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Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45
Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45
Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45
E-book276 pagine3 ore

Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45

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La storia parte dall’analisi del processo evolutivo che la memoria storica del periodo resistenziale con la successiva emanazione della Carta Costituzionale ha registrato negli anni. Un percorso molto travagliato e segnato dall’avvicendarsi di eventi terroristici, eversivi e stragisti con la partecipazione anche di associazioni massoniche e agenti stranieri. Non manca un cenno alla rivoluzione partita dal Movimento Studentesco del ‘68-69 con relativi risultati. Giunge così a chiedersi come può oggi interessare e raggiungere le nuove generazioni. Quindi viene a prendere in esame gl’inizi dell’organizzazione della lotta partigiana subito dopo l’8 settembre nel nord - Italia e precisamente nelle Valli Valdesi in provincia di Torino per omaggiare amici/che e fratelli /sorelle delle Valli, cui l’autore si sente sinceramente legato da vincoli di fede e di fraternità. Anche se nel sud con lo sbarco degli Alleati in Sicilia fin dal 10 luglio del ‘43 la lotta al nazifascismo comincia molto prima dell’8 settembre. Dunque, viene rivalutata la storiografia locale meridionale con la lotta per la terra e l’intervento di Giuseppe Di Vittorio, per lo più sconosciuta a quella ufficiale. In conclusione si rivolge ancora a giovani e a quanti hanno a cuore la conservazione della pace, della democrazia e della giustizia sociale senza porsi limiti culturali e/o di nazionalità.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2019
ISBN9788831611404
Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45

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    Dal Sud al Nord. Una chiamata alla guerra partigiana del 1943-'45 - Giovanni Magnifico

    dicevo.

    CAPITOLO 1

    Memoria storica

    Quando i Partigiani combattono e, senza alcuna retorica, muoiono per non seguire la più facile soluzione di piegarsi a una esistenza contraria alla dignità, essi non suppongono neppure che al di qua delle linee, nei luoghi in cui al tedesco distruttore si è sostituita la civiltà delle Nazioni Unite, li attenda una svalutazione così terribile del loro gesto di ribellione tale cioè da portare quel gesto e quelle loro sofferte e conquistate posizioni di civiltà sul piano di un qualsiasi problema di polizia o, nel migliore dei casi, di assistenza. Tutti coloro che hanno lottato e rischiato la loro vita nella guerra partigiana (la più faticosa e tragica di tutte le forme di guerra) non dimenticheranno mai il momento in cui alla gioia della liberazione, allo sbalordimento del primo contatto con le tante attese e invocate truppe liberatrici, segue senza alcun distacco l’immediato disarmo, per taluni l’arresto come sospetti di spionaggio, per tutti poi l’invio a un qualsiasi centro di raccolta dove non stanno in alcun modo meglio di quando erano alla macchia anzi, quasi sempre stanno peggio

    (dalla pagina introduttiva di E. Biagi).

    La prima cosa che balza agli occhi leggendo questa pagina dei Patrioti è che quanto compiuto dai partigiani non sarà dimenticato. Ecco, la memoria storica accompagnerà per sempre la lotta per la resistenza e la liberazione dall’oppressione del nemico invasore, ma anche dei fascisti loro complici. Proprio quella memoria che in oltre 70 anni è stata di volta in volta annebbiata, negata, tradita, annullata e perfino calpestata a cominciare da subito dopo la fine delle ostilità.

