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È macato ai vivi
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È macato ai vivi
E-book219 pagine2 ore

È macato ai vivi

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Info su questo ebook

Il romanzo “È mancato ai vivi” narra gli orrori della Prima guerra mondiale. L’incalzante racconto sottrae alla dimenticanza le vicende di alcuni giovani che, tra il 1915 ed il 1918, partirono dalla Calabria verso i “campi della gloria”. Descrive le angosce e le speranze dei padri e delle madri che avevano figli al fronte. Dipinge con tratti pungenti un’epoca marziale, la tracotanza dei generali, le sanguinose strategie. Tratteggia le mutevoli opinioni di chi incoraggiò, benedicendolo, l’immane conflitto.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2022
ISBN9791220500685
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    Anteprima del libro

    È macato ai vivi - Francesco Capalbo

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Antonio D’Elia

    FRANCESCO CAPALBO

    È MANCATO AI VIVI

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    Proprietà letteraria riservata

    by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di gennaio 2022 per conto di Pellegrini Editore

    Via Luigi Pellegrini editore, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A za Duminica i marrucceddra,

    al dolore silenzioso e indifeso degli umili.

    E poi sulla terra intera

    E poi sulla terra intera a innalzare

    monumenti AI CADUTI!

    così felici di essere caduti!

    Ma provate a fissare quei corpi squarciati,

    a fissare la loro smorfia ultima

    sulle facce frantumate,

    a quegli occhi che vi guardano.

    Provate a udire nella notte

    L’infinito e silenzioso urlo degli ossari:

    Uccideteci ancora e sia finita!

    David Maria Turoldo

    Premessa

    Nella mia casa materna conservo ancora un baule in legno col quale mio nonno Giovanni Cauterucci fece ritorno dalle Americhe.

    Il cassone nel corso della sua esistenza è diventato la cassaforte dei ricordi.

    In esso mia madre e suo padre hanno riposto, in maniera ordinata per più di un secolo, lettere, cartoline, foto, documenti di famiglia, vecchi dischi, libri di santi e di preghiere.

    In famiglia si è sempre sostenuto che non bisognava essere attaccati alle ricchezze perché esse vanno e vengono. Diversa considerazione godevano invece i ricordi: dovevano essere sottratti all’oblio e custoditi dapprima nei cuori e poi, come monili, in posti sicuri.

    Era forse un modo ingenuo per esorcizzare la morte: nessuna persona muore fin quando ne viene custodita la memoria.

    Da mia madre Giuseppina, contadina e donna energica del secolo passato, ho ereditato la naturale predisposizione verso il racconto. Dal prezioso forziere ella estraeva, come dal cappello di un mago, filastrocche, date, immaginette, aneddoti che raccontava con colorita gestualità durante le lunghe serate d’inverno a parenti e vicini.

    Lo scrigno dei ricordi è stato il vero lascito dei miei antenati.

    Dalle sue cavità profumate di inchiostro ho attinto informazioni anche per la ricostruzione degli avvenimenti raccontati in questo libro, frutto di un lavoro di paziente artigianato.

    Come per il restauro di un mosaico, le tessere mancanti sono state ricercate con tenacia negli archivi, nei giornali dell’epoca, nei riassunti storici delle brigate, negli uffici d’anagrafe, nei bollettini, nelle biblioteche, nei libri e negli almanacchi.

    Le tessere più preziose però le ho estratte dalla pesante cassa che mio nonno, novello Sisifo, trasportò di porto in porto durante il suo viaggio di ritorno dal Nuovo Mondo.

    Prologo

    L’idea che i generali avevano del soldato italiano, durante la Prima guerra mondiale, ha le fattezze di una scultura esposta nella Galleria Nazionale di Cosenza dal nome ampolloso: Forme uniche della continuità nello spazio. Umberto Boccioni, artista futurista, nel 1913 ne plasmò un primo modello in gesso. Egli desiderava che, dopo la sua morte, del manufatto ne fosse realizzata una versione metallica da destinare alla Calabria, regione nella quale era nato il 19 ottobre del 1882. Il desiderio fu esaudito molti anni dopo con la donazione alla galleria bruzia di una riproduzione bronzea offerta da un mecenate del luogo.

    L’opera è molto conosciuta: nel 2002 il vitalismo economico di Berlusconi la volle raffigurata sulle monete da venti centesimi coniate in Italia.

    Umberto Boccioni realizzò il gesso negli anni a ridosso della Grande Guerra, mentre avvertiva le tensioni di un universo proteso con passo risoluto verso un avvenire meccanico, esplosivo e folgorante. Ad una prima osservazione la statua sembrerebbe uno scorticato anatomico, priva di braccia. Se guardata con più attenzione, appare invece proiettarsi fluida e risoluta in avanti. Come una macchina in movimento, le sue forme si adattano allo spazio.

