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Caccia al sindaco
Caccia al sindaco
Caccia al sindaco
E-book305 pagine4 ore

Caccia al sindaco

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Info su questo ebook

Nella piccola città di Gorzone (nome di fantasia dentro una realissima provincia di Vicenza) vivono i gemelli Adriano e Mariano Drago. Il primo è titolare dell’impresa di pompe funebri di famiglia, il secondo è professore di italiano. Ma vivono anche la sindacalista di lungo corso Alice Cumerlato, il preside Francesco Ceccon detto Checocecòn, indomito indipendentista veneto, il segretario di Forza Italia, l’avvocato Concetto Caiazzo, e quello del Pd, il pacato Gianluca Visetti.  
Mentre Adriano rivoluziona i funerali cittadini lanciando un nuovo servizio molto gradito dai clienti, e mentre Mariano organizza corsi di dialetto per bambini delle elementari che riscuotono grande successo, in città si avvicinano le elezioni per il rinnovo del sindaco. Centrodestra e centrosinistra si mettono alla ricerca del candidato ideale alla fascia tricolore: qualcuno di “fresco” e fuori dalle logiche di partito, per avere maggiori chance di vittoria in un clima di distacco generale dalla politica e di voglia di rinnovamento. Ma c’è da fare i conti con il preside indipendentista, con una lettera che arriva dal passato e con vicende private che sollevano piccoli scandali e piccole vendette. E si sa: finché una campagna elettorale non è finita, tutto può succedere.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2023
ISBN9791222456447
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    Anteprima del libro

    Caccia al sindaco - Stefano Tomasoni

    1.png

    I Sorrisi del Leone

    76.

    Stefano Tomasoni

    Caccia

    al sindaco

    Con partiti e candidati in campagna elettorale,

    becchini intraprendenti, indipendentisti irriducibili,

    piccoli scandali e piccole vendette

    A tutti i nostri lettori ricordiamo, a scanso di equivoci, che i fatti narrati in questo libro e i personaggi descritti che ne vivono la storia, sono frutto della fantasia dell’autore.

    Proprietà letteraria riservata

    2023 © Piazza Editore

    via Chiesa, 6 - 31057 Silea (TV)

    Tel. 0422.1781409

    www.piazzaeditore.it - info@piazzaeditore.it

    e-mail dell’autore: stefaniastefano@alice.it

    ISBN 978-88-6341-296-3

    "Si vota per una persona,

    non per un partito".

    Jacques Séguéla

    Prologo

    Mezzogiorno e ancora niente.

    Aveva lo sguardo vuoto, fisso sull’enorme quadro appeso alla parete di fronte. Raffigurava un paesaggio di campagna con al centro una vecchia casa colonica e un grosso cane sulla soglia.

    Si scosse nel sentire un rumore fuori dalla porta. Girò gli occhi tutt’intorno come se vedesse l’ufficio per la prima volta. Il salottino per gli ospiti prendeva quasi metà della stanza, le bandiere facevano ombra a una piccola libreria occupata totalmente da una vecchia enciclopedia Treccani.

    Si accorse che quella mattina non aveva aggiornato il calendario sulla scrivania. Strappò nervosamente il foglietto vecchio e guardò la nuova data. 20 dicembre 2024. Il giorno che stava aspettando da tanto.

    Però era quasi ora di pranzo e ancora non c’era stata nessuna chiamata, nessuna conferma. Quindi piano con l’euforia.

    Si voltò verso la finestra che dava sulla via principale e si concentrò sui rumori di fondo e sul vociare che saliva dalla gente impegnata negli ultimi acquisti natalizi. E se ci fosse stato un imprevisto?

    Il cellulare sulla scrivania si illuminò. C’era un nuovo messaggio di whatsapp. Afferrò lo smartphone all’istante.

    Sono arrivati.

    Finalmente.

    Volo, rispose.

    Schiacciò un pulsante sulla plafoniera del telefono dell’ufficio, dopo qualche istante rispose la segretaria.

    Esco in anticipo, ci rivediamo nel pomeriggio.

    D’accordo, le ricordo l’appuntamento delle tre.

    Guardò il piccolo busto di gesso bianco all’angolo sinistro della scrivania e gli parlò.

    È successo davvero. Ce l’abbiamo fatta.

    Si alzò di scatto e afferrò il giaccone dal gancio alla parete, vicino alle bandiere. Le aveva fatte sostituire fin dai primi giorni, quelle precedenti erano lise e inguardabili. Queste erano nuove e immacolate. Adesso, poi, cadevano con pieghe che sembravano sorrisi.

