Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Spionaggio in Libia
Spionaggio in Libia
Spionaggio in Libia
E-book341 pagine4 ore

Spionaggio in Libia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sole, sabbia, mare e terroristi.

Improvvisamente, tua sorella viene rapita in una delle peggiori aree di guerra mondiali. In quanto brillante agente britannico di intelligence, chiunque penserebbe che tu saresti la persona ideale per andare a salvarla, ma il protocollo non lo prevede. Ecco che rassegni le dimissioni. Ti chiami John Mordred, il paese è la Libia e cosa succederà non è dato sapere. Sai solo che in questo mondo ci sono persone buone e cattive e alleanze votate alla giustizia, non importa quanto improbabili, sono sempre possibili: ciò che non permetteresti mai sarebbe consentire a dei terroristi di frapporsi tra te e la tua famiglia.

LinguaItaliano
EditoreJames Ward
Data di uscita2 apr 2022
ISBN9781667429403
Spionaggio in Libia

Leggi altro di J. J. Ward

Correlato a Spionaggio in Libia

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Spionaggio in Libia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Spionaggio in Libia - J. J. Ward

    Indice

    Capitolo 1 - Mini-trilogia

    Capitolo 2 - Oops, la forza di gravità

    Capitolo 3 - Un altro triste tramonto per Fenella

    Capitolo 4 - Due sorelle alla ricerca del fratellino

    Capitolo 5 - Un piano per tutte le stagioni

    Capitolo 6 - L’agenzia investigativa delle 2 signore

    Capitolo 7 - Verso l'Africa

    Capitolo 8 - Dopo la doppia sfortuna

    Capitolo 9 - Le PFG degli impianti petroliferi

    Capitolo 10 - Una notte veramente dura

    Capitolo 11 – Incontro a Bollywood

    Capitolo 12 – L’eccellente proposta della Horvath

    Capitolo 13 – Escursione in campagna

    Capitolo 14 - Arrivo in città di un criminale

    Capitolo 15 - Mordred sbaglia il piatto nazionale americano

    Capitolo 16 - Non proprio come il Seattle Grace

    Capitolo 17 - L’uccisione dei cani

    Capitolo 18 -  Ricomparsa di Alec Cunningham

    Capitolo 19 - Una sepoltura decente

    Capitolo 20 - Il saluto di Mladenov

    Capitolo 22 - Riunione nello scantinato

    Capitolo 23 – 2 telefonate a tariffa locale

    Capitolo 24 - Dritto nel vespaio

    Capitolo 25 - Domanda di lavoro n. 835

    Capitolo 26 - Epilogo nella migliore delle tradizioni

    Capitolo 1 - Mini-trilogia

    Episodio 1: Oggi. Islington, Londra

    Ormai da un mese, John Mordred stava facendo lo stesso sogno. Cominciava sempre alla Hauptbahnhof di Berlino, la sua stazione ferroviaria principale, mentre mostrava ai passeggeri la fotografia di Mabel chiedendo loro «Ha visto questa signora? (il modo curioso con il quale pronunciava la parola ‘signora’ sapeva tanto di XIX secolo)». «Ha visto la signora di questa foto?» Le poche persone con le quali riusciva a parlare (la maggior parte era sempre inavvicinabile, sembrava sparire in direzione opposta). No. No. No. Sembravano tutti fantasmi in missione. Viaggiò attraverso la Germania, poi Austria, Ungheria, Serbia, villaggio dopo villaggio, Paese dopo Paese, sino a quando arrivò in Turchia. Attraversando la penisola anatolica, la gente era sempre più lenta, più ottusa, più indifferente. Erano persone totalmente concentrate su ciò che dovevano fare, giravano a testa bassa, così incredibilmente distanti dalla stazione di Berlino. Quando arrivò in prossimità della frontiera con la Siria, a nessuno interessava più la sua domanda, tantomeno guardare la fotografia. Era sempre a questo punto che gli piombava addosso la terribile realtà. Aveva preso la direzione sbagliata. Sarebbe dovuto essere in Italia. A causa di ciò, certamente era quasi troppo tardi.

    Si svegliò di soprassalto.

    Si sfregò gli occhi e fece dondolare i piedi giù dal letto. Era martedì, una bella giornata di sole. Mancavano ancora dieci minuti al suono della sveglia, ma non ne avrebbe avuto bisogno perché aveva già addosso un bel carico di adrenalina. Si alzò e si stiracchiò.

