza, così venne chiamata in Italia) da opporre al nemico fascista e tedesco, nel caso particolare dell’Italia.

    Grandi erano le difficoltà che questi uomini dovettero superare: la mancanza di vestiario adatto (buona parte della mia guerriglia è stata da me combattuta in pantaloncini corti e camicia, sempre sui 1.700 metri di quota, dove fa sempre freddo), di denaro, di viveri, di armi e munizioni.

    Ma la mancanza più sentita, forse, è stata quella di uomini preparati al comando, uomini che conoscessero almeno le regole più elementari della guerriglia: buona parte degli ufficiali del fu esercito italiano era sparita, dissolta; è successo così che uomini assolutamente impreparati si siano trovati al comando di formazioni composte di migliaia di persone, conducendole spesso (innumerevoli sono gli esempi) a disfatte terribili.

    Guerriglia. Leggiamo la definizione che della parola dà il GE20, volume X, pagina 162:

    Tipo particolare di attività bellica svolta da bande armate autonome che, con attacchi di sorpresa, imboscate e sabotaggi, operano per abbattere un regime politico contrario o per liberare il territorio nazionale, occupato da un nemico esterno. Condizione indispensabile per il successo della guerriglia è il consenso della popolazione locale che aiuti logisticamente e copra le mosse dei guerriglieri e, generalmente, anche l’appoggio di un governo amico che invii armi e danaro […].

    Potremmo vedere anche, e potrebbe essere utile, la definizione che della stessa parola dà il Vocabolario della lingua italiana di Devoto-Oli: Serie discontinua di azioni di guerra condotte da formazioni autonome di scarsa entità, generalmente favorite dalla conoscenza dei luoghi e dall’aiuto della popolazione civile.

    La guerriglia, dunque, si combatte partendo da basi nascoste al nemico e attaccandolo di sorpresa dovunque sia possibile, per causargli danni, distrarre truppe e mezzi da altri impieghi, e provocare nel nemico un costante e demoralizzante stato di preoccupazione per la sempre possibile e distruttiva sorpresa.

    All’attacco di sorpresa segue sempre la fuga verso la base segreta.

    Così si opera durante la guerriglia, non occupando stabilmente territori più o meno vasti con l’intento di difenderli dall’attacco del nemico. Questa strategia non può che portare alla disfatta totale.

    Vedi quello che successe alla cosiddetta Repubblica di Montefiorino, le varie, tragiche vicissitudini delle Langhe e la triste fine della gloriosa Repubblica della Val d’Ossola, oltre alle morti e alle distruzioni. Dalla Val d’Ossola circa 35.000 persone dovettero cercare scampo fuggendo in Svizzera.

    Per fortuna nostra e delle popolazioni della nostra zona, il nostro comandante (Manrico Ducceschi, detto Pippo) non era uno sprovveduto soldatino levatosi ad un rango che non gli apparteneva, ma un’ufficiale dell’esercito che evidentemente aveva idee chiare sul come doveva essere combattuta la guerriglia partigiana. Anche noi occupavamo una nostra zona, ma nascostamente; avevamo dei piccoli presidi posti a guardia dei punti fondamentali per l’accesso e, all’interno della zona da questi delimitata, un luogo (capanne di pastori abbandonate) nel quale risiedeva il comando.

    I distaccamenti erano diversi e posti a difesa dei punti più importanti, come passi obbligati e punti dominanti. E, da quanto riesco a ricordare, distaccamenti volanti che risiedevano un giorno in un luogo, l’altro in altro luogo, spostandosi continuamente.

    Da queste basi partivamo per le nostre imprese.

    Questa era la situazione prima che la formazione, così chiamavamo la nostra banda, si spostasse in Emilia a seguito di informazioni che davano per sicura una sostanziosa incursione delle truppe nemiche. Erano giunti gli alpini (tedeschi) a Bagni di Lucca, truppe scelte, e noi eravamo ben coscienti della nostra debolezza (numero di uomini e addestramento, armi, munizioni, viveri) e del grosso rischio al quale avremmo esposto tutti gli abitanti nella zona e gli innumerevoli paesi posti lungo il perimetro. Tutta gente che ci aveva dato quanto poteva e di buon grado.