    Settembre - Novembre 2023

    1.

    I becchini si mossero

    I becchini si mossero appena il prete ebbe finito con le formule di rito e la benedizione. Sistemarono le corde e cominciarono a calare la bara nella fossa. Quando toccarono il fondo con la punta, l’addetto che stava dietro fece scendere lentamente la coda, poi entrambi sfilarono le corde da sotto con mosse collaudate, frutto di un’intesa perfetta.

    Il cimitero di Gorzone adesso, terminata la breve cerimonia di addio, era immerso in un silenzio perfetto. Si sentiva soltanto il gracchiare di un paio di corvi in lontananza. Si era alzato un vento che aveva portato grosse nuvole bianche a coprire il cielo azzurro di quand’erano entrati in chiesa, un’ora prima.

    Il sacerdote lesse ancora qualche frase dal libretto di preghiere che teneva in mano e aggiunse un’altra benedizione, più fugace.

    Alice Cumerlato si avvicinò alla fossa. Teneva in mano un piccolo mazzo di fiori di campo. Lo gettò sulla bara. Poi raccolse una manciata di terra fresca dal mucchio creato dallo scavo e la lasciò cadere aprendo lentamente il pugno. Il rumore del terriccio sul cofano di legno fece da starter per gli altri presenti: anche loro a turno presero un po’ di terra e la rilasciarono sulla bara, rimanendo qualche secondo in preghiera con lo sguardo alla buca.

    Quando tutti si furono allontanati di qualche metro, uno degli addetti accese la piccola ruspa che attendeva accanto. Il rumore del motore invase d’improvviso il cimitero rompendo l’atmosfera di raccoglimento. L’uomo manovrò la macchina e iniziò a spostare la terra, spingendola a ricoprire la tomba.

    Adriano Drago seguì il rito, come sempre, accanto all’auto che aveva trasportato la salma, un mercedes grigio fumo ultimo modello acquistato tre mesi prima e con il quale le Onoranze funebri Drago avevano surclassato il parco auto delle altre due ditte locali, i Ceola e i Baratto. I quali, sicuro come la morte, a breve avrebbero risposto con mezzi altrettanto nuovi e tecnologici. Faceva parte della legge della domanda e dell’offerta, nel loro settore: per portare a casa un numero maggiore di cari estinti bisognava mettere in mostra auto e furgoni sempre aggiornati, e possibilmente di maggior prestigio rispetto a quelli degli altri. Mors tua, auto mea. Questo portava a dover sostenere almeno ogni tre anni un esborso che faceva la felicità del concessionario di turno.

    Mentre la ruspa faceva il suo lavoro, Drago pensò che stavolta il mercedes avrebbe dovuto durare di più, volere o volare. C’era crisi sotto tutti i punti di vista. A parte quella ormai storica partita con il crac Lehman, c’era stata l’emergenza della pandemia e la tragedia della guerra in Ucraina. Va bene che il suo era un settore dove i clienti non mancavano mai (morire bisogna diceva sempre suo padre per convincerlo che il becchino era l’unico lavoro che sarebbe sempre esistito), ma il risultato di tutti quegli sconquassi si era riflesso anche sulle spese della gente per i funerali, e poi aveva costretto a fare i conti con materie prime e carburanti saliti alle stelle. Gli ultimi anni, dunque, avevano fatto a Drago un’iniezione di sano realismo e prudenza. Aveva toccato con mano una verità sempreverde: quel che oggi va bene, domani può andare male. Avrebbe potuto farne lo spot perfetto per la sua attività: Ancò te ghe sì, doman no se sa.

    Dentro la bara coperta dalla ruspa c’era Toni Cumerlato. Il padre della prima storia d’amore di Adriano, sbocciata appena arrivati alle superiori, al liceo scientifico Mattei. Un colpo di fulmine che lo aveva bloccato peggio di un colpo della strega. Il giorno in cui era iniziata la scuola, nel trambusto in classe, la prima cosa che aveva notato di lei era stato il braccio. Il destro, che aveva alzato al momento dell’appello.

    Cumerlato. Presente. E il braccio era scattato alto, mettendo in mostra una mano che a lui era sembrata subito la cosa più bella e delicata mai vista, per continuare con un polso affilato e un morbido avambraccio da restare incantati. E infatti.

    Drago, aveva ripreso il professore.

    Nessuna risposta.

    Drago non c’è?.

