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Domani, necessariamente
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E-book277 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Protagonista di questo romanzo di Andrea Gianinazzi, il professor Limandri, è una figura particolarmente interessante. Anti-eroe per vocazione naturale e per la scelta di coltivare i propri studi in una ovattata e beata solitudine, rimane collocato al margine di un contesto storico e sociale in cui l’impegno e la partecipazione sono sovente le maschere tragiche di malcelati e torbidi interessi. L’indifferenza del personaggio è in realtà soltanto apparente. Egli nasconde in sé molte virtù che sonnecchiano in uno stato letargico. Il professore si trova, suo malgrado, coinvolto in una complicata avventura per la cui soluzione dovrà affidarsi in parte ad alcune sue inattese qualità e in parte a eventualità fortuite. Il confuso intreccio, in cui egli proverà a districarsi, rappresenta senza dubbio il cuore del romanzo e si dipana lentamente quasi in forma di scioglimento di più enigmi. Trama avvincente e coinvolgente, eppure, ciò che forse sorprende di più, è proprio la partecipazione alla vicenda dello stesso professore. Poiché questa “storia nella storia” è una sorta di percorso iniziatico, un viaggio in una dimensione diversa e sconosciuta, un processo di rinnovamento di sé che conduce, attraverso l’adozione di prospettive diverse, a un atteggiamento nuovo nei propri confronti e della vita in generale.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2013
ISBN9788862596664
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    Anteprima del libro

    Domani, necessariamente - Andrea Gianinazzi

    Domani, necessariamente

    Storia milanese tra acque e nebbie

    Andrea Gianinazzi

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-666-4

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-648-0

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Copyright © Andrea Gianinazzi

    Prima edizione cartacea febbraio 2007 - Il Filo

    Seconda edizione cartacea gennaio 2013

    Prima edizione digitale gennaio 2013

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo riservati per tutti i paesi

    a Sonja, Micol e Jacopo

    1

    Lo specchio, quella mattina, non gli rendeva giustizia. Sotto gli occhi aveva dei rigonfiamenti e le rughe sulla fronte apparivano più pronunciate del solito. Si insaponò e si rase accuratamente, sottoponendo ogni millimetro di pelle a un esame minuzioso. Si sciacquò il volto, si spalmò una crema che gli avevano venduta come miracolosa contro l’invecchiamento della pelle e si diede dei buffetti qua e là per riattivare la circolazione. Non era molto soddisfatto del risultato, ma di più quella mattina, non poteva fare.

    Si infilò una camicia, non senza essersi prima cosparso di borotalco. Si vestì scegliendo tra i numerosi abiti quello che andasse meglio per quella giornata umida e fredda.

    Non sapeva quando sarebbe rientrato quella sera.

    Si mise in tasca un fazzoletto pulito e, mentre si annodava

    la cravatta, guardò verso il letto matrimoniale dove sua moglie ancora dormiva. Si avvicinò e le diede un bacio sul collo. La donna si svegliò e lo abbracciò: «ti preparo il caffè».

    «No, resta pure a letto. Sono le cinque. Ho impegni che mi terranno fuori fino a tardi, questa sera. Non aspettarmi alzata!».

    «Anche oggi?» disse la donna, girandosi dall’altra parte e fingendosi offesa per come quel marito elegante, premuroso, perfetto, la trascurava.

    «Ancora per poco, cara, ancora per poco, questa vita».

    La cucina era fredda. Rinunciò a prepararsi il caffè. Non se lo faceva quasi mai e, del resto, nemmeno sua moglie. Di queste e altre faccende, si occupava di solito una vicina, che sarebbe arrivata solamente verso le otto.

    Calzò le scarpe, infilò il paltò mise il cappello. Chiuse la porta con delicatezza. Uscì in strada.

    Appena fuori, accese una sigaretta, aspirando il fumo con evidente piacere. In quei giorni aveva fumato parecchio. Sapeva che non gli faceva bene, ma, sotto pressione, non riusciva a stare senza. Le sigarette le comprava a dozzine, già arrotolate, in una tabaccheria del centro. Nel retrobottega c’era una piccola manifattura dove alcune operaie facevano quel lavoro.