    La svolta di Salerno del ‘44 con la frenata imposta da Togliatti ai partigiani d’Italia, l’accantonamento della questione resistenziale e l’appello a realizzare un fronte comune con gli altri partiti antifascisti per andare insieme verso la vittoria della guerra, spiazzò alquanto la Resistenza comunista, che era stata indubbiamente maggioritaria, dandole l’impressione di abbandonarla al suo destino¹¹. La successiva amnistia togliattiana del 22 giugno ‘46 che includeva fascisti e partigiani nello stesso beneficio esteso temporalmente fino al 31 luglio del ‘45¹² fu interpretata come un colpo di spugna sui crimini fascisti anche per averne esteso il senso con particolarmente efferati senza alcuna precisazione di merito. E questo non faceva altro che inasprire ulteriormente gli animi dei partigiani che si aspettavano una giustizia esemplare da parte dello Stato nei riguardi di fascisti che si erano macchiati di crimini di guerra. La magistratura, nell’indecisione di come andassero interpretate alcune norme relative ai crimini "particolarmente efferati" riportate nella disposizione di legge, finì con il derubricare i delitti fascisti a semplici atti di guerra senza l’aggravante della tortura o delle gravi sofferenze inflitte alla popolazione civile¹³, da cui le condanne più miti. Di tutt’altro tenore furono invece le considerazioni giuridiche espresse su furti e rapine eseguite dai partigiani a scopo alimentare, non inserendo tali atti fra i reati politici o di guerra, ma ritenendoli dei semplici reati comuni e quindi perseguibili penalmente. Si registrano così, purtroppo, una serie di arresti di costoro con le accuse civili le più diverse. A causa anche della mancanza di un termine di legge per la carcerazione preventiva, un certo Alfredo Barbieri, ad es., dovette scontare quattro anni e sette mesi di carcerazione preventiva prima di essere riconosciuto non colpevole dei reati ascrittigli¹⁴.

    Alla fine del ’46 ogni riferimento che era stato alla base dell’attività dei partigiani era ormai scomparso e quanto essi avevano fatto veniva interpretato esclusivamente alla luce delle norme civili¹⁵. Anche il potere giudiziario si era inserito fra gli attori che nel ‘46 avevano imbastito il cosiddetto processo alla Resistenza, trascinatosi fino agli anni ’50. Furono solamente le sollecitazioni di Togliatti e del deputato comunista Gullo che, per quanto non ottenessero un seguito immediato, riuscirono nel tempo a richiamare i giudici al rispetto dell’amnistia anche per i partigiani¹⁶ e dunque a mitigare questo aspetto non proprio meritorio della giustizia nei riguardi di coloro che avevano sofferto e combattuto per la libertà dell’Italia. Si era creato un clima di vero e proprio accanimento giudiziario verso i partigiani cui si aggiungeva una certa ostilità degli Alleati che intimavano loro di consegnare le armi entro il 7 giugno ’45. E questo perché non tutti i partigiani lo avevano fatto spontaneamente alla fine di una qualche manifestazione, secondo una disposizione di legge, in cambio di mille lire e dell’attestato di patriota¹⁷. La cronaca di quegli anni, particolarmente a ridosso dell’attentato a Togliatti, racconta di numerosi partigiani arrestati nel modenese, circa 3500, salvo poi ad essere rilasciata la maggior parte di loro, dopo qualche mese di carcerazione¹⁸. Ma la vicenda che causò più danni al PCI, e in generale alla Resistenza, fu invece quella relativa a un suo deputato, certo Francesco Moranino, che accusato di aver ordinato alcuni omicidi illegali durante la Resistenza, fu costretto a riparare in Cecoslovacchia per sottrarsi all’arresto¹⁹. Il , tuttavia, non si ferma qui. Lo stesso Ferruccio Parri, Maurizio da partigiano, e già primo ministro, dovette subire gli attacchi della stampa fascista che lo accusava ingiustamente di essere stato liberato da Mussolini dalla cattura delle SS, avvenuta all’inizio del 1945. Gli attacchi fascisti dalle pagine del "Merlo giallo continuavano ad opera di un certo Alberto Giannini. Finché, esasperato, Parri querelò il giornalista. Nel collegio difensivo arrivò, verso la fine del processo, lo stesso avvocato costituzionalista Piero Calamandrei. Alla fine la causa si chiuse con la condanna definitiva di Giannini a 14 mesi di reclusione e al pagamento delle spese legali, il cui ammontare di 50.000 lire, che sarebbero andate all’onorario dell’avvocato, fu destinato dallo stesso Calamandrei al giornale Resistenza di Torino²⁰. F. Parri fu ancora accusato di aver fatto il doppio gioco, come tutti coloro che avevano fatto la Resistenza, in quanto si erano innalzati su un piedistallo fatto di fango e sangue". Questa volta, tuttavia, la causa non ebbe buon fine per cavilli tecnico-giuridici e i due giornalisti, al soldo dei fascisti, che avevano iniziato questa seconda campagna di diffamazione, godettero alla fine dell’amnistia Togliatti²¹.