    Oggi sarebbe stato diverso. A parte tutto, oggi era il giorno delle dimissioni. Raccolse una busta dalla porta d’ingresso, la buttò sul divano e si recò in bagno dove fece la doccia, si rasò e pettinò i ricci biondi, girandosi un poco per vedersi meglio nello specchio. Si mise a mangiare due Weetabix davanti al televisore guardando Good Morning Britain e la donna con il fez e il braccialetto dorato che da tempo era in gara per ricevere un altro premio letterario, poi si guardò attorno. Per la verità, non c’era nulla che valesse la pena di ricordare. Tutto era anonimo. Era l’ultima cosa che avrebbe fatto lì: mangiare la solita schifosa colazione davanti alla TV leggendo un paio di quotidiani. Avrebbe telefonato alla madre una volta arrivato a distanza di sicurezza dalla Gran Bretagna. Le avrebbe chiesto di sistemare le sue cose, oppure di gettarle. Per la maggior parte non valeva la pena conservarle, nemmeno per motivi sentimentali.

    In ogni caso, aveva solo trentuno anni. Tempo a sufficienza per accumulare altro ciarpame se avesse voluto. Persino un ciarpame migliore. Il migliore.

    Si posizionò a circa un metro dalla finestra in modo da non essere visto e con cautela guardò giù in strada. Sì, eccolo là. Individuo caucasico, ampio soprabito, leggera pancetta. Pare si chiamasse Mitchell. Uno della ventina di uomini e donne che si alternavano per sorvegliare lui o il suo appartamento. Nessuno sembrava gran che. Aveva scoperto il primo circa una quindicina di giorni prima. Sei giorni dopo, conosceva tutti i loro nomi.

    Ecco perché la cosa più sicura sarebbe stata quella di fuggire mentre si trovava al lavoro. Sarebbe stata l’ultima cosa che si sarebbero aspettati, il che non voleva dire che non se l’aspettassero, certo che no. Avevano messo in conto ogni possibilità, anche la più improbabile.

    Mise su il bollitore e bevette due tazze di tè forte, poi indossò il suo abito migliore perché il suo motto era uscire con stile, infilò un paio di scarpe marroni e fu pronto. Era giunta l’ora di dirigersi verso l’ufficio.

    Credeva di poter uscire senza alcun problema, ma proprio mentre stava per aprire la porta fu colto da tanti ricordi spiacevoli. Il suo appartamento non era grande, quindi ciò che poteva essere importante si trovava tutto in salotto. Diede un’ultima occhiata in giro: ricordi lontani di visite occasionali da parte di colleghi e familiari. Nulla di particolarmente interessante, ma ognuno di essi era permeato di un significato speciale per via di ciò che faceva per vivere e pertanto la gente non è che si presentasse a casa sua se non per motivi molto importanti.

    Poi c’era Phyllis. La cara Phyllis. Il suo cuore sobbalzò leggermente e si lasciò andare a un sospiro. Lei era stata qui, più di chiunque altro. In quel momento sarebbe stata al lavoro. Al suo posto di lavoro. Il loro comune posto di lavoro sino a quel momento.

    Probabilmente non l’avrebbe vista. Adesso cercava di evitarlo.

    Un bene o un male? Non lo sapeva.

    Se le cose fossero andate diversamente, avrebbe lottato. Le avrebbe detto che l’amava e cose del genere. Fiori, messaggi, suppliche, autoumiliazioni pubbliche, lavori. Tutto ciò non era più possibile. Non per via di Mabel.

    Si allargò il colletto, uscì sul pianerottolo e chiuse a chiave la porta dietro di sé. Scese le scale e uscì dall'edificio. Salì sul solito autobus per Lambeth Bridge, sedette nel solito sedile e utilizzò il telefono per leggere i soliti quotidiani, circondato dai soliti pendolari vestiti sempre nello stesso modo e con le solite espressioni inacidite sul viso. Probabilmente poteva definirli amici: dopo tutto, erano quattro anni che si incontravano tutti i giorni per andare a lavorare. Questa però era Londra. Qui nessuno diceva ‘piacere di rivederla’ se non ne era assolutamente sicuro. Ciò poteva tranquillamente preludere a una coltellata, o almeno questo poteva essere il pensiero prevalente. Per quanto ne sapesse, costoro potevano anche avere ragione.