    Per il primo anniversario di matrimonio, la moglie gli aveva regalato un portasigarette d’argento che lui non mancava di mostrare ai colleghi, giocandoci durante le riunioni o tenendolo in mano più del necessario. Mai che avesse offerto una sigaretta. Anche per questo non lo sopportavano, sebbene il motivo principale andasse ricercato negli appoggi che aveva in alto, molto più in alto di quanto potessero credere. L’avvenenza della moglie e, soprattutto, la consistenza della dote, avevano poi fatto il resto.

    Il giorno prima aveva passato alcune informazioni alla polizia politica circa uno che da tempo teneva d’occhio. Facendoselo amico aveva saputo che qualcosa stava per succedere.

    Non si riteneva un doppiogiochista nel vero senso della parola anche perché nella sua posizione non avrebbe potuto fare molta strada, ma proprio per questa sua lontananza dalle cose della politica era riuscito più volte a conquistare la fiducia di qualche simpatizzante facendogli dei piaceri, facilitando un po’ le cose che erano sempre troppo complicate e, in questo modo, quelli si aprivano e lui passava le informazioni a chi di dovere.

    Ora, l’ultima dritta riguardava l’arrivo, una mattina, di uno che avrebbe dovuto riorganizzare la rete ed eliminare i punti deboli. Lui era un punto debole e la mattina, secondo le ultime informazioni che aveva avute, era proprio quella.

    Il telegramma parlava di un giovane in viaggio per Milano con il treno della notte: uno alto con un vecchio cappotto di cammello. Lo avrebbe pedinato per scoprire i suoi contatti, poi...Poi vedrò il da farsi pensò mentre, a rapidi passi, cercava di arrivare alla stazione in tempo per il treno delle sei.

    Considerava la nuova stazione come il tempio di quell’era tecnologica: si capiva, guardandola, che lui stava dalla parte giusta e che presto avrebbe potuto presentare il conto per i suoi servigi.

    La ricchezza doveva essere bilanciata anche da un eguale potere e lo avrebbe avuto, questo potere, a tutti i costi. Sarebbe arrivato a casa e avrebbe detto alla moglie: «Prepara tutto. Partiamo; si va a Roma; sono stato nominato!».

    «Non importa che cosa sarò nominato, purché sia a Roma, e purché sia qualcosa che conti ci riuscirò. Dio se ci riuscirò».

    Mancavano ancora una decina di minuti e decise di bersi un caffè. Gli unici avventori erano agenti della polizia ferroviaria. Avevano una borsa accanto: probabilmente erano arrivati durante la notte e aspettavano una corrispondenza per tornarsene a casa.

    L’altoparlante annunciò il treno da Parigi.

    La locomotiva si fermò riempiendo la volta di fumo e vapore: si emozionava sempre, alla vista di quei cavalli vapore; e quanti ne conteneva una macchina così!

    Vide il suo uomo arrivare dalla coda del treno, con una grossa valigia. Era alto e robusto, molto più di lui, con un cappello e un paltò che lo invecchiavano di alcuni anni. Poteva avere venticinque anni. Lo seguì con lo sguardo fino al deposito del bagaglio: consegnò la valigia, porse una banconota e rimise il resto e la ricevuta nella tasca interna del cappotto.

    Uscì prima di lui e lo aspettò un po’ più avanti, nascosto dietro una colonna della galleria delle carrozze.

    Lo vide, alleggerito, mentre lasciava la stazione e si avviava verso la città addormentata e nebbiosa.

    Gli si mise dietro.

    2

    Il professor Limandri depose le provviste sopra la credenza in cucina, mettendo le verdure nell’acquaio. Davanti allo specchio si tolse la giacca. Si slacciò il primo bottone della camicia dopo essersi tolta in malo modo la cravatta. Ancora dopo anni, quell’addobbo maschile, continuava a dargli fastidio: se ne stava sempre ad armeggiare con le dita tra collare e collo al punto che, quando ancora insegnava, gli allievi più anziani gli facevano il verso proprio per quel gesto.