    Una vita scomoda

    Pelo. Era il suo soprannome.

    Gli era stato attribuito dai suoi nuovi compagni non appena questi avevano avuto occasione di vederlo a torso nudo. Ché aveva il petto e la schiena – quest’ultima solo in parte – coperte da un folto vello. Donde il nome di battaglia: Pelo.

    Quasi tutti avevano un nome di battaglia: il Piccolo (era il più giovane), Garibaldi (difficile indovinare le sue idee politiche), Balistite (meglio non stuzzicare), Bellezza (il più brutto) e poi Modena, Leone, il Fiorentino, Torello, Capretto e tanti e tanti altri. Fra i quali Cefas (Salvatore, di Cefalù), il Vecchio e Pippo, il comandante.

    Era stato assegnato al distaccamento della Foce. La Foce di Campolino. La Foce per antonomasia: la più alta, la più rude, la più forte, la più panoramica. La più; la Foce!

    Ed era ormai diventato un vero partigiano; ne aveva i vestiti logori, gli scarponi sdruciti, la barba ispida e, forse, anche l’aspetto duro, deciso. Questo gli derivava, oltre che dalla vita che era costretto a condurre, dal fatto che si era trovato finalmente a combattere dalla parte giusta, contro i nemici veri, quelli di sempre. Dal fatto, di conseguenza, che ora combatteva spinto da un ardore feroce.

    Pelo si sentiva un vero partigiano, un bandito, come dicevano i fascisti ed i tedeschi.

    Ed era diventato uno degli uomini che godevano della piena fiducia di Pippo.

    Un giorno, come faceva rischiando ogni qual volta gli era concesso, era tornato, e solo per alcune ore, al tranquillo paese sulla carrozzabile. Per rivedere Rina, per andare dal barbiere, per lavarsi.

    Certo, non poteva più permettersi il lusso di fare il gradasso passeggiando in divisa, unica autorità del posto, sulla strada statale. Come faceva mesi addietro. Allora aveva una divisa che, se non lo coinvolgeva intimamente, almeno lo teneva relativamente protetto. Ora non poteva permettersi di passeggiare sulla strada; doveva percorrere i sentieri nascosti e farsi vedere meno possibile.

    Quel giorno, su un sentiero nascosto, incontrò un giovane che conosceva. Seduti su una pietra, all’ombra dei castagni, si informarono reciprocamente sulle cose della vita del momento. Fumando una sigaretta. Parlarono di Santina, naturalmente, e di Luciana; poi della disgrazia del momento, tedeschi e fascisti, della grossa trota che Guido aveva pescato e di altre cosette.

    Avvenne, parlando dei nemici, che il giovane gli disse che egli aveva deciso di andare in montagna, insieme ad alcuni amici.

    Come dobbiamo fare?

    Facile: basta venire su. Però è meglio se io ne parlo prima al comandante e sento quale decisione egli prende. Solo dopo potrete venire con noi.

    Decisero: Pelo sarebbe partito subito, diretto ai monti, al comando, e avrebbe parlato al capo, a Pippo. Poi sarebbe tornato giù e si sarebbero ritrovati il giorno dopo a notte fatta e pronti ad una immediata partenza, vicino a quel castagno, sito al limite del Pian del Geppe, il pianoro subito sopra al paese, che era poi il castagneto nel quale si trovavano in quel momento. Presso il castagno essi avrebbero atteso: se Pelo non fosse giunto nel volgere di un’ora, voleva dire che la risposta di Pippo era stata negativa. Si salutarono e partì.

