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Amare perdutamente
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E-book177 pagine2 ore

Amare perdutamente

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Il libro tratta del senso del termine martirio - oggi abusato e frainteso - come di un amore che porta a dare la vita per il massimo bene e mai per il male o la distruzione. Il significato cristiano del termine e il suo senso nel passato come oggi sono l'oggetto dell'indagine. L'accostamento alla testimonianza - il martirio - di alcuni uomini e donne contemporanei rendono la riflessione molto vicina alla vita. Particolarmente la vicenda umana e spirituale di san Massimiliano Kolbe che viene descritta, fa si che il rapporto martirio-amore venga evidenziato. Infine l'autrice si ferma a riflettere sui diversi "martiri" che la nostra vita quotidiana ci richiede oggi e ne propone una lettura possibile.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2015
ISBN9786050401660
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    Anteprima del libro

    Amare perdutamente - Cristina Demezzi

    Note

    Introduzione

    «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 12-13).

    Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (Cfr. 1 Gv 3, 16; Gv 15, 13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema forma di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni che non mancano mai nella Chiesa (LG 42).

    Ci sono più testimoni, più martiri nella Chiesa che nei primi secoli. Facendo memoria nella messa dei nostri gloriosi antenati qui a Roma [vogliamo pregare per] i nostri fratelli che vivono perseguitati, che soffrono e che col loro sangue fanno crescere il seme di tante Chiese piccoline che nascono. Preghiamo per loro e anche per noi (Omelia Papa Francesco, S. Messa cappella S. Marta, 30 giugno 2014[1]).

    La realtà del martirio nella Chiesa cattolica è molto più attuale di quello che si potrebbe pensare. San Giovanni Paolo II, alle soglie del Grande Giubileo del 2000, richiese infatti a tutta la Chiesa, di fare memoria dei martiri del ‘900, alludendo con questo anche alla forza ecumenica di tale esperienza della vita cristiana.

    Sappiamo bene, anche solo ascoltando o leggendo le notizie quotidiane riguardanti diversi paesi del mondo, che oggi come all’inizio della storia del cristianesimo ci sono persone che muoiono violentemente a causa della loro fede in Gesù Cristo e del conseguente impegno di testimonianza con le opere, con le parole, alle volte anche con il loro silenzio.

    Basti pensare alla scomparsa di don Andrea Santoro, in Turchia, mentre pregava in Chiesa; alla morte dei giovani Frati Minori Conventuali in Perù, oggi Servi di Dio, p. Miguel Tomaszek e p. Zbigniev Srzalkowski, Martiri di Pariacoto; basti ricordare l’uccisione di Annalena Tonelli per mano dei mussulmani che da più di 30 anni serviva in Somalia e ad altri. Non possiamo non pensare poi ai numerosi cristiani perseguitati e cacciati dalle loro terre solo perché credenti in Cristo da sedicenti fondamentilisti che usano il terrorismo come mezzo di espansione.

    Si può poi leggere la lettera di Papa Benedetto XVI alla Chiesa in Cina per capire, tra le righe, quanta sofferenza martiriale segni quella porzione del popolo di Dio a causa della loro fedeltà al Vangelo di Gesù Cristo ed alla Sua Chiesa.

    Anche Papa Francesco è tornato più volte sul tema del martirio che tiene sempre presente come forma di testimonianza propria del cristiano autentico, almeno in termini di disponibilità personale. Così il 30 giugno 2014, durante l’Omelia nella cappella della Casa S. Marta ha avuto modo – come citato poco sopra - di ricordare i martiri del Medio oriente, in questo momento lacerato da scontri molto violenti e in nome di una fede pur diversa da quella cristiana, comunque strumentalizzata e molto lontano dall’autenticità credente. Ha detto il Papa, che ci sono ancora:

    nostri fratelli che oggi vivono nella persecuzione, […]Pensiamo al Medio oriente ai cristiani che devono fuggire dalla persecuzione, ai cristiani uccisi dai persecutori. E anche ai cristiani cacciati via in modo elegante, con i guanti bianchi: anche quella è una persecuzione[2].