    Aprì la porta finestra e uscì sul balconcino. Era come affacciarsi sul nulla. Sentiva il vociare degli operai giù nella strada, ma non vedeva né operai, né strada. Giungevano sino a lui i battiti dei martelli e il rumore delle assi scaricate da qualche chiatta ormeggiata lungo l’alzaia.

    Rientrò subito lasciando accostata la finestra. Si sedette nella poltrona con il giornale tutto ancora da leggere e che rimase tale.

    Saranno state le cinque, quando sentì bussare. Gli sembrava di essere altrove. Il giornale era finito per terra e l’aria che entrava dallo spiraglio della finestra lasciata appena accostata, aveva raffreddato l’ambiente. Si mise in piedi con una certa fatica si passò le dita tra i capelli e aprì. Era la portinaia.

    «Professor Limandri, c’è giù uno che vuole vedervi. Ha una lettera per voi di un vostro conoscente. Dice di essere del vostro paese».

    «Che cosa può volere?».

    «Di più non m’ha detto. È un giovane alto».

    «Fatelo salire» disse, chiedendosi chi diavolo potesse essere e soprattutto che cosa volesse.

    Era un bel po’ che mancava dal suo paese e dalla casa dove era nato. La sua era una delle prime che si incontrano entrando da sud. Era rimasta chiusa da quando, morto suo padre poco prima della guerra, la mamma aveva preferito raggiungerlo a Milano. C’era rimasta la zia Angioletta che ogni tanto, visto che ancora stava bene in salute, andava ad aprire qualche finestra per farvi entrare la luce e l’aria e, passato l’inverno, mandava qualcuno a rassettare il tetto in coppi, per via della neve. Non lo faceva certo per compenso e nemmeno perché avesse a cura la casa del nipote milanese, era solo perché il tetto era in comune e le infiltrazioni d’acqua, si sa, non rispettano le proprietà. Praticamente non conosceva più nessuno: quello era un mondo scomparso, ma forse era solo lì appena sotto la superficie pronto per riaffiorare e ricordargli quelli che erano stati i luoghi dove aveva vissuto infanzia e adolescenza.

    Uscì sul pianerottolo e lo vide salire le scale con una certa circospezione, come se temesse qualcosa. Si guardava attorno.

    «Ancora un piano!» gridò la portinaia che da giù lo stava accompagnando con lo sguardo.

    «Il professor Limandri, vero?» chiese all’uomo che lo attendeva in cima alla scala.

    «Sono io».

    «Mi chiamo Amedeo Nardi».

    «Entriamo! Qui è meglio non parlare» e diede uno sguardo allusivo alle due porte che si aprivano sul suo stesso pianerottolo.

    «Gente pettegola che non si fa mai gli affari propri!» soggiunse appena richiusa la porta dietro di sé.

    «Accomodatevi. Cosa possa fare per voi? La Marta mi ha detto che venite da...».

    «Sì ci manco da qualche anno, ma ho ancora i miei genitori.

    Ecco, il Benigno Ramai mi ha dato questa per voi».

    Gli porse la lettera e il Limandri la prese, l’aprì e si lasciò prendere da ricordi che gli si paravano davanti ora, con un’intensità nuova, quasi velata dalla nostalgia.

    Benigno Ramai. Qualche anno di scuola l’avevano fatto assieme, benché avesse due o tre anni di più. Poi lui s’era perso nel lavoro e, nel lavoro, aveva avuto la scuola. Il padre se lo portava appresso per farsi aiutare e insegnargli il mestiere: era meccanico e girava nelle fabbriche tessili ad aggiustare i telai e le macchine che li facevano girare.

    Aprì la lettera: mancava il luogo e la data era di qualche tempo prima, il 23 settembre. Gli presentava il ragazzo che aveva davanti, dicendo che era figlio di due contadini che aveva conosciuto bene.

