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La guerra a Lucca
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E-book511 pagine4 ore

La guerra a Lucca

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"La Guerra a Lucca", un saggio che delinea, attraverso la ricostruzione dei tanti eventi accaduti tra l'8 settembre del 1943 e il 5 settembre 1944, i piccoli e i grandi fatti della storia della Seconda guerra mondiale, che hanno attraversato la città del Volto Santo. Tanti momenti luttuosi tra il giorno della resa senza condizione dell'Italia agli Alleati e il giorno della Liberazione. Lo studio si divide in tre sezioni. La prima dedicata alla storia delle vicende accadute a Lucca con i tanti protagonisti, da Carlo Del Bianco a Don Aldo Mei, da Roberto Bartolozzi ad Augusto Mancini. La seconda offre al lettore i giorni della ritrovata libertà, attraverso le pagine del "Notiziario Lucchese", organo di stampa del Comitato di Liberazione Nazionale. Dai lutti alla forza per ritrovare lo spirito democratico, dalle privazioni alla ricostruzione con i tanti problemi: dal mercato nero alle ingiustizie piccole e grandi di una città in guerra. Infine la terza parte raccoglie documenti inediti provenienti dal Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo. La provincia di Lucca osservata tra il 1943 e il 1944 dagli occupanti tedeschi.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2018
ISBN9788899735197
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    Anteprima del libro

    La guerra a Lucca - Andrea Giannasi e Marco Vignolo Gargini

    Mei

    Prefazione di Emmanuel Pesi

    In occasione del settantesimo anniversario della Liberazione di Lucca questo libro offre ai lettori un quadro ricco e plurale del periodo dell’occupazione tedesca e dell’immediato dopoguerra.

    L’opera realizzata da Andrea Giannasi e da Marco Vignolo Gargini sembra trovare origine in quella urgenza della memoria oggi sempre più impellente e necessaria. Una memoria vissuta non come esercizio di riproposizione di eventi luttuosi o di fatti crudeli, ma come conquista degli strumenti indispensabili per capire, scegliere, vivere il nostro presente. Emerge dalla ricostruzione di ciò che è accaduto settanta anni fa una memoria che non è fine a se stessa, ma che è rivolta a difendere e a mantenere vive le più importanti conquiste della resistenza al fascismo e al nazismo: la pace e la democrazia.

    Come sottolineano gli stessi autori, già nella pubblicazione che celebrava il Ventennale della Resistenza la necessità di comunicare gli orrori e le sofferenze della guerra alle nuove generazioni era fondata sulla constatazione che l’affievolirsi del ricordo dell’ultimo conflitto mondiale lasciava aperte nuove possibilità di guerra e di inutili stragi e che una memoria debole lasciava spazio a coloro che agivano per distruggere quelle libertà raggiunte con tanti sacrifici nel corso della Resistenza e sancite nella nostra Costituzione. Oggi è ancora più matura la consapevolezza che la pace e la democrazia non siano risultati raggiunti una volta per sempre, ma che devono essere voluti e rinnovati costantemente. Dunque è bene ricordare, perché quei principi di democrazia, di rispetto della dignità della persona umana, di collaborazione pacifica tra gli Stati raggiunti settant’anni fa e affermati nella nostra Costituzione non sarebbero comprensibili senza aver in mente gli orrori della guerra, le violenze, il disprezzo per la dignità umana, i sacrifici, le scelte di solidarietà e di resistenza.

    Oggi, in un momento in cui i testimoni diretti di quelle esperienze si vanno ineluttabilmente spegnendo, questo libro ci aiuta a ricordare offrendoci una ricostruzione storica dei principali avvenimenti accaduti in Lucchesia nel corso dell’anno di occupazione tedesca e, soprattutto, proponendoci alcuni importanti documenti. I bandi e gli ordini tedeschi e fascisti, l’appello del Comitato di Liberazione Nazionale alla vigilia della liberazione, le testimonianze di alcuni protagonisti, come Augusto Mancini, Ireno Ulivi e altri resistenti, la dettagliata relazione sull’attività partigiana di don Silvio Giurlani e le memorie di don Fortunato Orsetti ci riportano all’interno di quel tragico mondo di guerra e ci aiutano a comprenderlo.