    Forse il generale Luigi Cadorna trovò ispirazione proprio da questa sagoma futurista di nuova umanità quando il 25 febbraio del 1915 diramò per i vertici dell’esercito la famigerata circolare numero 191 dal titolo: Attacco frontale ed ammaestramento tattico. La teoria racchiusa nel documento appare infatti artisticamente ispirata: le vittorie militari si conquistano col movimento in avanti. I campi di battaglia sono vagheggiati come luoghi solcati da flutti di macchine umane aerodinamiche col compito di propagare dinanzi spinte vigorose. Le baionette avrebbero squarciato l’aria, i corpi si sarebbero adattati allo spazio e inarrestabili avrebbero conquistato il lauro del trionfo.

    La realtà fu ben altra.

    Per quarantuno mesi, tra il 1915 ed il 1918, il movimento in avanti di migliaia di fantaccini italiani s’infranse contro inespugnabili trincee.

    Questo racconto narra di molte cose, ma soprattutto di alcuni soldati che durante la Prima guerra mondiale giunsero al fronte dai paesi calabresi dell’Esaro. Ben poco essi avevano in comune con gli ominidi affusolati che si agitavano nelle teste di Umberto Boccioni e di Luigi Cadorna.

    1

    Un piccolo eden

    Nell’Annuario del Regno d’Italia, alla vigilia della Prima guerra mondiale San Sosti veniva descritto come un piccolo eden posto a libeccio di Castrovillari.

    Secondo l’almanacco, in paese si producevano cereali, vino, olio e frutta. Si lavorava il legno, si allevava il bestiame grasso e minuto. Trote ed anguille sguazzavano felici nei fiumi. Abbondava il carbon fossile e la lignite. Si esercitava su larga scala la bachicultura con macchinari adatti alla filatura della seta.

    La realtà era però diversa.

    Le famiglie con lo scranno in paradiso erano poche.

    La famiglia Guaglianone aveva la filanda a vapore, il mulino ed il frantoio; la famiglia De Simone possedeva il frantoio e il mulino; le famiglie La Cava, Malfona e Migaldi solamente il frantoio.

    Medici, avvocati e agrimensori portavano gli stessi cognomi.

    In paese c’era una caffetteria, una drogheria, un negozio di pellami ed uno di tessuti, l’ufficio postale e quello telegrafico.

    San Sosti a quei tempi era il capoluogo di un mandamento di sedicimila abitanti che comprendeva altri cinque paesi: Mottafollone, San Donato di Ninea, Santa Caterina Albanese, Sant’Agata di Esaro e Malvito.

    Il tribunale, la delegazione di pubblica sicurezza, l’ispezione forestale e l’ufficio metrico erano nel capoluogo di circondario, Castrovillari, che distava 41 chilometri. Il collegio elettorale, di cui il paese faceva parte era quello di Castrovillari, la diocesi quella di San Marco e Bisignano. Per la conservazione delle ipoteche i cittadini di San Sosti dovevano recarsi a Cosenza, per l’ufficio di registro a Lungro, per l’agenzia delle imposte a Cassano.

    Nel capoluogo del mandamento si amministrava la sola giustizia spicciola.

    La caserma dei reali carabinieri, la pretura e le carceri mandamentali godevano di una sovranità che ammoniva e incuteva timore: erano considerati luoghi dai quali stare alla larga.

    I paesi tra loro erano mal collegati.

    Solo a metà gennaio del 1913 venne inaugurato il servizio automobilistico che congiungeva l’alto Ionio cosentino con il Tirreno. Il percorso aveva inizio a Cerchiara. Lo percorreva tra mille difficoltà un’automobile della ditta ASTI di Amedeo Speciale. Attraversando strade polverose essa giungeva a San Sosti, proseguiva per Sant’Agata di Esaro, travalicava il passo dello Scalone e arrivava infine alla agognata stazione ferroviaria di Belvedere Marittimo.

    Il costo del biglietto era alto: 12 centesimi al chilometro.

    L’automobile rimase per molto tempo il mezzo di trasporto dei soli possidenti.

    Il popolino per raggiungere Belvedere Marittimo, ove erano localizzati importanti gabinetti medici, preferiva utilizzare l’asino: collaborava con solerzia e non aveva particolari vincoli d’orario o costi elevati d’esercizio.

    Nel 1913 alcuni paesi erano privi ancora di telegrafo e periodicamente si accendevano inconcludenti dimostrazioni.