    Benigno glielo raccomandava e lo pregava di aiutarlo a cercare un alloggio, così che potesse dedicarsi agli studi con tutta tranquillità. Gli chiedeva di stargli vicino e di dargli una mano. Gli diceva, con le parole di cui disponeva, che sperava di incontrarlo presto: «ché è tanto tempo dall’ultima volta»...

    Sì, era tanto tempo dall’ultima volta.

    Il Limandri restò un po’ con gli occhi persi dentro a quella scrittura, come se volesse leggere oltre e arrivare a vedervi il Benigno, salutarlo, parlargli, litigarci. Quelle poche righe lo avevano messo in subbuglio: ricordi di persone, di situazioni tornarono alla sua mente, stringendogli la gola.

    Mentre il Limandri leggeva e rileggeva la lettera, il giovane aveva già preso le misure del luogo e dell’inquilino che l’abitava, delle sue abitudini, fisime, chiodi fissi, preferenze, manie, vizi. Aveva intravisto la scrivania piena di carte scritte e non scritte; il cestino della carta straccia, il giornale sul tavolino, la pipa appoggiata sul tavolo con la cenere sparsa attorno. La verdura nell’acquaio ancora nella carta da giornale che doveva provenire da uno dei molti mercatini rionali che aveva visto venendo là.

    Chissà a cosa starà pensando? pensò a sua volta il Limandri, sentendosi messo a nudo da quell’indagine sistematica in cui tutto quanto gli apparteneva si fissava in un altro ordine. A differenza delle indagini bonarie della Marta, questa lo interpretava: metteva ogni cosa all’interno di un disegno preesistente che non poteva né scorgere né tanto meno modificare.

    «Amedeo, è così che hai detto di chiamarti, vero?».

    «Sì Amedeo, Nardi Amedeo. Non vorrei disturbarvi per altro tempo. Sono venuto solo perché il Benigno ha insistito tanto che venissi da voi prima di mettermi a cercare altrove.

    Anche perché non saprei da che parte cominciare. Basterebbe poter sapere da che parte cominciare».

    «La lettera è però di parecchio tempo fa?».

    «Sì ho perso un po’ di tempo. Pensavo di potermi sistemare da amici poi la cosa non ha funzionato».

    «Faccio il caffè; ne vuoi una tazza?».

    Appena la mamma lo aveva lasciato, aveva introdotto una piccola rivoluzione: basta caffè alla turca, ora solo caffè patrio.

    L’occasione gli era venuta da un catalogo della Rinascente: al numero 35944 si faceva menzione di una caffettiera denominata La Napoletana rovesciabile in latta nichelata, tipo lusso. Con trentacinque lire si era portato a casa quella per tazze due, quella per tazze quattro e quella per tazze sei, più per rispondere a quel suo bisogno di avere di una serie tutta la serie, che per l’eventualità di avere ospiti per casa e di dover, in proporzione, aumentare le dosi.

    Da quel momento era iniziato il lento e lungo avvicinamento al caffè migliore: qualità tostatura, macinatura, caricamento del filtro, quantità d’acqua, intensità della fiamma, durata del bollore, mantenimento dell’aroma, rovesciamento della cuccuma, tempo di attesa, rimescolamento. In questo approccio all’optimum aveva, via via, eliminato lo zucchero, il latte, la grappa e ogni altra cosa che si è soliti aggiungere: caffè tutto solo, ridotto alla sua essenza più pura.

    Prese la caffettiera di mezzo, completamente annerita. Era capitato che la Marta, pensando di far bene, l’aveva tirata lustra dentro come fuori. Quando il Limandri se l’era trovata davanti, poco c’era mancato che si mettesse a piangere.

    Misurò quattro cucchiai di polvere, presi da una scatola di quelle a chiusura ermetica e due da un’altra. Era indispensabile, come aveva detto a quei pochi che avevano avuto modo di osservare l’incongruenza dell’intera operazione, mantenere separate le polveri: l’acqua avrebbe incontrato prima il caffè di sotto, quello più forte che avrebbe dato il corpo e, solo dopo, quello di sopra preso dalla scatola più piccola, che gli avrebbe dato il carattere. Aveva sempre detestato la compromissione e la confusione dei generi. Il caffè era uno solo per analogia. Lisciò la polvere e, con il cucchiaino, vi fece alcuni fori. Ricompose il tutto, accese il gas e regolò la fiamma in posizione di compromesso, vi pose sopra il marchingegno.