    Sì sì, professore, presente.

    Non sembra.

    Il banco della ragazza era distante ma un po’ più avanti del suo, così quantomeno poteva guardarla di sottecchi non appena gli spostamenti dei compagni liberavano la visuale. Aveva capelli castani che schiarivano man mano che scendevano fino a coprire l’inizio delle spalle, erano mossi e vagamente ricci in fondo. Indossava una camicetta bianca a maniche corte che si chiudeva davanti con un fiocchetto forse un po’ troppo infantile.

    Alla ricreazione l’aveva trovato da sola in corridoio.

    Ciao, io sono Adriano, ben arrivata.

    Alice. Grazie.

    Come ti sembra il primo giorno qui?

    Mah, bene, per ora.

    Per me è il miglior primo giorno di scuola di sempre.

    Perché?

    Perché ci sei tu. E anche se siamo lontani di banco, siamo attaccati sul registro. Io all’appello vengo subito dopo di te. Secondo me è un segno: il destino ci sta dicendo che dobbiamo stare vicini.

    Temeva di essere stato troppo diretto, ma lei per fortuna aveva sorriso.

    Comunque era tutto troppo bello perché potesse durare. Infatti dopo quattro giorni era finito.

    2.

    Al quinto giorno il banco di Alice

    Al quinto giorno il banco di Alice era rimasto vuoto e la professoressa Mondin all’appello aveva saltato Cumerlato. Adriano era rimasto sconcertato.

    Alla fine dell’elenco l’insegnante aveva annunciato che la loro compagna Cumerlato se n’era andata in un’altra scuola. Gli altri avevano appreso la notizia senza particolari reazioni, a lui era sembrata la cosa più assurda che avesse mai sentito.

    Come in un’altra scuola? Dopo quattro giorni? Perché?, aveva chiesto con tono quasi isterico.

    L’insegnante aveva alzato la testa dal registro, dove stava ancora annotando qualcosa, e l’aveva guardato basita.

    Non lo so Drago, immagino che ci saranno motivi familiari.

    Qualche giorno dopo aveva rotto gli indugi ed era andato a chiedere direttamente in segreteria. L’impiegata aveva intuito il motivo dell’interessamento dallo sguardo triste e indifeso di Adriano e non aveva avuto cuore di rispondergli che non poteva dargli informazioni private che riguardavano altri studenti. Così gli aveva detto che dai genitori di Alice era arrivata comunicazione del trasferimento della figlia al liceo Lioy di Vicenza.

    Adriano non era riuscito a capire il senso della cosa e a farsene una ragione. Aveva controllato gli orari delle corriere, verificando che, per un gioco di percorsi labirintici necessario a toccare una serie di paesini lungo il tragitto Gorzone-Vicenza, per Alice voleva dire alzarsi ogni mattina almeno quarantacinque minuti prima.

    Fatto sta che si erano persi di vista. Troppo pochi quattro giorni per avere il tempo di entrare in confidenza, per pensare di telefonarle a casa o di pretendere chissà che. Aveva provato, per qualche settimana, a mettersi in attesa in orari diversi nei pressi di casa sua, varie volte ci era anche passato per caso, ma niente. Scomparsa. Come era entrata nella sua vita, così se n’era dolorosamente uscita. E lui ne aveva risentito dal punto di vista del morale e anche del rendimento scolastico, compromettendo i risultati del primo quadrimestre.

    Si erano rincontrati per caso soltanto al quarto anno, alla premiazione di un concorso per gli studenti delle scuole superiori della provincia, nel quale sia la sua classe che quella di Alice avevano vinto uno dei premi. All’ingresso del cinema dove si teneva la cerimonia l’aveva individuata in mezzo a un gruppo di ragazze. In quello stesso istante, come se lo sguardo di Adriano avesse funzionato da calamita, lei si era girata e lo aveva visto. Lui non aveva perso tempo e, prima che le classi si disponessero in sala occupando ciascuna la porzione di platea assegnata, era riuscito a intrufolarsi nel gruppo di lei e a sederle accanto.

    Avevano parlato a bassa voce per tutta la durata dell’incontro. Non le aveva chiesto spiegazioni per la sparizione di più di tre anni prima e si era concentrato su un’opera di esplicito corteggiamento. Che non si era certo esaurita all’uscita dal cinema. Per tutti i due minuti trascorsi sul palco insieme alla classe per ritirare il premio, Adriano aveva guardato un preciso punto della platea e aveva deciso che stavolta non avrebbe lasciato che lei sparisse di nuovo. Gliel’aveva detto, una volta tornato al posto, e Alice aveva sorriso.