    Seduta due posti indietro c’era Cordelia, una giovane afro che faceva finta di leggere un romanzo. Un’altra delle sue care ombre. Quanto gli sarebbero mancati tutti...

    Lui – e lei – scesero alla stessa fermata e si diressero velocemente verso Millbank.[1] Quando lui entrò alla Thames House dal grande portone principale in stile gotico, lei proseguì. Senz’altro lei sarebbe entrata dopo, magari da un ingresso diverso. Nel frattempo Colin, il receptionist, era alle prese con un gruppo di persone che sembravano poliziotti in borghese.

    Come faceva Mordred a sapere che erano poliziotti? In parte per esperienza: in questo lavoro imparavi a riconoscere certe figure e anche perché, quando ci pensava, sapeva perché fossero lì. Erano lì per lui. Stavano per arrestarlo.

    La procedura di ingresso prevedeva un check-in, ma Colin lo conosceva di vista e questo era il suo ultimo giorno. Che si poteva fare? La polizia non gli sarebbe andata dietro, di certo non all’ingresso. No, casomai sarebbe stata l’uscita a porre il problema. 

    Scambiò alcuni saluti con alcuni colleghi mentre si dirigeva verso l’ufficio di Ruby Parker. Ciao John, buongiorno Steph, ‘giorno John, piacere di vederti Guy, ciao John, bel vestito, ciao Suki, grazie, ‘giorno, ‘giorno, ciao, ‘giorno, buongiorno.

    Eccolo arrivato a destinazione. Bussò. Ruby Parker disse ‘avanti’. Entrò.

    Si trattava di una signora afro, probabilmente tra i cinquanta e i sessanta, che quasi certamente indossava una gonna perché, seduta alla scrivania, lui non poteva vedere l'altra metà e non si degnò di alzarsi in piedi per salutarlo. Sembrava felice di vederlo come la gente sull’autobus, ma qui probabilmente anche meno. Stava facendo un ottimo lavoro per nascondere l’antipatia che provava verso di lui.

    «Buongiorno, John», disse.

    «Sono venuto a dirle che ora me ne vado», rispose.

    «Irremovibile?» Lo disse come se fosse una novità.

    «A meno di non avere cambiato idea».

    «Assolutamente no. Ciò che intendo dire è se si renda conto che quasi certamente non può tornare indietro».

    «Ne abbiamo già discusso. Cosa farebbe al posto mio?»

    Lei si esibì in un sorriso a denti stretti. «Ha ragione. Ne abbiamo già discusso. Allora addio, John. Come comprenderà, non le augurerò buona fortuna».

    Lui uscì e si chiuse dietro la porta. Ora si trattava di riuscire a uscire da lì. Prima di tutto, oltrepassare le varie Annabel e i vari Alec... Poi, la polizia. 

    Facile come bere un bicchier d'acqua.

    Episodio 2: Sei settimane prima. Mar Mediterraneo, 200 miglia al largo della costa libica.

    Ore 10 del mattino e c’era già molto movimento a bordo dell’Odyssey. Nella sala OR2 stava per terminare un altro intervento chirurgico con pieno successo e alla ventitreenne Mabel Mordred e al trentenne collega, nonché fidanzato, Jean-Marc Bouchet, fu ordinato di fare una veloce pausa tè nella mensa della nave. In giornate caotiche, come quella di oggi, tutti facevano a turno per andare a mangiare qualcosa e dormire almeno un paio d’ore. Nessuno era ancora andato a dormire – il personale di Médecins Sans Frontières era abituato a lunghi turni – ma era facile procurarsi qualcosa da mangiare ed era importante soprattutto per la concentrazione.

    Panini formaggio e pomodoro più caffè. I due mangiarono e bevvero in silenzio per il primo minuto perché avevano molta fame. Mabel era di carnagione pallida, capelli neri legati in alto in una crocchia, occhi grandi e bocca sottile. Un anno prima, era a metà del corso di Medicina a Cambridge quando in qualche modo - un vuoto mentale? non sapeva ancora dirlo – l’orrore procurato dalla crisi dei rifugiati siriani si palesò in tutta la sua tragedia e fu richiesta la sua presenza sul campo senza indugi: andare così su due piedi, senza domande, senza nemmeno raccogliere le proprie cose. Come in risposta a un comando divino, lasciò perdere tutto, si qualificò in fretta come infermiera e aderì a MSF.