    Quando prese a bollire, calcolò un minuto d’orologio: solo allora rimise sui piedi ciò che prima stava sulla testa e l’acqua attaccò a percolare attraverso la polvere: facendosi prima corpo poi, ma solo in seguito, anche carattere, fatto di aroma, profumo e di quell’unto che, col tempo, si deposita sulle pareti della caffettiera.

    Scesa l’ultima goccia, il Limandri aprì il cilindro e con lo stesso cucchiaino prese a rimestare con cura il liquido di modo che la soluzione diventasse uniforme per evitare l’ingiustizia di far bere al primo il caffè più debole, più diluito e, quindi, meno efficace e gradevole. Messo il coperchio, portò tutto sul tavolo accanto al quale l’ospite se n’era rimasto in religioso silenzio a contemplare la meticolosa preparazione della bevanda.

    Il giovane attese che il padrone di casa terminasse tutta l’operazione che a lui non sembrava poi tanto importante ed essenziale: aveva sempre bevuto il caffè senza tanti maneggi per prendere in mano la fine porcellana che, tra quelle mani, pareva persino si potesse sbriciolare. Era abituato a quelle scodelle povere, abbellite appena con due o tre strisce di colore o qualche fiore.

    Il fatto grave era che il caffè non gli pareva poi tanto buono. Per essere onesti, faceva rimpiangere quello di casa sua fatto alla buona.

    «Non è che io di alloggi ne sappia granché. Gli studenti che vengono da fuori cercano nei paraggi dell’università qui è più scomodo. Sì, con una bicicletta, purché se ne abbia una, ci vuole poco. Ci vuole la bicicletta, però. Adesso dov’è che sei messo?».

    «Per ora ho ancora una camera in una pensione, ma non è pratico. Non posso sistemare né i libri né tanto meno avere uno spazio mio per poter leggere e studiare. Riesco comunque a far capo alla biblioteca dell’università che ha il vantaggio di essere anche ben riscaldata».

    «A che facoltà sei iscritto?».

    «Legge».

    «Legge? Di ‘sti tempi!».

    Amedeo non ravvisò l’ironia nella voce del professore.

    «Proviamo a chiedere alla Marta. Lei sa sempre tutto e sicramente ci può dare una mano. Sì, poi andiamo all’osteria qua vicina e cominciamo a far girare la voce anche là. Un posto buono deve pur esserci ancora sfitto! Su, diamoci da fare!».

    Si infilò le scarpe e prese il paltò che stava ancora messo di traverso sull’ottomana. Amedeo fece altrettanto con la giacca che aveva diligentemente messo sullo schienale della poltrona dove si era seduto.

    Ad Amedeo questa idea di mettere in giro la voce non era piaciuta per niente, ma non poteva fare altrimenti. Avrebbe preferito che l’altro gli offrisse subito la camera che aveva in più perché era là che aveva progettato di stare, non da un’altra parte. Doveva convincere il professore, ma per questo bisognava stare con lui per un po’ di tempo, farsi conoscere, piazzare la parola giusta al momento giusto.

    Uscirono e il Limandri, spenta la luce, chiuse dietro di sé la porta dando due giri e poi nascose la chiave dentro a una fessura del muro che tutti conoscevano, anche i vicini.

    Dalle porte degli altri appartamenti filtrava solo un rigagnolo di luce che mal s’aggiustava con il torrente di parole, di versi, di rumori che proveniva dalle stesse fonti.

    Scendendo, incontrò quel tale che stava al piano di sopra. Lo salutò e quello gli rispose appena, ansimando. E veniva su dalle scale con in spalla la bicicletta che non lasciava mai alla mercede del furto d’uso. Il Limandri non si era mai preoccupato di sapere qualcosa sul suo conto.