    Un altro prezioso e quasi dimenticato documento che viene presentato ai lettori è il Notiziario Lucchese, l’organo di stampa del C.L.N. lucchese, pubblicato all’indomani della Liberazione della città, dal 20 settembre al 22 ottobre 1944. Gli articoli tratti dai 27 numeri del giornale, attentamente selezionati e commentati, vanno a comporre un’antologia di brani che ricostruisce fedelmente il clima di quei giorni, le speranze di rinnovamento, le attese di giustizia per le sofferenze e le atrocità subite, i desideri di normalità, gli eventi quotidiani e le difficoltà vissute dalla popolazione nel lento e a volte incerto passaggio dalla guerra alla pace, dalla dittatura totalitaria alla democrazia.

    Non manca, infine, il punto di vista degli occupanti tedeschi, attraverso la trascrizione dei rapporti del Comando militare tedesco 1015, la cui autorità si estendeva sulla Provincia di Lucca e sulle altre province limitrofe. I rapporti selezionati, conservati presso il Bundesarchiv-Militärchiv di Friburgo, ci illustrano l’intensa attività burocratica del Comando militare tedesco e ci offrono, attraverso ordinanze, notizie, statistiche, relazioni, ecc. una descrizione meticolosa sia della vita amministrativa e dello sforzo bellico tedesco sia di aspetti cruciali della vita della popolazione civile lucchese.

    Questo libro accompagna dunque la ricostruzione storica degli avvenimenti con la proposizione di punti di vista, di stili e di testimonianze diverse che ci aiutano, a settant’anni di distanza, a mantenere viva la memoria di quanto è accaduto e a comunicarla alle nuove generazioni.

    Introduzione

    Il 5 settembre del 1964, in occasione del ventennale della Liberazione di Lucca, fu costituito un comitato per le celebrazioni della Resistenza.¹

    Fu redatta e diffusa una pubblicazione², che aveva il chiaro scopo di voler ricordare. In questa incontriamo un elemento che colpisce il lettore: a così breve distanza dai luttuosi fatti, si offre l’urgenza dei relatori di domandarsi il perché si debba conservare la memoria.

    In questo testo ritroviamo fedeli gli scopi intatti, che ancora oggi, a distanza di settanta anni, la libera società persegue e difende, incontrando però l’indisciplinata matematica dell’oblio. E una società che dimentica, offre il proprio futuro e quello dei propri figli a dover rivivere gli orrori del passato.

    Questa urgenza sentita, vissuta in maniera sofferta da chi aveva lottato e visto con i propri occhi lo scorrere della dittatura fascista e della Seconda guerra mondiale, ritorna oggi più viva che mai e per questo riproponiamo quelle parole:

    "Sembrerebbe ormai, e c’è qualcuno che lo sostiene, che inutili e fuori luogo siano le celebrazioni del ventennale della Liberazione.

    Chi però ha vissuto i giorni grigi della oppressione nazi-fascista sa bene che il ricordo delle giornate di ansia, di lotta, di sangue è salutare a quelli che videro gli orrori di una guerra non sentita e non voluta e ne subirono le conseguenze e che videro le stragi, i rastrellamenti, le fucilazioni, con le quali si voleva reprimere uno dei sentimenti più grandi che può albergare nell’animo dell’uomo, l’amor di patria, e si voleva toglier di mezzo una pericolosa opposizione: ed è salutare anche alle generazioni che questi orrori e queste oppressioni non hanno veduto, perché esse non si debbano ripetere per la follia di persone o di popoli.