    Inoltre, non possono essere dimenticati o passati sotto silenzio il clima d’intimidazione e di paura che si voleva creare appositamente sul conto del PCI da parte del Ministro degl’Interni Mario Scelba, che parlava a vanvera di un ipotetico "piano K" dei comunisti volto alla conquista del potere. Spauracchio rispolverato in coincidenza della estesa sollevazione popolare dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio ‘48²². D’altronde non si sa bene fino a che punto gli Alleati abbiano alimentato questo clima. In considerazione, forse, degli stretti rapporti del PCI di allora con il comunismo dell’Unione Sovietica? Così come non si possono tacere i continui attacchi dei media a Ferruccio Parri con l’intento di indebolire non tanto l’immagine del PCI e, nella fattispecie, del Partito d’Azione, quanto piuttosto la Resistenza in toto da parte di un giornalismo di chiara matrice fascista²³. Questo almeno nelle intenzioni, perché sul piano pratico tali attacchi non fecero altro che rigenerare la Resistenza e lo stesso Parri 24.

    Ma è anche vero che il clima di guerra e di tensione tra fascisti e antifascisti era ancora rovente alla fine della guerra e che, oltre all’interpretazione equivoca di alcune norme di legge da parte di una magistratura ancora infarcita di elementi fascisti, come già detto, si aggiungeva spesso una chiara volontà giudiziaria di non dare immediata esecuzione a condanne a morte definitive, come nel caso di Novena, Racca e Simionato nel Pinerolese²⁵. Attese così lunghe da consentire l’arrivo della promulgazione della Carta Costituzionale che annullava la pena capitale. D’altronde anche da parte degli organismi di polizia (prefetture, questure) si poteva notare un certo atteggiamento di favore nei riguardi di capi fascisti resisi colpevoli di omicidi o di delitti efferati. Tra l’altro, non si dimentichi che proprio durante la ritirata i nazisti, aiutati attivamente dai fascisti, avevano eseguito degli eccidi inutili e spietati di partigiani e civili (tattica della cosiddetta terra bruciata). Solo a Reggio Emilia, per es., furono ammazzati fra il 24 e il 25 aprile del ’45 ben 105 partigiani e 65 civili²⁶; a Grugliasco e Collegno furono trucidati 68 fra sappisti, altri partigiani, civili e un sacerdote durante la ritirata dei nazisti dal 28 al 30 aprile²⁷. Tanti altri episodi del genere si verificarono, purtroppo, durante la ritirata dei tedeschi dalle nostre terre, al nord come al sud. Fu, appunto, in quel clima carico di delusioni-tradimenti da parte del PCI e dello stesso Togliatti, di tensioni interne alla stessa ANPI, che finì con il dare origine ad altre due associazioni, di processi intentati dalla magistratura a carico di partigiani che non godevano più dell’amnistia Togliatti dopo il 31 luglio del ’45 (limite previsto dall’amnistia per fatti di guerra suscettibili del beneficio), di sofferenze e di violenze subite perfino nel momento della ritirata delle truppe naziste dal nostro territorio, di mancata epurazione di fascisti dalle istituzioni pubbliche ed infine di guerra fredda che nacquero – in quel clima, ripeto, carico di tutte queste tensioni – episodi di vendette, ritorsioni, stupri, torture, esecuzioni sommarie, da parte di partigiani contro fascisti o solo sospettati tali e loro parenti. Una strage che è avvenuta in tutte le regioni del nord con migliaia di morti ammazzati, a cominciare dallo stesso Piemonte fino ad arrivare all’Emilia Romagna. Così, ad es., da un videotel del 19.04.1994 fu rinvenuto nell’Archivio di stato un censimento eseguito dal Ministero degli Interni nel 1946, mai reso noto, che i fascisti giustiziati dall’aprile al luglio del ’45 furono 8197 e 1167 i morti dubbi, non sicuramente di matrice antifascista. In totale ci furono 9364 morti, di cui il maggior numero si riscontrò a Torino e non a Bologna come si era creduto fino ad allora. Le regioni maggiormente interessate, oltre al Piemonte e all’Emilia Romagna, furono il Lazio, le Marche, l’Umbria e l’Abruzzo. Nel Veneto, come in altre parti d’Italia, ci furono delle vere e proprie rappresaglie contro i fascisti carcerati, i quali venivano prima liberati con qualche scusa (trasferimento presso altre galere o Tribunali militari per essere giudicati), poi fucilati. Accadde a Schio per 54 detenuti, a Ferrara per 18, ma anche in Emilia, a Carpi per 16, a Cesena²⁸, ecc.