    Fin da quando aveva cambiato scuola, Alice abitava a Vicenza insieme a una sorella di sua madre. All’uscita dalla premiazone si erano scambiati i numeri di telefono, concordando che lui l’avrebbe chiamata il giorno dopo alle sette di sera, ora in cui sua zia era sempre ai fornelli per la cena e lei avrebbe potuto facilmente chiudersi in camera con il cordless.

    Dopo un mese di complicate chiamate quasi quotidiane, con la zia che aveva cominciato a chiederle con chi stesse sempre a parlare, avevano deciso che occorreva passare a una fase 2. Così si erano messi insieme, senza dir niente a nessuno.

    Era lui ad andare a Vicenza una mattina ogni due settimane, e quasi ogni sabato pomeriggio. Prendeva la vespa che gli avevano regalato l’anno prima i genitori, si metteva in strada e in mezz’ora, svicolando tra le auto che intasavano il traffico a tutte le ore lungo la provinciale, arrivava da lei.

    Si davano appuntamento in un angolo tranquillo di Campo Marzo, lei saliva sulla Vespa e raggiungevano le colline di Monte Berico, dove trascorrevano ore felici e, diciamo così, affettuose.

    Se è vero che il primo bacio non si scorda mai, lui non si era più scordato né il primo né quelli successivi. Perlomeno fino a quando c'era stato ancora di meglio da ricordare. La prima volta che avevano fatto l’amore era stato a casa di lui, un sabato pomeriggio nel quale i genitori erano andati a trovare dei parenti a Mestre, mentre lei aveva detto che aveva una festa di compleanno. Quando Adriano aveva avuto accanto il corpo nudo e caldo di Alice, aveva sentito un brivido scaturire dalla nuca e scendere lungo la colonna vertebrale. Si erano fusi in un amplesso che veniva da lontano.

    Avevano continuato a frequentarsi in questo modo precario e fugace per tutto l’ultimo anno delle superiori, replicando quella prima volta appena se ne presentava l’occasione. Non furono molte, ma a quell’età bisognava arrangiarsi e accontentarsi.

    Avevano tenuto quel loro rapporto per sé, custodendolo e vivendolo come se a ogni incontro entrassero in un mondo dove esistevano soltanto loro due e le persone intorno fossero degli sconosciuti. Come in effetti erano. Soltanto una volta, un sabato, era capitato di incrociare in corso Palladio uno dei professori di Adriano. Lo avevano visto nel momento in cui si erano staccati da un lungo bacio scambiato d’impeto sotto il portico del municipio. Avevano incontrato il suo sguardo e lo avevano salutato.

    Non si studia oggi eh? Guarda che lunedì c’è il compito, aveva detto il professore, ma con un sorriso complice. Poi aveva guardato Alice. Ho la sensazione di averti già visto, sei anche tu al Mattei?

    No, io sono al Lioy qui a Vicenza. Però mi ricordo di lei, perché ho iniziato il primo anno a Gorzone, ma ho cambiato scuola quasi subito. Avevo fatto in tempo ad assistere a una sua lezione e mi era piaciuta molto.

    Oh, grazie. Aspetta… allora sei tu la ragazza della classe di Adriano che se n’era andata dopo i primi giorni? Mi era rimasto impresso questo fatto.

    Il professore aveva augurato a entrambi di volersi bene e di guardarsi sempre con lo sguardo felice che avevano in quel momento. E loro, tornati soli, lo avevano ascoltato e si erano promessi di guardarsi sempre in quel modo. Si sentivano felici e persi l’uno negli occhi dell’altra.

    Ma sono cose che si dicono da ragazzi quando si è in quel terreno che sconfina tra l’infatuazione e l’innamoramento. Poi si sa come va. Era andata che, dopo la maturità, lei si era iscritta a scienze politiche a Bologna mentre lui era rimasto in paese, cominciando presto a lavorare. Risultato, si erano frequentati ancora per un po’, ma alla lunga lei aveva inevitabilmente trovato interessi diversi, nuovi compagni di studio. E di svago.

    Così, una domenica pomeriggio in cui lei era tornata a casa, ormai non più dalla zia ma a Gorzone, su una panchina del parco vicino alla stazione, tra un nonno che spingeva il nipotino sull’altalena e un passante che alla radio ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto, la storia di Adriano e Alice era arrivata al triplice fischio finale.