    Quella che lo aspettava era una lunga camminata, ma ora era ben allenato e inoltre conosceva la strada da percorrere passo per passo: ne conosceva tutte le curve, tutti i sassi, i tornanti, le asperità, le scorciatoie, e sapeva dove prepararsi alla salita o alla discesa. Sapeva dove attraversare il torrente; anche al buio trovava le pietre che potevano facilitare il guado e sapeva dove deviare per evitare la capanna del pastore del quale era meglio non fidarsi.

    Andò dal capo e gli parlò, ed egli chiese qualche informazione sull’amico che voleva unirsi a loro e su coloro che poteva presumere sarebbero stati i suoi compagni. Acconsentì all’arruolamento del nuovo gruppetto, però voleva prima un colloquio con loro. Percorse nuovamente la strada conosciuta, in discesa questa volta, e si indirizzò al luogo dell’appuntamento.

    Non si fidava molto di questi appuntamenti presi con tanto anticipo, in luoghi così ben definiti, ad ore precise: si prestavano a troppe sorprese e le sorprese erano sempre brutte. Per questo era sul luogo con due ore di anticipo, quando faceva ancora giorno. Invece di fermarsi vicino alla pianta stabilita, si mise ad una certa distanza da questa, con alle spalle la macchia che poteva offrirgli una sicura via di fuga, naturalmente non prima di aver esaminato con cura gli immediati dintorni e averli trovati assolutamente deserti.

    Pioveva. Seduto su un grosso sasso si preparò alla lunga attesa. Poi (quanto possono essere lunghe due ore!) sentì nel buio i passi attutiti di alcune persone che si avvicinavano. Erano non più di quattro o cinque, lo capiva anche se non li poteva vedere, ed era gente che conosceva bene il posto: camminavano nel buio con passo sicuro, senza urtare una pietra o una radice. Silenziosamente e silenziosamente lo attesero sotto il castagno. Quel comportamento da gente che conosceva perfettamente i luoghi gli dette la sicurezza di cui aveva bisogno. Si sollevò dalla fredda e dura pietra, finalmente, e si avvicinò al gruppetto in attesa nel buio, sotto la pioggia leggera, fredda, insistente. Con un breve fischio si fece sentire: rispose il giovane col quale aveva fissato l’appuntamento e da lui si fece dire i nomi di coloro che lo accompagnavano. Nomi che già conosceva, anche se non tutti personalmente. Si trattava di ragazzi del paese sparso sullo stradale, ed erano cinque in tutto, compreso l’uomo che aveva stabilito il contatto.

    Scusandosi con loro per la precauzione, si accertò, perquisendoli velocemente, del fatto che nessuno di loro possedesse un’arma. Tranquillizzato, ripose la pistola che teneva in mano e disse brevemente: Andiamo.

    Si incamminò a capo della breve fila, prendendo la strada lunga per evitare il paese poco più sopra, i suoi cani ed i suoi troppi pericoli. Prese la strada – lassù le chiamano strade, ma sono solo sentieri, a volte ampi, comodi, pianeggianti, altre volte larghi appena quanto è largo un piede e aspri, sassosi, scoscesi – che saliva lentamente lungo il torrente e ogni rumore era coperto dal fragore dell’acqua che precipitava, indifferente a tutto, di sasso in sasso. Più in alto deviò e prese direttamente, attraverso la macchia e poi nel castagneto, verso la strada alta, quella che dal paese che aveva evitato con quel lungo giro portava al passo; una volta trovatala, la seguì. Era una salita impervia, dura, sassosa e per niente agevole, specialmente di notte, col freddo e ormai bagnati come pulcini. Teneva un buon passo, malgrado l’oscurità, e gli altri lo seguivano abbastanza facilmente, sempre in fila, a brevissima distanza l’uno dall’altro e sempre silenziosamente. Gente che sapeva camminare e che conosceva la strada che stavano percorrendo. Rallentò solo quando si rese conto di essere a breve distanza dal posto di guardia che sorvegliava il sentiero ed avvertì gli altri del fatto che presto sarebbero stati fermati. Poteva essere pericoloso, poteva costare la vita avvicinarsi incautamente, di notte, ad un posto di guardia sui monti: gli uomini erano sempre all’erta e nervosi, e poteva bastare poco per prendersi una pallottola nella pancia.