    Lo scandalo di tutti questi episodi non venne subito a galla sia per la scarsità della relativa letteratura sia perché ben coperti anche da una certa politica istituzionale, che aveva tenuto nascosto un accordo segreto con la Germania inerente efferati delitti di matrice nazifascista, ma anche partigiana, nel cosiddetto armadio della vergogna allo scopo di far entrare la Germania nella NATO²⁹.

    Negli anni 60-70 cominciarono a uscire resoconti, reportage e romanzi che li denunciavano pubblicamente. Non si poteva più continuare a fingere che tali eccidi non fossero mai avvenuti, dal momento che erano cominciati già nel ’45, proseguiti nel ’46 e in alcuni casi anche nel ’47 e oltre. Né si poteva giustificarli, seppure a diversi anni dalla conclusione della guerra. Si sarebbe potuto al massimo comprenderli per le molteplici ragioni suddette, ma mai e poi mai si sarebbe potuto giustificarli. In alcune parti d’Italia, però, come nelle Valli Valdesi, non si è mai verificato un solo episodio di vendetta o di giustizia fai dai te eseguito dai partigiani locali³⁰. E non perché non avessero nutrito, anche loro valdesi, la tentazione di far fuori chissà quanti fascisti che durante la guerra si erano comportati da veri carnefici. Ma perché le motivazioni politicopartitiche non erano così esasperate come altrove e forse anche perché la loro fede glielo impediva, lasciando solo a Dio la vendetta, intesa come giustizia³¹, e alla giustizia umana il suo corso.

    Certo è che la Resistenza non ne esce bene da questa che resta, pur sempre, una pagina molto triste della lotta partigiana, seppure condivisa da gruppi di facinorosi che non si rassegnavano all’idea che la guerra era finita e che ormai dovevano essere la politica e le istituzioni a procedere sulla strada di una vera epurazione di elementi fascisti dalle istituzioni a cominciare dalla magistratura, impedendo e prevenendo, così, ogni rigurgito di fascismo. A distanza di oltre 70 anni, tuttavia, dobbiamo amaramente constatare che ben pochi sono stati i tentativi in tal senso coronati da successo.