    Per contro, Jean-Marc aveva le carte a posto: laureato presso l’Université de Montpellier con alle spalle un’esperienza chirurgica di quattro anni, una conclamata capacità di subordinare l’importunità morale alla praticità e in possesso del percorso professionale convenzionale. Alto, capelli corti, orecchie piccole e dentatura perfetta, mangiava con piacere sfruttando al massimo il vitto offerto.  

    Nove ore prima, l’Odissey aveva incrociato un gommone con sessanta persone a bordo. Novanta minuti dopo, era stato tratto in salvo da una nave mercantile tedesca con a bordo trecentoquaranta persone da trasbordare. Da quel momento si erano succeduti un parto, sei ingessature di arti, vari interventi chirurgici minori e il trattamento di routine per disidratazione, scabbia, dissenteria, ustioni da combustibile, pelle incrostata di escrementi. La nave era una ex-nave mercantile noleggiata da una società di Bonn, con un equipaggio di croati che tendevano a mantenere una certa distanza dai rifugiati. A bordo vi era anche un piccolo obitorio e tre sale operatorie. L’ospedale era una cabina portatile sul ponte. La maggior parte dei migranti si trovava ora nella stiva. La nave era diretta a Messina.

    Dopo avere mangiato, i due medici parlarono per cinque minuti dei problemi e degli aspetti pratici derivanti dall’ultima operazione di salvataggio, poi si alzarono. Prima di lasciarsi, Jean-Marc presi Mabel per un braccio.

    «Ho pensato di nuovo alla Libia», disse bruscamente. «Ho cambiato idea».

    «Su cosa?» disse Mabel.

    «Tu non vieni. È troppo pericoloso».

    «Beh, aspetta, penso che noi...»

    «Adesso non possiamo parlarne. Volevo solo prepararti. Ne parliamo più tardi».

    Si separarono senza altri commenti e si diressero verso le loro destinazioni. Grazie al cielo, le operazioni erano state tutte portate a termine. C’erano da seguire decorso e incoraggiamento. Lei era troppo arrabbiata per poter pensare a quest’ultimo aspetto. Rendendosene però conto, si sentì in colpa. Era un’infermiera. I suoi problemi personali non dovevano entrarci.

    Però...

    Cosa diavolo aveva voluto dire con ‘tu non vieni’? Chi era lui per decidere cosa dovesse fare lei? Se voleva andare in Libia... l’avrebbe fatto. Non sarebbe stato così?

    No. No, non l’avrebbe fatto perché lui aveva ragione. Era venuto il momento di guardare in faccia la realtà. Una situazione inaspettata, ma doveva affrontarla. Aveva sempre saputo che, prima o poi, ci si sarebbe arrivati.

    Si rendeva conto di cosa avrebbe comportato anche piangendo calde lacrime. Ovviamente, lui doveva tornare con Rima. Rima era sua moglie, madre di suo figlio; lui l’aveva creduta morta, uccisa sotto un bombardamento vicino a Daraa mentre tornava verso la frontiera e ora, invece, si trovava di nuovo in Libia un anno dopo quei fatti.

    Naturalmente lui doveva tornare da lei. Era la cosa giusta da fare. Lui doveva fare la cosa giusta.

    Lei doveva lasciarlo andare.

    Perché Rima non l’aveva chiamato prima? Perché aspettare un anno?

    Non l’aveva fatto perché era stata ferita e pensava che lui fosse morto.

    Il fatto è che nessuno di loro era morto. Erano entrambi vivi e ora avevano tutta la vita assieme davanti a loro! Evviva! Si trattava del più lieto fine possibile.

    Per tutti, tranne che per la povera, patetica Mabel Mordred.

    La settimana successiva le sarebbe spettata una vacanza di quindici giorni. Avevano programmato di andare in Libia assieme, rintracciare Rima e Hassan e poi... E poi cosa?

    Cos’è che avevano programmato di fare? In quella zona di guerra? Più specificamente, cosa aveva lui programmato di fare? «Ciao Rima, so che sei mia moglie e che questo è mio figlio e so che pensavi io fossi stato ucciso, ma vorrei presentarti la nuova donna della mia vita. Ha dieci anni meno di te e si chiama Mabel».