    È necessario allora riflettere su che cosa si intenda per martirio, un termine abusato spesso e comunque travisato, usato non di rado come strumento di potere; è importante capire quale sia la tradizione cristiana che genera questo termine e quale significato possa avere oggi il termine martire.

    È importante soprattutto approfondire quale incidenza esso possa avere in un paese occidentale come il nostro, dove aleggiano ancora piuttosto vagamente esplicite minacce per chi si professa cristiano, ma dove proprio, come Papa Francesco accennava, si può considerare ci sia una sorta di martirio in guanti bianchi, dove cioè ci si può trovare discriminati o derisi, se non attaccati almeno verbalmente, solo perché si professa apertamente la propria fede nel Dio di Gesù Cristo e si imposta la vita su valori evangelici a servizio della libertà umana autentica e non contro di essa.

    Intendiamo anche orientare la nostra riflessione al così detto martirio quotidiano, a ciò che della nostra vita quotidiana si pone come martirio, vale a dire come invito a una testimonianza della Verità di Cristo che esige uno sforzo anche molto grande da parte nostra, uno sforzo che talvolta si può definire eroico ma di cui si può anche scoprire un significato altro, ricco di senso e persino di forza.

    Vogliamo allora offrire nelle pagine seguenti alcuni semplici spunti che speriamo possano sostenere la nostra esperienza del Dio di Gesù Cristo, talvolta un po’ dura ma che come battezzati siamo chiamati a vivere nel quotidiano oggi, senza mai dimenticare la dimensione della testimonianza, la più efficace in termini di apostolato. Vivere la propria esperienza cristiana, infatti, desiderare di attualizzare la realtà del battesimo con cui siamo segnati significa necessariamente tendere a Cristo, al Suo dare la vita per la salvezza di tutti e significa trovare in Lui stesso, fonte della nostra fede e della nostra carità, la forza per vivere con coerenza la sequela di Colui che ci affascina con le sue parole di vita eterna.

    Capitolo I

    Il martirio o testimonianza

    Precisazione terminologica e fondamenti biblici

    Il termine martire / martirio, deriva dal greco: martys (μάρτυς), che significa testimone e si tratta di un termine che ha un’origine legale. Il martys era infatti la persona che avendo visto i fatti, conoscendo la verità per esperienza, poteva testimoniarla con certezza, anche davanti ai giudici, cioè in ambiente legale appunto, in quanto l’esperienza fatta era ormai sua ed egli ne parlava con la propria stessa esistenza. Il termine si riferiva dunque ad una testimonianza forte, in un contesto anche difficile come poteva essere un tribunale in cui si cercava di comprendere la verità su un fatto. Per analogia, già nell’antichità classica, il suo significato cominciò ad indicare colui che testimonia la verità e che è testimone della fede, considerata la verità per eccellenza, colui o colei che proclama convinzioni che sostengono la sua vita[3].

    Inizialmente, quindi, il riferimento non era direttamente allo spargimento del sangue nel dare testimonianza, quanto piuttosto a ciò che si testimoniava, la verità appunto ed alla sua forza, la quale permetteva di esporsi anche davanti ad un giudizio stringente, esigente come quello di un tribunale e in rapporto alla verità. Questa precisazione offre già alcuni lumi riguardo al senso autentico del termine anche in ambito cristiano.

    Il concetto, dunque, assunto dall’ambito della fede in Dio Padre e in Gesù Cristo, prende pian piano le connotazioni che oggi normalmente associamo alla parola martire e martirio: cioè testimonianza della verità, anche là dove questo comporta difficoltà gravi. Testimonianza decisiva, importante e che può cambiare la storia, come avviene in tribunale, appunto, allorquando un testimone porta chiarezza, in modo decisivo, sugli eventi e svela la verità.

    Ritroviamo il termine, soprattutto nel suo sinonimo di testimone, già nell’Antico Testamento, per cui si può parlare di una martyria, o testimonianza, già prima di Cristo.