    Strategia della tensione e strage di Portella della Ginestra

    Con l’ affare Tambroni del 1960 inizia la fase della memoria offesa e calpestata della Resistenza. Alla caduta del governo liberale guidato da Antonio Segni, il neopresidente della Repubblica Italiana, Giovanni Gronchi, chiamò il democristiano Ferdinando Tambroni a formare il nuovo governo. Ma questi non volle rischiare di convocare il PSI, perché i socialisti non erano ben visti dalla Chiesa e dagli stessi Alleati. Pensò, dunque, di fare un governo DC-MSI, per quanto si sapesse bene che le radici di quest’ultimo affondassero direttamente nella RSI (Repubblica Sociale d'Italia), sorta per l'intervento tedesco dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso. Pertanto, fugata la minaccia di essere sciolto e vistosi, anzi, salito improvvisamente alla ribalta della politica nazionale, il Movimento Sociale programmò il Congresso Nazionale per il 30 giugno a Genova, già roccaforte della Resistenza. Qui, tuttavia, la sezione locale dell’ANPI unitamente ai vari comitati locali di liberazione e ai sindacati dei lavoratori fece muro unico contro il tentativo di totale legittimazione del partito fascista. Famoso è rimasto a questo riguardo il discorso di Sandro Pertini, due giorni prima del congresso, alla popolazione genovese sulla lotta dei partigiani per la libertà e sul ricordo dei loro martiri fucilati in varie località cittadine dai fascisti. Sta di fatto che il Congresso fascista fu impedito al costo di qualche ferito soprattutto fra gli agenti di polizia, mentre nello stesso giorno il presidente dell’ANPI, Giorgio Gimelli, faceva un giro in macchina con il questore per riportare la calma e assicurarsi che non fosse sparato neppure un colpo di pistola fra i convenuti in piazza, nonostante fossero tutti armati³².

    Non così pacificamente si svolse la manifestazione antifascista a Reggio Emilia qualche giorno dopo. Qui, infatti, la polizia caricò, sparando sulla folla inerme e lasciando a terra cinque morti. Il giornalista Carlo Levi scrisse sul settimanale <ABC> che era sorta una "Nuova Resistenza³³. Il Movimento Sociale Italiano, nato nel 1946 ad opera di reduci della RSI, chiuse la sua esistenza nel 1995, ma altri partiti, come l’araba fenice, sorsero dalle sue ceneri (Alleanza Nazionale, Movimento Sociale Fiamma Tricolore, Casa Pound e Fratelli d’Italia) di cui oggi sono rimasti attivi gli ultimi due³⁴. Memoria devastata dai tanti attentati e stragi perpetrate ai danni di cittadini inermi da parte di ricchi borghesi o proprietari agrari unitamente ad organizzazioni mafiose, a settori deviati delle istituzioni, ad organizzazioni massoniche, come la P2, talora pilotati dalla lunga e invisibile mano degli Alleati americani³⁵. Secondo alcuni magistrati³⁶ si può cominciare a parlare di strategia della tensione" a partire dalla strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947³⁷, perché fin da allora si voleva colpire il comunismo, come nelle stragi del ’92-93, per mano di Cosa Nostra per impedirgli di andare al governo. Era in corso il corteo del lavoro del I maggio, formato da famiglie intere con ragazzi e bambini. I lavoratori, prevalentemente contadini, chiedevano di utilizzare i campi agricoli abbandonati o lasciati al pascolo di ovini per coltivarli e sfamare con i raccolti le proprie famiglie, vista la grave povertà esistente nella Sicilia di quegli anni. Ma, a un certo punto, si scatenò l’attacco brutale di un gruppo di mafiosi capeggiato dal bandito Salvatore Giuliano. Vi fu una strage di 14 persone, fra cui tre bambini, e numerosi feriti. A distanza di anni fu accertato che il complotto di strage fu ordito dai latifondisti siciliani locali, politici indipendentisti isolani, qualche onorevole locale con probabile collaborazione di servizi segreti degli USA³⁸. Quello di Portella della Ginestra "fu solo il primo di una serie di eccidi; Andria, Melissa, Policastro, Montescaglioso, Partinico: in tutto il Meridione gli eccidi della polizia non si contano.