    Lanciò un breve richiamo, al quale rispose immediatamente lo scatto di due Sten che venivano armati, seguiti, un attimo dopo, da una voce che chiedeva, sommessamente, chi fossero.

    Sono io, Pelo.

    Erano, questi, i ragazzi che conosceva, con i quali aveva già passato tanto tempo, e si avvicinò tranquillamente. Naturalmente gli chiesero chi fosse con lui e quanti e dove andavano a quell’ora e con quel tempo; chiesero inoltre se qualcuno aveva da fumare e da qualche parte venne fuori un pacchetto di sigarette che furono offerte a tutti. Uno dei cinque, proteggendolo con la mano, accese un fiammifero: un lampo di luce gli permise di vedere in faccia, per un breve momento, uno dei compagni di quella notte: il volto teso di un giovane biondo, forse diciotto anni, madido di pioggia. La luce illuminò e fece brillare una grossa goccia che in quel momento si stava staccando dal suo naso.

    Il giovane lo stava guardando ma non sapeva cosa vide, non sapeva cosa provò nel trovarsi per la prima volta e in quella insolita circostanza di fronte ad un bandito. Lui, un vero partigiano, un bandito, un uomo con la taglia sulla testa! Già: allora davano un premio in denaro o in sale a chi aiutava la cattura di un ribelle, e gli par di ricordare che il premio ammontasse alla bella cifra di duemila lire: tanto valeva la vita di un uomo, allora!

    Era comunque una bella cifretta, tale da trarre in tentazione tante persone di pochi scrupoli. Ci fu una breve conversazione con i due uomini di guardia: il freddo della notte, la pioggia, cose così, per poi ripartire. Ancora pochi minuti ed erano al coperto nella Marginetta della foce. Era questa una cappellina poco più grande della norma, forse tre metri per tre, salde mura, pavimento in pietra e sullo fondo un altarino con una semplice figura di Madonna. Opere semplici, queste delle Marginette, costruite anni e anni addietro da semplici uomini pieni di fede.

    Entrò seguito dagli altri e dette subito disposizioni perché qualcuno andasse a prendere un po’ di legna (ce ne era tanta dietro la parete dell’altare), e quelli andarono, li sentiva muoversi nel buio, li sentiva ma non li vedeva; andarono a tentoni e tornarono con due buone bracciate di legna secca ma bagnata dalla pioggia. Non fu facile accendere il fuoco con quella legna bagnata, ma finalmente il difficile compito riuscì e fu un grande piacere vedere una timida fiammella spuntare nel mucchio e, mano a mano che si asciugava la legna intorno, ingrandirsi, farsi viva, allegra, tiepida prima e poi calda.

    Si sedettero sulla pietra intorno cercando di farsi più vicini possibile e tendendo le mani per scaldarsi meglio. Gli abiti bagnati cominciarono piano piano ad asciugare, fumigando di un tiepido vapore biancastro; iniziavano a stare bene al caldo tepore del fumante, crepitante, fiammeggiante mucchio di legna ardente.

    Mentre si scaldava, guardava le facce intorno: oh, non erano belle da vedere in quel momento e, del resto, neppure lui doveva essere bello, ancora bagnato e fumante.

    Cinque uomini giovani, cinque tipi diversi, cinque facce bagnate e ancora livide per il freddo. A parte uno di forse trent’anni, alto, asciutto, scuro di pelle e dalla faccia scolpita, gli altri erano giovani dai diciotto ai ventidue, ventitré anni. Uno, quello che aveva intravisto nella luce del fiammifero, il più giovane, era poco più che un ragazzo, una faccia da paffuto bambino viziato.