    Gli orrori della guerra, dei bombardamenti, delle oppressioni sono, e però, lontani e possono sembrare sbiaditi dal tempo, ma siccome, purtroppo, vediamo ancor oggi levarsi all’orizzonte nubi minacciose e la guerra accendersi in questa o in quella parte del mondo e poiché sembra che gli uomini di oggi abbiano dimenticato in così breve tempo, quali sono stati gli effetti dell’ultimo non lontano conflitto mondiale, di quella inutile strage che fu compiuta per la follia di un uomo, che con la guerra pensava di dominare il mondo, è bene ricordare!

    E siccome, purtroppo, ancora, nell’interno delle singole nazioni, ed anche nella nostra ltalia, si lavora e si agisce, di proposito o inconsciamente, per distruggere quelle libertà che con tanto sacrificio il popolo italiano ha acquistato, opponendosi alla dittatura fascista e combattendo la lotta partigiana, è bene ricordare, e ricordare anche per non ricadere in una dittatura che sarebbe peggiore della precedente.

    Le celebrazioni del ventennio pertanto debbono ricordare agli italiani, degni di questo nome, che è necessario più che mai rimanere sulla breccia e combattere la buona battaglia per mantenere e migliorare le istituzioni democratiche conquistate al nostro Paese a prezzo di tanti sacrifici e con lo spargimento di tanto sangue, per conservare la libertà, per la quale tanti italiani, di tutte le condizioni, sono caduti."³

    Dunque perché ricordare? Perché riprendere dal passato fatti crudeli e riproporli alle nuove generazioni?

    Perché, come ricorda Primo Levi, la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace e dunque può creare zone d’ombra che allargandosi possono creare non-luoghi, adatti alla proliferazione del germe dell’odio.

    La questione della conservazione della memoria – dibattuta da molti studiosi negli anni – trova poi difficoltà nel dover distinguere tra memoria materiale e oggettiva da una parte, ed elemento soggettivo dall’altra, che sfocia nel ricordo, che per etimo implica l’uso dell’emozione e del sentimento.

    Ricordo come re-cor latino, ovvero ricondurre al cuore, che è sì necessario per alimentare la fiammella di vita, ma al contempo si presta a facili errori d’uso nel voler invece fare memoria.

    Rimembrare, dunque, dal latino re-membra ovvero riportare al corpo, alla fisicità oggettiva della memoria, con sforzo e con pragmatico impegno educativo. Nel compiere l’esercizio del condurre a nuova vita la memoria diventa pertanto esigenza vitale, il dover contrastare l’ignoranza e la non conoscenza.

    Ecco l’esercizio che il 5 settembre del 1964 si trovarono a compiere i membri di quel comitato, che idealmente a distanza di cinquanta anni stanno passando il testimone dell’impegno sacro del non dimenticare.

    Primo capitolo. LA GUERRA (8 settembre 1943 – 5 settembre 1944)

    L’8 settembre del 1943 è per l’Italia la data simbolo della fuga, del tradimento, della resa senza condizioni. Ma è anche l’inizio indistinguibile della Resistenza di un esercito, di un popolo, alla dominazione nazista, alla pratica vendicativa e ferale di un rinnovato e sanguigno fascismo repubblicano, ai pesanti bombardamenti alleati, alle privazioni, alle mancanze: la Resistenza di un popolo che già da anni manifestava avversità al putridume e alla corruzione del regime e che già nel 1942 mostrava stanchezza.

    Una stanchezza che lentamente erose lo Stato, e con esso tutti i gangli del sistema che in guerra avrebbero altresì dovuto funzionare all’unisono. Lo sfaldamento era dunque solo questione di tempo e i vertici politici e militari non potevano non esserne consci.