    3.

    Se non fosse andato alla Messa

    Se non fosse andato alla Messa della mattina, quella domenica di fine agosto, forse Toni Cumerlato non sarebbe morto.

    D’accordo che aveva già la sua bella età, ottantasette anni suonati, ma fino al giorno prima stava proprio bene, tanto che il dottor Camposilvan, salito in collina a camminare e passato a salutarlo, gli aveva detto lei ci seppellisce tutti, Antonio. Al pomeriggio aveva fatto la solita passeggiatina delle cinque e alle sei s’era seduto puntuale sul pèrgolo a guardare le montagne che da giovane aveva percorso in lungo e in largo. La sera si era messo in poltrona a buttar giù qualche verso per una delle sue poesie in dialetto che scriveva da quando era andato in pensione e per le quali in città lo conoscevano in tanti. Poesie semplici, tutte centrate sui dì de ‘na volta, le cose passate, ma proprio per questo le più amate da chi era avanti con gli anni e viveva di nostalgia.

    La mattina, a braccetto di Olga, la badante moldava che lo assisteva da due anni, Cumerlato era andato alla messa, nella chiesetta al centro della contrada. A quell’ora il sole era già alto e il verde rigoglioso dei campi aveva rallegrato il cammino. Ma quand’era tornato a casa, si era capito subito che c’era qualcosa di strano. Era diventato improvvisamente triste. Come se tutto il peso degli anni gli fosse caduto sulle spalle in un amen. Olga l’aveva lasciato sulle sue per tutto il pranzo e fino al caffè. Del resto, non c’era più molto di cui parlare. E poi ogni parola bisognava gridargliela, perché la sentisse. Me par de essere queo che ga sbecà ‘Tera!’ quando ch’el ga scoverto la Merica, aveva detto un giorno il nipote Luigi, che viveva a Feltre ed era andato a trovarlo con moglie e figli dopo cinque anni che non si faceva vedere.

    Poi, però, prima del riposino, Olga davanti a quel muso e a quel silenzio, non aveva resistito.

    Ma cosa ti è successo Toni, che non parli più oggi?

    Lui per un po’ aveva continuato a tacere, facendo soltanto qualche passo avanti verso la poltrona del salotto dove si addormentava sempre la sera. Poi aveva parlato.

    Lo so mì cossa ca go.

    Solo questo. Lossomicossacagò.

    Anche un gesto secco e ripetuto con il braccio destro mezzo alzato, a dirla tutta. Come una benedizione incazzata.

    C’era voluta la man di dio per fargli uscire il resto. E per capire che quel resto aveva fatto danni gravi dentro la scorza del vecchio Toni. Come prendere un bicchiere, chiuderlo in uno strofinaccio e fracassarlo con un martello.

    Colpa di don Christian. Quel pretino giovane arrivato la settimana prima giù in città dal seminario. Ad aiutare don Guido per l’estate. Un ragazzino. Sì e no venticinque anni. Carino. Per niente timido. Nemmeno di quelli un po’ puzza al naso che la Curia aveva mandato su certe estati per tappare i buchi e che arrivavano con l’idea di prendere un po’ d’aria di montagna e fare una specie di ritiro, sicché con la gente non parlavano quasi mai e li si vedeva soltanto per la messa alla domenica.

    Don Christian aveva occhi grandi e scuri, capelli sempre leggermente spettinati, la barba di un giorno e mezzo. E uno sguardo ispirato da prete di strada fatto e finito. Peccato soltanto quel nome un po’ così. Da checca, aveva detto Ernesto Oficina, il meccanico, un giorno che era rimasto al bar un paio di ombre di troppo. Da cantante, aveva aggiunto Rino Spritz, il barista. Da attore, aveva deciso Piereto Rolojo prima di tornare a tra i quadranti e le lancette del suo negozio.

    Quella domenica la messa in contrada era venuto a celebrarla lui. Don Guido era via da qualche giorno. Assenza forzata. Vado a trovare mia sorella, che sta male, aveva annunciato.

    Non si preoccupi, don Guido, penso a tutto io, vada a confortare sua sorella, gli aveva risposto il pretino.

    Mezz’ora prima dell’inizio aveva acceso una decina di candele sotto il crocefisso, a destra dell’altare, e altrettante sotto la statua della Madonna, a sinistra. Mai visto tante candele cussì tute impissà, avevano commentato incredule le Quattro dell’Ave Maria, le beghine chiamate così in paese per via delle ore di preghiera che trascorrevano tutte le sante mattine a casa dell’una o dell’altra.