    È Dio stesso che chiama il Suo popolo a dare testimonianza dell’appartenenza a Lui, l’unico Dio, e lo fa con parole forti:

    voi siete i miei testimoni – oracolo del Signore – miei servi, che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che sono io. Prima di me non fu formato alcun dio né dopo ce ne sarà. Io, io sono il Signore, fuori di me non v’è salvatore. […] Voi siete miei testimoni - oracolo del Signore – e io sono Dio, sempre il medesimo dall’eternità ( Is 43, 10-13).

    Dio appare qui come il testimone di Sé stesso, della verità su di Sé, che chiama ad entrare in tale verità e a diventare, dunque, testimoni di essa e della Sua medesima Persona.

    Ma troviamo già nella vicenda di Caino e Abele, dunque alle origini della storia del popolo eletto, la presenza del sangue legata alla testimonianza e alla fedeltà verso Dio (Cfr. Gen 4, 1ss): Caino, in odio e con invidia per il gradimento da parte di Dio nei confronti del fratello Abele, lo uccide e si pone contro il Signore. È la lettera agli Ebrei a spiegare bene il significato martiriale di questo episodio:

    per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni: per essa, benché morto, parla ancora ( Eb 11, 4).

    L’offerta della vita di Abele, trucidato dall’invidia del fratello a causa di Dio, resta dunque eloquente testimonianza di fedeltà a Lui: parla ancora, dopo la morte di lui e resta come segno dell’amore e lealtà verso Dio.

    Fin dall’inizio della storia dell’uomo, dunque, testimoniare la propria fedeltà a Jhwh comporta l’impegno della vita e la possibilità di una morte violenta. Gesù stesso, nel Vangelo di Luca, ricorda questa realtà e la spiega:

    per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria che fu ucciso tra l’altare e il santuario ( Lc 11, 49-51; Cfr. Mt 23, 34-36).

    Bisogna subito precisare, però, che proprio la parola di Gesù aiuta a riconoscere nel sacrificio di Abele, più chiaramente in quello che Abramo è pronto a fare di Isacco ed in tutti gli altri sacrifici di innocenti lungo la storia del popolo di Israele, l’adombrarsi del sacrificio dell’Agnello immacolato, cioè di Cristo, il Testimone di verità, lui stesso verità per eccellenza. Sempre la Lettera agli Ebrei, vero commento teologico di grande valore della storia della salvezza, evidenzia questo parallelismo stringente tra le scelte dell’uomo e la vita di Cristo:

    per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone […]. Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa ( Eb 11, 26).

    È infatti a Lui che si deve ogni giustizia e vittoria: «al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quella di Abele» ( Eb 12, 24). Tutta la lettera agli Ebrei mette così in relazione ogni testimonianza veterotestamentaria con quella di Cristo. Egli è il Testimone più autentico della Verità nella Sua interezza, il Testimone per eccellenza, unico nel quale sia possibile dare testimonianza con la propria vita e in modo significativo.

    I profeti, poi, sono specificamente chiamati a testimoniare la loro particolare appartenenza al Signore con la loro stessa vita, spesso contro il rifiuto che la volontà di Dio incontra nel cuore dell’uomo peccatore. Soprattutto il libro di Isaia, che direttamente allude a Cristo, parla della sorte che può essere riservata a colui che annuncia la verità di Dio e la testimonia con le sue scelte:

    Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. […] Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte ( Is 53, 7-8).

    Emerge così l’identificazione tra il testimone, il martire e Cristo. Chi testimonia la verità non può sfuggire al destino che ha visto Cristo. Isaia allude anche esplicitamente alla presenza di Dio in ogni martirio ed alla fecondità del sacrificio:

    Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà sé stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità ( Is 53, 10-11).

    Queste citazioni sono importanti, basilari direi e saranno preziose per aiutarci a comprendere quello che appare evidente soprattutto nei primi martiri della storia della Chiesa cioè, appunto, l’identificazione tra il martire e Cristo! Questa è anche il primo elemento importante di ciò che è il martirio e utile per comprendere il senso del martirio anche oggi.

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