    Il popolo fu solo, tra i propri piccoli e grandi eroismi ed egoismi, a dover sopportare un momento durante il quale si plasmava una Resistenza intima, singola, personale, condita di minimi gesti che possiamo tradurre per tutti in quel ricambiare con panni vecchi e logori, con scarponi rotti e sfondati, i soldati in fuga dalle caserme. La guerra era finita per il Regio Esercito, non per le donne italiane, per le mamme, le mogli, le fidanzate, che nell’assistere, nell’aiutare gli sbandati, aiutavano i propri figli, i mariti, i fidanzati, in una sorta di legame ancestrale che legò le donne di mezza Europa nella sofferenza e nella paura.

    La reazione nazista non si fece attendere anche perché il 3 settembre, a Roma, Rudolf Rahn, presso l’Ambasciata tedesca, aveva ricevuto rassicurazioni italiane sulla fedeltà dei patti d’alleanza e lo stesso Badoglio aveva affermato pubblicamente: la guerra continua. E non poteva che essere feroce la reazione dell’alleato tradito, visto che proprio il 3 settembre a Cassibile in Sicilia veniva firmato l’armistizio tra Italia e alleati.

    L’8 settembre il sipario calò definitivamente e l’Italia si trovò immensa terra di nessuno, dove le regole di guerra si persero e il conflitto divenne presto guerra ai civili.

    In quelle ore il paese fu percorso da fuggiaschi, da saccheggiatori, da renitenti alla leva che non incappando in alcuna sanzione svilupparono presto un tenace senso di disubbidienza che poteva – come del resto accadde – ribaltarsi facilmente nell’acquiescenza a subire i più crudi ed elementari atti di prepotenza.

    La resa agli alleati colse così un paese con gli alimenti razionati, diviso, lacerato, individualmente alla ricerca di una via d’uscita. Dopo trentanove mesi di guerra sopportati, iniziati con le folle oceaniche pervase dall’idea che sarebbe stato conflitto lontano combattuto in Africa, quasi indolore, e soprattutto veloce, gli italiani soffrirono di una vera crisi psicologica.

    L’8 settembre fu dunque accensione del momento di Liberazione e costituì il primo atto vissuto da un popolo intero, che però subiva e non partecipava. Fu il Re che il 25 luglio appoggiò la destituzione di Mussolini, che autorizzò le trattative con gli angloamericani, che mantenne i rapporti con l’alleato tedesco. E fu sempre il Re che fuggì verso Pescara e poi, con la nave militare Baionetta, verso Brindisi.

    Non furono gli italiani, seppur stanchi della guerra, a decidere della loro sorte e questo li pose nella condizione di mutare il proprio status. In quei giorni maturò definitivamente la scelta del primum vivere, che Renzo De Felice collocò nella lunga zona grigia.

    Attendere, sopravvivendo, la fine, anelando la pace.

    Segretamente l’avversione alla Repubblica Sociale e agli occupanti nazisti rappresentava più di un diffuso sentimento, ma l’assillo costante e preminente era comunque diretto ai problemi di esistenza quotidiana.

    Mangiare, scampare agli arresti, alle deportazioni, alle fucilazioni, trovare rifugi sicuri e vivere un’esistenza trasparente.

    Eppure l’8 settembre e i giorni successivi videro cadere i martiri di Cefalonia, dove la divisione Acqui resistette ai tedeschi e per questo pagò con lo sterminio; i morti di Monterosi, della Manziana e di Porta San Paolo a Roma; i garibaldini in Montenegro, e tanti altri piccoli casi di Resistenza militare ai tedeschi.

    Ecco il contrasto tra chi, pochi, seppe e volle resistere fin dal principio, e chi invece, tanti, tantissimi, si nascose.

    Lucca visse in quei giorni lo stesso vuoto politico e amministrativo di altre città e altre province. Anche qui il razionamento dei viveri, l’angoscia per la sorte dei giovani, partiti, e dei quali non si avevano più notizie¹⁰, furono i problemi quotidiani della popolazione.