    Si sorprese a pensare: questo non ce le farà. Un’altro era un ragazzo dal viso lentigginoso, lo conosceva bene e lo sapeva un ragazzo dalla battuta pronta, sempre allegro, vivace, scattante, occhi vispi e faccia scarna.

    Poi c’era – anche questo lo conosceva bene e anche per lui nutrì dei dubbi – un giovanotto grassottello, di statura intorno alla media, piuttosto timido, carnato roseo: da ragazzo doveva somigliare molto ad un bel porcellino quasi pronto per la griglia. Ultimo, l’amico che aveva preso il contatto con lui. In quel momento sembrava quello che aveva risentito di più della durezza della fatica e del freddo, e la cosa gli causò una certa sorpresa perché lo aveva ritenuto, da quando lo conosceva, un tipo piuttosto duro. Vedremo!

    Venne il momento di coricarsi (eufemismo), dopo aver ben caricato il fuoco che li scaldasse tutta la notte:

    Se qualcuno si sveglia nella nottata, si alza e esce per andare a prendere altra legna. Poi si distese sulla pietra (la pioggia crepitava sul tetto) e si addormentò. Non bastavano certamente la pietra e la mancanza di un cuscino per tenerlo sveglio!

    Dormì tutta la notte: al risveglio notò subito che il tempo era cambiato, il sole entrava dall’arco senza porta, il fuoco era spento. Nella Marginetta era solo: gli altri erano usciti.

    Si levò dalla dura pietra ed uscì a sua volta: erano seduti al sole su un poggetto lì vicino. Si guardavano intorno.

    Buongiorno, ragazzi. Come va?.

    Male! Siamo stati svegli tutta la notte.

    E perché?.

    Era freddo e sulla pietra io non riesco a dormire e neanche gli altri. La concisa affermazione veniva dal più giovane.

    Il sole, ancora basso, metteva in risalto i lineamenti, ne forzava le rilevanze. La sua luce era ancora fredda, le ombre, lame taglienti, davano risalto al quadro composto da quei cinque giovani variamente appoggiati o seduti sulle pietre del muretto. A fare da sfondo un breve pascolo in leggera salita, verde umido e brillante.

    Posso farti qualche domanda? Era il più anziano che parlava, ora.

    Certo.

    Fu un fuoco di fila di domande e risposte.

    Come si dorme, lassù, dove siete voi voglio dire?.

    "Beh, dipende. Alcuni distaccamenti hanno capanne per tutti, altri no. Dove sono io, per esempio, ci sono due capanne con il posto per diciotto o venti persone e noi siamo in trenta. Qualcuno dorme dentro, a turno, gli altri fuori.

    All’aperto? Lassù, a millenovecento metri è freddo!.

    In genere quelli che debbono dormire all’aperto hanno una o due coperte.

    E se piove?.

    Cerchiamo di stringerci e di fare posto per tutti.

    E coperte? Di coperte ce ne sono per tutti?.

    "Non so come stanno a coperte gli altri distaccamenti. Dove sono io ci sono coperte per tutti quelli che dormono fuori, e ne avanzano alcune per quelli che possono dormire dentro. Io, in genere, insieme ad altri, mi copro con un paracadute.

    Si rese improvvisamente conto di aver dimenticato di dire ai ragazzi di portarsi una coperta. Ma ormai era fatta!

    E da mangiare?.

    "I viveri sono sempre pochi. Si mangia quando qualcuno scende nei paesi e rimedia qualcosa. A volte c’è pochissimo! Ora è un periodo in cui si mangia una volta al giorno, una sola volta ma tutti i giorni. Una fetta di polenta al giorno. Fatta con farina vecchia e senza sale.

    E cosa c’è da fare?.

    "C’è la guardia alle capanne, c’è da procurarsi la legna, da fare la guardia alla Foce e le pattuglie sui crinali. E ogni tanto bisogna andare nei paesi più lontani, la nostra zona è molto grande, per cose varie. Poi uno deve andare tutti i

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