    A San Sosti e Mottafollone il servizio postale era affidato alla stessa persona che lo espletava in compagnia del suo malnutrito mulo. Nonostante si fosse passati dal trasporto mediante pedone a quello con cavalcatura, la corrispondenza d’inverno giungeva con grande ritardo. Ogni giorno il procaccia e il suo mulo si recavano alla stazione ferroviaria di San Marco-Roggiano per ritirare lettere, pacchi e vaglia in arrivo. Le piogge invernali trasformavano però l’Esaro da esangue fiumiciattolo in un corso borbottante, che il quadrupede si rifiutava di guadare. Il servizio veniva interrotto e i due paesi rimanevano per settimane intere senza posta.

    Nel dicembre del 1914 a San Sosti mancava la levatrice e nessuno si preoccupava di risolvere il problema.

    A far nascere i bambini ci pensava il medico condotto, don Raffaele Panebianco, coadiuvato da una praticona detta levatrice empirica.

    Il sanitario in quello stesso anno fu chiamato a fronteggiare anche una infezione di morbillo, che per fortuna rimase allo stadio benigno.

    Le scuole elementari maschili erano in pessime condizioni igieniche e l’amministrazione comunale veniva descritta sui giornali locali col cervello tuffato nel Medioevo. I detrattori sostenevano che gli amministratori non erano in grado di fornire alla scuola neanche il carbone per il riscaldamento che doveva essere perciò acquistato di tasca propria dagli stessi maestri.

    In compenso era stata autorizzata dal governo e andava alla grande una scuola per emigranti che prevedeva un ciclo di trentacinque lezioni. Frequentata da aspiranti mericani, era diretta dal maestro delle classi superiori Domenico Iocca.

    Gli agenti delle compagnie di navigazione a San Sosti facevano grandi affari e pubblicizzavano il viaggio verso gli Stati Uniti come una gioiosa traversata: soli quindici giorni, tempeste comprese.

    Mentre l’Europa ribolliva, tra il mese di gennaio e quello di luglio del 1914, partirono per l’America, dai porti di Messina e di Napoli ventotto persone.

    Altri pur desiderando una vita diversa, preferivano non sfidare la collera del mare e si accontentavano di sopravvivere in paese percependo misere paghe. Dicevano che l’acqua, specialmente quella salata, era traditrice. Avevano in mente il naufragio del piroscafo Sirio, avvenuto nell’agosto del 1906. Al largo di Gibilterra affogarono molti cosentini e tra essi anche Angela Martino, una bracciante sansostese di 49 anni.

    Mesi dopo, alcuni di quelli che avevano avuto paura di imbarcarsi furono chiamati a combattere contro gli austriaci. Maledirono l’ancestrale terrore dell’acqua che li aveva resi prigionieri delle trincee, abissi infernali più maligni delle onde dell’Oceano.

    2

    La luce e la guerra

    Durante l’inverno del 1914 nella valle dell’Esaro si udirono i primi rintocchi dell’epoca moderna.

    Il 24 febbraio a San Sosti venne inaugurato un orologio da torre, posto sul campanile della chiesa di Santa Caterina Vergine e Martire: aveva due luminosi quadranti in porcellana e batteva il tempo ogni quindici minuti.

    Nei mesi successivi fu progettata la costruzione delle condutture d’acqua potabile. Gli abitanti del paese si sarebbero potuti finalmente dissetare con le acque che scaturivano dalle montagne circostanti. La ditta Cordasco di San Donato di Ninea avviò la tensione dei fili della corrente elettrica. L’impresa risultò laboriosa e sarebbe stata portata a compimento solo dopo molto tempo.

    Il primo comune illuminato del mandamento fu Sant’Agata di Esaro; per tale motivo i suoi abitanti lo consideravano con vanto il borgo più luminoso dell’Appennino Calabro.

    A Sant’Agata per tutta l’estate del 1914 Amedeo De Cicco, montatore elettricista della Casa Marelli di Milano, aveva lavorato sodo ed era riuscito a costruire una moderna centrale elettrica battendo sul tempo i sansostesi. I capitali li aveva sborsati un ardito imprenditore del luogo che aveva fatto fortuna nelle Americhe: Carmelo Sirimarco. Localizzata in località Timpesa, dove sorgeva un mulino medioevale, il moderno marchingegno aveva il compito di addomesticare le acque feline dell’Esaro per trasformarle in pura energia. La centrale fu inaugurata domenica 15 novembre con un rito religioso simile al battesimo di una neonata. Alla turbina venne attribuito il nome di

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