    Si venne a creare comunque un vuoto che andava colmato. A cercare di prendere le redini della città, pertanto, ci pensò un gruppo di uomini che fin dal 25 luglio aveva indetto riunioni per stabilire quale linea comune le forze democratiche lucchesi avrebbero dovuto seguire nella collaborazione richiesta dal Prefetto Guglielmo Marotta per la riorganizzazione del paese.¹¹

    Facevano parte di quel gruppo Augusto Mancini per la Democrazia del Lavoro, Giorgio Di Ricco per il Partito Repubblicano, Aldo Muston per il Partito d’Azione, Gino Baldassarri per il Partito Comunista, Giovanni Carignani per la Democrazia Cristiana. Segretario era Carlo Del Bianco.

    L’8 settembre, appresa la notizia dell’armistizio, Augusto Mancini, Giorgio Di Ricco e Giovanni Carignani si recarono dal Prefetto dichiarandosi pronti a collaborare. Tale offerta però non poteva essere accolta, seppur gradita, mancando anche le comunicazioni con Roma.

    I membri del comitato democratico proposero la stessa richiesta al comandate del Presidio Militare Colonnello Serio, che, in mancanza di ordini, non ritenne di consegnare armi.¹²

    L’unico fatto di sangue in provincia, durante il quale si evidenziò con maggior vigore lo scontro tra tedeschi traditi e italiani traditori, si consumò a Colle di Compito presso il campo per prigionieri di guerra alleati numero 60.¹³

    La mattina del 10 settembre una pattuglia tedesca si presentò al campo, intimando ai responsabili italiani di consegnare le armi e la struttura. Ad un moto di sorpresa i tedeschi fecero fuoco uccidendo il Col. Vincenzo Cione, il Cap. Massimo De Felice e il soldato Domenico Mastrippolito.

    I tedeschi occuparono la città e si ripristinarono i collegamenti con Roma.

    Il Prefetto Guglielmo Marotta la sera dell’11 inviò al Ministero dell’Interno un breve telegramma: Provincia est occupata militarmente forze tedesche alt. Disarmo Presidi Militari avvenuto senza turbare ordine pubblico cui tutela resta affidata Arma CC.RR. alt. Preoccupa situazione alimentare.

    Nella stessa giornata furono affissi ai muri i manifesti con un proclama del comandante militare della zona di Lucca Tenente Colonnello Randolf, nel quale i cittadini poterono leggere:

    A partire da oggi assumo in nome del Führer del Reich tedesco fino a nuovo ordine il comando su tutte le Autorità militari e civili della Città e della Provincia di Lucca. In esecuzione dei miei ordini la guarnigione della Città ha già deposto le armi. Sino a contrordine dichiaro, per la zona a me sottoposta, lo stato di emergenza. In particolare ordino quanto segue:

    1) Tutti i soldati italiani ancora in possesso di armi, devono consegnarle entro 48 ore in Prefettura.

    2) Ogni atto ostile contro i soldati tedeschi sarà severamente punito senza riguardo secondo le leggi di guerra più severe.

    3) Le Autorità civili rimangono nel frattempo in carica.

    4) I Carabinieri conservano le loro armi per provvedere, come sinora, all’ordine e alla tranquillità.

    5) Confidando nell’atteggiamento leale della popolazione rinunzio a qualsiasi limitazione delle libertà personali sinora godute.

    6) Il Prefetto, il Commissario Prefettizio ed il Comandante dei Carabinieri sono personalmente responsabili della tranquillità e dell’ordine in Città e in Provincia.

    Noi soldati tedeschi non nutriamo nessun sentimento ostile contro la popolazione italiana. Coloro che tentassero delittuosamente di nuocere al Reich tedesco o ai suoi Soldati devono attendersi le più severe punizioni senza alcun riguardo.¹⁴

    In quello stato di oppressione si mosse in città una formazione di giovani che fin dal 24 maggio del 1942 – quando durante una commemorazione della dichiarazione di guerra 1915/1918 erano stati distribuiti volantini invitanti alla riscossa – si stava interrogando sul futuro del proprio paese. A farne parte, giovani e anziani e come elemento di unione Carlo Del Bianco, docente al Liceo Machiavelli. Fu grazie allo spirito propositivo di questi giovani che il 26 luglio del 1943 partì da Piazza Napoleone la manifestazione di giubilo per la caduta di Mussolini.