    «Ciao, Rima. Sono Mabel. Mi spiace avere fatto sesso con tuo marito, ma in tutta onestà pensavamo tu fossi morta».

    Allora che si fa? La frase ‘Rima, voglio il divorzio’ era impensabile. O Jean-Marc se ne rendeva conto, oppure no. Se l’avesse fatto, ne avrebbe già parlato. ‘Mabel, è finita’ sarebbe stata l’opzione migliore, brutale, ma moralmente accettabile. Se non l’avesse fatto, probabilmente non valeva la pena tirarla per le lunghe. Non sapeva se classificarlo idiota o meno.

    Era una situazione maledettamente complicata, ma almeno era chiaro cosa dovesse fare subito. Doveva tagliare tutti i ponti con lui.

    Amore: cosa c’entrava in tutto questo?

    Mezzora più tardi, si prese un’oretta di sonno. Era l’unica persona a bordo che potesse contare sul lusso di avere una cabina singola: per ‘lusso’ si intendeva un letto e un po’ di pavimento dove mettere i piedi e solo perché lei era così giovane che tutti erano dispiaciuti per lei, un medico dal luminoso futuro troncato su due piedi per diventare velocemente un’infermiera. Si arrampicò nella cuccetta e si mise a piangere.

    Dopo un’ora, sentì bussare alla porta. Aveva pianto tutte le sue lacrime e si era preparata un discorso. Poteva farcela.

    «Non è come pensi», disse Jean-Marc quando lei aprì la porta.

    Si sentì presa in giro. Sempre le solite frasi trite e ritrite.

    «È finita», disse, rispondendo a un cliché con un altro cliché.

    «Rima si è risposata».

    «Cosa??»

    «Pensava che fossi morto. Ha incontrato un altro uomo e si sono sposati. Ovviamente deve ‘divorziare’ da me, ma noi non eravamo sposati secondo la legge francese, per cui la questione non sarebbe problematica. Va da sé che il figlio è sicuramente il mio. Vuole che l’aiuti a far arrivare la sua nuova famiglia in Europa. È il minimo che possa fare».

    «Ma perché non me l’hai detto prima?»

    «Qui non abbiamo mai la possibilità di parlarne. Insomma, non l’abbiamo fatto. Posso entrare?»

    Lei si fece da parte. Lui si mise a sedere sul letto, la attirò verso di sé e la baciò.

    «Cosa sta facendo in Libia?» chiese Mabel, staccandosi. Non era il caso di essere sedotta. Doveva pensare. Potevano anche essere tutte cazzate.

    «Cosa vuoi dire?», le chiese.

    «Voglio dire che tutti sanno che quasi tutti i siriani ora stanno dirigendosi a nord. L’Egitto è diventato inospitale e la Libia è un manicomio. Tutti quelli che da mesi abbiamo raccolto nel Mediterraneo erano eritrei, libici o sub-sahariani. Perché Rima deve rischiare di portare il figlio nel Maghreb?»

    «Dovresti chiederlo a suo marito. Loro sono siriani del sud, proprio appena sopra il confine giordano. Probabilmente era più facile prendere quella direzione anziché passare dalla Turchia. Forse volevano andare a sud e hanno deciso di andare avanti. Dopo tutto, l’accampamento di Zaatari è pieno e quello di Mrajeeb Al Fhood si è procurato una buona fama». Lo disse scrollando le spalle. «Comunque è un discorso puramente accademico. Ora sono qui. Devo portarli fuori».

    «Pensavo che l’avremmo fatto assieme».

    «Non ero in me quando l’ho detto. Non voglio che tu corra pericoli. È già pericoloso abbastanza per me. Non serve la tua presenza»

    «Perché non possono imbarcarsi da qualche parte? Non potremmo incontrarli dopo?»

    Lui sorrise. «Non facciamo servizio trasporti. Anche se lo facessimo, il punto è il denaro. Non ne hanno».

    «Insomma, cosa intenderesti fare, esattamente?»

    «Prima dovrò andare a prendere Rima e Hassan dicendo che siamo sposati e che lui è mio figlio. Suo marito dovrà arrivare in un secondo momento. Accetta questo dato di fatto».

    Lei fece un profondo sospiro. «Tutto ciò dove porterà noi?»