    Conosceva il cognome, Minghini, perché aveva la cassetta delle lettere vicina alla sua. Quando lo incontrava o stava sopra la bicicletta, oppure la portava. Qualche chiacchiera, niente di più. Come usciva dal portone, più nessuno sapeva dove andasse e che cosa facesse. Nemmeno la Marta lo conosceva meglio. Il padrone dello stabile un giorno di qualche anno prima le aveva detto: «l’appartamento del quarto piano l’ho dato a uno che viene da fuori; una persona a modo. Fate che si trovi bene!».

    I mobili erano arrivati con un paio di giorni di anticipo. Dal carro avevano scaricato anche una grande piastra di legno avvolta in carta da giornale e tutti si erano chiesti a che cosa potesse servire. Era giunto in bicicletta con una valigia legata sul portapacchi con grande investimento di spago. Era salito e se n’era stato giorni in casa senza uscire, se non per piccole compere. Per un paio di settimane l’avevano sentito martellare, segare, piallare, lisciare come un forsennato, poi tutto era tornato alla tranquillità di prima. Andava e veniva, veniva e andava. Non faceva altro, ma non dava nemmeno fastidio e quello era già un bel merito. La Marta gli aveva proposto di lasciare la bicicletta nel ripostiglio dove teneva le cose per pulire, ma non aveva accettato.

    Bussò ed entrò dalla Marta che stava già dandosi da fare per la cena: minestra di verdura, si sarebbe detto dal forte odore di verza tostata che usciva dalla pentola di rame e dagli indizi di taglio di verdure sparsi un po’ ovunque nell’acquaio.

    «Il minestrone» ripeteva spesso la donna: «non lo si può fare per una persona sola!». E questo discorso lo faceva per quasi tutti piatti che sapeva cucinare. E come darle torto? La sua era una cucina per famiglie numerose. Per questa ragione una cucina siffatta aveva come vocazione l’invito che si intendeva in due modi: l’invito diretto o la consegna a domicilio. Al Limandri, per il quale aveva sempre avuto una certo debole al punto che avrebbe accettato di buon grado anche qualche complimento e, forse, qualcosa di più, il minestrone lo portava in casa, ma ne dava delle fondine anche ad altri inquilini che vivevano soli, come la docente di greco e di latino del quarto piano. Alla Cantante no, perché quella soffriva di aerofagia oltre che di tantissimi altri malanni.

    La Marta era ancora una bella donna. Solo qualche filo grigio tra i capelli corvini indicava che gli anni della giovinezza erano passati. Non mancava però occasione per usare il fascino che le era rimasto per cercare di smuovere il professore. Quando saliva da lui, si toglieva il grembiule e lasciava aperto il colletto delle camicetta: qualche bottone oltre il lecito. Il destinatario di tutte quelle attenzioni non se ne accorgeva o fingeva di non accorgersene e questo la intristiva.

    Il Limandri notò della cotenna sul tagliere, vicino ai fornelli, segno che ben presto sarebbe anch’essa finita ad arricchire il brodo una volta giunto a bollore moderato. Appallottolata, poco lontana, la carta oleata, ormai inutile.

    «Marta, questo giovane compaesano mi chiede di aiutarlo a trovare un alloggio. Non è che per caso sapete, in questa zona o, magari, più verso l’università di qualcuno che tenga studenti a pensione a un prezzo ragionevole o che abbia una camera da affittare?».

    E, mentre parlava, si riempiva i polmoni di quel profumo che ben si adattava al grigiore di quella giornata nebbiosa.

    «Non so niente di camere sfitte qui attorno, ma posso mettere in giro la voce. Potreste lasciar detto qualcosa al vostro barbiere e all’osteria dove passate la maggior parte del vostro tempo!».

    Il Limandri non fece attenzione alla velatura polemica che accompagnava quel suggerimento: c’era abituato. Una donna sola, un uomo solo, un aiuto reciproco e qualcosa comincia a funzionare come in una coppia navigata, nel bene e nel male.

    «È quello che pensavo di

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