    Il consiglio direttivo era composto da Giovanni Guerrini, Adolfo Kissopoulos e Piero Del Magro con i docenti Carlo Del Bianco e Don Arturo Paoli.

    Durante il mese di agosto del 1943 incontri e riunioni furono organizzate iniziando con profitto i giovani alla democrazia; poi giunse l’8 settembre.¹⁵

    In quei giorni furono recuperate e nascoste in casa di Adolfo Kissopoulos molte armi (sei mitragliatrici, trentaquattro moschetti, due mitra, bombe a mano e munizioni). Queste vennero poi trasportate in Garfagnana presso la casa di un contadino a La Villetta, località nel comune di San Romano.

    Il 22 settembre Carlo Del Bianco, Adolfo Kissopoulos, Angelo Pasquinelli, Paolo Pacini, Neopolo Macarini, Giovanni Guerrini, Candido Mazzanti (e altri che si unirono al gruppo nei giorni successivi) raggiunsero la Garfagnana in treno e, recuperate le armi e l’altro materiale, salirono in località Campaiana, dove trovarono rifugio in alcuni caselli dei pastori. In quella zona si nascondevano anche alcuni neozelandesi fuggiti da un campo di prigionia, e questi, con Michele Lombardi e Alberto Manfredi, completarono la formazione partigiana.

    Questa fu sicuramente la prima formazione partigiana della provincia di Lucca e forse una delle prime in Italia¹⁶.

    Furono presi contatti con Don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico e Capraia due piccole località in Garfagnana nel comune di Pieve Fosciana¹⁷: un sacerdote che aveva ottimi legami con Lucca¹⁸ e che contribuì a creare quei collegamenti vitali tra Campaiana e la città. Oltre ad utilizzare, con molti rischi, la linea ferroviaria, in quelle settimane fu di grande aiuto Luigi Calani, che prestava servizio presso la farmacia dell’ospedale S. Croce di Castelnuovo, e che dunque si recava spesso a Lucca a prendere medicinali con l’automezzo di servizio.

    Sopra vi caricava vestiario, armi e cibo per rifornire la formazione di Carlo Del Bianco. Ad aiutare il gruppo era anche un ufficiale, Tenente Giuliano Magherini, rifugiatosi a Pontecosi, che grazie al Tenente dei Carabinieri della caserma di Castelnuovo Giuseppe Giusti, riuscì a rifornire – provenienti dalla piccola stazione dell’Arma di Vagli – di armi il gruppo di Campaiana.

    Ma nel frattempo a Lucca la G.N.R.¹⁹, messasi sulle tracce, aveva cominciato a procedere agli arresti dei familiari dei componenti la formazione e dei membri del C.L.N.

    Nonostante tutto, i giovani tentarono ancora e dopo un primo spostamento a capanne di Vibbiana, in due o tre notti furono smistate le armi nella Garfagnana, perché, come poi avvenne, servissero al momento opportuno ai patrioti. Un ultimo tentativo da parte di pochi di formare un centro clandestino a Pontecosi per azioni future, fu frustrato dall’arresto del Tenente Giuliano Magherini, Luigi Calani e altri componenti la banda.

    Tutti gli altri perseguiti dovettero sbandarsi e occultarsi, per aderire, in seguito, ad altre formazioni cooperando con esse fino all’arrivo degli Alleati.