    La fame di terra del mondo contadino acquista una forte carica eversiva, ma non riesce a mutare i rapporti di classe esistenti, non solo per via della repressione poliziesca, ma soprattutto per i propri limiti: non basta occupare le terre. Aveva scritto profeticamente Gramsci nel 1920: Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se arriva al raccolto senza prima essersi impiccato al più forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico della terra incolta) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall’invasione? ³⁹.

    Poi il colpo di stato mancato del "Piano Solo", pianificato dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo del 1964⁴⁰, al quale, sembra, abbia preso parte anche l’organizzazione Gladio del principe nero Junio Valerio Borghese che avrebbe tentato anch’esso un piano di difesa da un’eventuale colpo di stato comunista del 1970⁴¹.

    Brigate rosse

    Renato Curcio⁴², uno dei capi più noti delle Brigate Rosse, era nato a Monterotondo nel Lazio il 23 settembre 1941. Figlio di ragazza madre, originaria di Orsara di Puglia, da piccolo era cresciuto a Torre Pellice nella famiglia materna di Enrico Paschetto, bidello al Collegio Valdese, e della moglie Dematteis Enrichetta, operaia alla fabbrica di Pralafera di Luserna San Giovanni⁴³. Suo zio Armando, il fratello della mamma, era stato partigiano, ucciso con altri 15 partigiani, sorpresi da una colonna di fascisti mentre tornavano a guerra conclusa in Val Luserna. Questi episodi, apparentemente poco significativi, dovettero incidere profondamente nelle decisioni future di Curcio, tanto da fargli prendere il nome di Armando da brigatista rosso. Insieme a Margherita (Mara) Cagol fu lui a decidere anche sul nome da dare a questi gruppi armati, rifacendosi al glorioso periodo della resistenza partigiana che si era organizzata in Brigate. E furono loro a interpretare la lotta di classe sulla base di quella resistenziale e porne le fondamenta in alcuni principi basilari, quali: a) emancipazione della classe proletaria ed operaia; b) ricorso alle armi; c) lotta al capitale, il nemico maggiore da colpire: problema affrontato in modo piuttosto sbrigativo; d) ambizione di conquista del potere da parte della classe operaia; e) solidarietà con rivoluzionari di altre nazioni che combattevano per la libertà. Le intenzioni e gli obiettivi che si erano prefissi, seppure discutibili, potevano anche avere un fondamento di validità e di giustizia sociale se non di risonanza internazionale⁴⁴. Ma quel che non poteva essere tollerato era la metodologia della violenza seguita in un sistema democratico, quale il nostro, fondato sulla Costituzione repubblicana, figlia della Resistenza. Non poteva essere tollerato lo sparare nel mucchio non solo per ammazzare soggetti poco graditi, come alcuni fascisti (Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci) e magistrati (Francesco Coco), ma anche e soprattutto per il ricorso ad atti terroristici che niente avevano in comune con la lotta resistenziale, come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro con la sua scorta.

    Bene fece a questo proposito l’ANPI a prendere le distanze da tali gruppi violenti e a denunciarne l’indebita appropriazione degli ideali resistenziali⁴⁵. Ma, purtroppo, è proprio a questi ideali che Renato Curcio, Mara Cagol, Alberto Franceschini, Nadia Mantovani e poi Mario Moretti, Prospero Gallinari, Barbara Balzerani e Adriana Faranda dichiararono di rifarsi per affermare le basi della loro "Nuova Resistenza". Così, sappiamo anche di varie associazioni facenti capo a questa ideologia brigatista come Lotta Continua, Prima Linea, Stella Rossa, Volante rossa, GAP (intesi non come Gruppi di Azione Patriottica, ma come Gruppi di Azione Partigiana) e vari altri gruppi armati locali⁴⁶. Uno dei loro motti preferiti era: Partigiani non siete morti invano, riprenderemo presto il mitra in mano ⁴⁷. Insomma per tutti costoro la Resistenza continua, seppure metaforicamente. Sta di fatto che

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