    Il patatrac era successo a metà dell’omelia.

    Toni stava ascoltando il suono delle parole di don Christian, più che il contenuto. Un suono strano, diverso da quello di don Guido. Sto qua el ga studià, – stava pensando – senti come ch’el parla ben.

    Mezzo italiano mezzo dialetto, in realtà. Un modo per accattivarsi i fedeli. Calamitava l’attenzione: La gente non si aspetta che il prete alla predica parli dialetto. – gli aveva detto qualche anno prima in seminario nientemeno che il vicario foraneo, don Amelio – Quando capita, anche quelli in catalessi si scuotono e tirano le orecchie. Perciò quando c’è qualcosa di importante che vuoi dire e ti serve attenzione, tira fuori un po’ di dialetto.

    Don Christian stava parlando di come bisogna avvicinarsi a Dio aprendosi e accettando il contatto con il Signore. Gli sembrava un tema importante. Perciò...

    Quando facciamo la comunione, quella è la grande occasione di contatto con il Signore. In quel momento il Signore ci dice: sono qui io, non abbiate paura. Capite? È Dio che entra dentro di noi e ci cambia. Sti ani i ne dixeva: no, setu, tocare la particola coi denti! Guai! Xe pecato! E alora fasèvimo un gran lavoro co la boca, rùmega de qua e rùmega de là, la particola la se tacava al palato e no la se stacava più. Ma è un falso problema, carissimi: l’ostia è Gesù che si fa cibo per alimentare il nostro cuore e la nostra anima. Quando ha spezzato il pane Gesù ha detto: prendete e mangiatene tutti. Non ha mica detto: prendete e ciucciatene tutti.

    Toni era rimasto di sasso. Non c’erano santi e madonne, per restare in tema: per Toni Cumerlato la particola non si doveva neanche sfiorare con i denti. Tutta la vita a giocare di palato e adesso arrivava un pretino dalla bassa a dirgli che a Dio non gli interessa niente se tocca o non tocca?

    Ma poi la reazione che c’era stata in chiesa gli aveva dato il colpo di grazia. Risatine. No solo i tosi, anca omeni e done, cramènta!, aveva esclamato arrabbiato.

    Avevano sorriso tutti, a dire il vero. Tutti tranne le Quattro dell’Ave Maria, il coretto e una fila di anzianotti più addormentati che altro.

    Va bene, cosa vuoi che sia. Tu mangiala come vuoi, la particola, aveva detto Olga.

    Al che Toni aveva capitolato. Se anche la badante, che stava sempre a parlargli di quanto nel suo paese fossero attaccati alle tradizioni religiose, la prendeva in allegria, allora era proprio il mondo che girava da un’altra parte.

    Coincidenza o no, il crollo era cominciato quel giorno. Era durato due mesi. L’ultima sera Olga aveva chiamato il prete perché impartisse gli oli santi.

    Don Guido, no el pretìn, aveva detto Toni con l’ultimo filo di voce e guardando smarrito tutt’intorno la stanza.

    Don Guido era a cena quando aveva suonato il cellulare. Il tempo di pulirsi la bocca con il tovagliolo, mandar giù un sorso di rosso, uscire dalla canonica e salire in auto. Un quarto d’ora dopo era su in contrada.

    Son qua carissimo. – aveva sussurrato – Ti ho portato la comunione.

    Toni aveva aperto gli occhi a fatica, guardato il parroco con riconoscenza e soffiato le ultime parole come una liberazione.

    E mi la ciuccio.

    4.

    Alice seguiva il movimento

    Alice seguiva il movimento meccanico della ruspa, che aveva terminato di riempire la fossa e ora stava sagomando il piccolo cumulo di terra che per qualche tempo avrebbe segnalato la tomba di suo padre. I due operai del cimitero posizionarono la piccola targa di marmo con il nome e le corone di fiori. Si muovevano con gesti silenziosi ed essenziali.

    Adriano guardò Alice. A 53 anni era sempre una donna affascinante.

    Per quanto possibile, aveva seguito le tappe della sua vita professionale, di tanto in tanto se ne faceva qualche cenno sulla stampa locale. Gli anni dell’università trascorsi a Bologna e gli ambienti che aveva frequentato in quella città dovevano averle fatto sviluppare una consapevolezza politica ben più di sinistra di quella che aveva mostrato alle superiori, all’acqua di rose. Così dopo

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