    "La formazione suddetta, in effetti, non fu mai operativa. Gli elementi che la composero, avendo agito per puro spirito patriottico, non intesero chiedere riconoscimenti al loro operato. E’ bene però che si sappia che l’attività antifascista dei giovani studenti della lucchesia non è dell’ultimo momento, quando l’acqua era alla gola, ma, ispirata da profondi sentimenti ideali, risale agli anni in cui il fascismo in Italia e all’estero era ritenuto un regime perfetto.

    E sia reso omaggio ancora una volta alla memoria del Prof. Carlo Del Bianco, che sempre animato dai più puri ideali fu maestro dei giovani nell’amore alla Patria, nella virtù, nel disprezzo delle vanità umane, e primo additò a tutti la via da seguire".²⁰

    I componenti della formazione di Campaiana rientrarono a Lucca e Carlo Del Bianco riprese la sua attività di docente al Liceo Machiavelli quando nel mese di marzo del 1944 venne denunciato. Aiutato dal C.L.N. di Lucca riuscì a fuggire, prima a Firenze e poi verso Venezia dove avrebbe trovato ospitalità da un amico, che però non incontrò.

    Risalito sul treno, tra Venezia e Rovigo, Del Bianco cadde dal convoglio in movimento. Il motivo è avvolto nel mistero. Certo è che fu ritrovato dopo molte ore, con una gamba rotta sotto il ginocchio e molte ferite alla testa, e, condotto all’ospedale di Rovigo, vi morì alle 7,45 del 31 marzo 1944.

    L’inverno tra il 1943 e il 1944 fu trascorso, a Lucca e nella provincia, con una sostanziale calma, anche se nel silenzio si consumò la tragedia della comunità di ebrei che a partire dal 1941 era stata internata nel comune di Castelnuovo di Garfagnana.

    In prevalenza cittadini di origine polacca e austriaca, il 4 dicembre del 1943, 54 ebrei furono condotti al Grande Hotel, presso la località Bagni Caldi, di Bagni di Lucca, struttura adibita a campo di concentramento. Solamente due famiglie si sottrassero all’arresto riuscendo a nascondersi.²¹ Il 23 gennaio del 1944 gli ebrei internati furono portati prima a Firenze, poi a Milano dove vennero tenuti alcuni giorni nel carcere di San Vittore. Il 30 gennaio, al binario 21, furono caricati sul convoglio n. 6, che giunse ad Auschwitz sette giorni dopo.

    Dei 54 ebrei partiti da Castelnuovo solamente due fecero ritorno: Leo Venderber e Lotte Wallach.

    Le notizie della guerra, provenienti dal fronte orientale e da quello meridionale²², parlavano di situazione di stallo sul fronte italiano e di assestamento delle linee su quello orientale. In quei mesi i due problemi maggiori affrontati a Lucca erano la presenza di migliaia di sfollati in fuga da Livorno e dal territorio pisano e la sempre maggiore carenza di derrate alimentari.

    Il 26 ottobre si era insediato il nuovo prefetto Mario Piazzesi²³ che trovò immediatamente una situazione difficile da gestire. L’afflusso costante di sfollati, il reclutamento, senza autorizzazione e disciplina italiana, da parte della TODT²⁴ di manodopera locale (specialmente nella Valle del Serchio), carenza di forze di polizia²⁵, e scarsità di derrate alimentari, furono problemi insormontabili per Piazzesi che sicuramente fu ben lieto di lasciare Lucca per recarsi in Prefettura a Piacenza a fine aprile del 1944.

    Nel frattempo però accadde un fatto nuovo nell’Italia sotto il controllo della Repubblica Sociale, nata il 24 novembre con decorrenza dal 1 dicembre 1943: il 18 febbraio 1944 venne emanato dal Duce della Repubblica Sociale Italiana e capo del governo un decreto che prese il nome dal suo promulgatore Graziani.

    In questo si leggeva:

    "1 - Gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che, durante lo stato di guerra e senza giustificato motivo, non si presenteranno alle armi, nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico, ai sensi dell’art. 144 C.P.M. e puniti con la morte mediante fucilazione al

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