    «Ti amo. Lo sai. Senti, non so proprio come dirti che mi spiace. Se solo avessi avuto il benché minimo sospetto che Rima potesse essere viva, non mi sarei mai messo con te o nessun'altra. Per il bene di entrambi. Per quanto riguarda ‘noi’, hai tutto il diritto di ripensarci, davvero. Non devi far altro che dirmelo e me ne andrò. Dopo questa missione, non mi vedrai mai più. Sarà terribile, per me, ma capirò».

    «Non lo voglio».

    «Ti amo, Mabel. Concedimi solo un paio di settimane e sistemerò tutto. Te lo prometto».

    «Rima sa di noi?»

    «È stata la prima cosa che le ho detto. Una confessione. Lei è stata contenta. Questa è la ragione principale per la quale avevo pensato che sarebbe stato bello che tu mi accompagnassi in Libia. Vuole conoscerti. Ho lasciato che il suo entusiasmo mi contagiasse, temo, ma ora vedo le cose sotto un'altra luce e mi rendo conto che è una cattiva idea. Lei dice che i media stanno esagerando i pericoli, ma non è così. È solo che lei è abituata ai conflitti».

    «Spero di poterla conoscere. Non necessariamente in Libia».

    «Possiamo chiamarla via Skype quando vuoi. Probabilmente ora è un po’ tardi, ma facciamo domani».

    «Parla inglese?»

    «Un poco. Tu conosci un poco l’arabo. Assieme, potreste superare la barriera linguistica».

    «In quale parte della Libia vive?»

    «Tripoli».

    Mabel annuì. In Libia, ovunque è brutto, ma poteva essere peggio. Come Sirte, dove si trovava l’ISIS. Oppure Bengasi, dove l’LNA[2] comandato dal Generale Haftar ospitava il Consiglio rivoluzionario della Shura.

    Il discorso finì con queste parole. Magicamente stava tornando tutto al suo posto. All’aperto il vento fischiava forte. Il brontolio del motore e il suono di voci felici che arrivavano da qualche parte lungo il corridoio non fecero che rassicurarla. Non c’era più altro da dire, non ancora. Lei si distese sul letto e lui di fianco a lei. Dopo qualche minuto, entrambi si addormentarono. Era stata una giornata sfiancante.

    Furono svegliati dal suono della sirena in modalità emergenza. Fuori dalla cabina, si sentiva che la gente stava correndo. La porta fu aperta di colpo e si presentò Bjorn, un quarantenne svedese dai capelli neri, occhiali rotondi e barbetta. Il suo compito era di svegliare chi stesse dormendo.

    «Sveglia, piccioncini!», abbaiò.

    Difficile a dirsi se nel tono della voce ci fosse disapprovazione. Non ve n’era motivo. Tutti a bordo sapevano di loro. Entrambi si alzarono di scatto come se fossero stati sorpresi a fare qualcosa di male, ma era solo perché erano mezzi addormentati. Si avviarono sul ponte superiore assieme ai loro colleghi.

    «Non possiamo proprio prendere a bordo altri passeggeri», Mabel sentì dire da Jean-Marc. «Siamo al completo».

    «Il capitano ha autoaffondato il suo battello», disse Bjorn. Non v’era bisogno di dire altro. In un caso come quello, fatta eccezione per le circostanze più estreme, ‘al completo’ o meno, la MSF era tenuta a prestare soccorso.

    Capitava molto spesso. Il capitano di un natante particolarmente scassato e pieno di migranti aveva aperto una breccia nello scafo, rendendo così possibile una missione di salvataggio. Un mezzo inaffidabile e sovraffollato poteva fare abbrivio in avanti solo fino a quando il carico fosse rimasto distribuito in modo omogeneo. Una volta che a bordo si fossero accorti che stavano affondando, si sarebbe diffuso il panico. Quello era il motivo per il quale parecchi di loro sarebbero affogati.

    Quando Mabel e Jean-Marc salirono sul ponte, era buio. Potevano distinguere i contorni del natante a dritta che girava in tondo in cerchi sempre più piccoli come un insetto con l’addome ferito. La gente a bordo gridava e parecchi di loro erano già finiti in acqua.

    La Odyssey si avvicinò e furono gettati funi e salvagenti. Il natante in difficoltà era uno sloop da pesca in legno ormai sott’acqua. Al centro del ponte, la gente si arrampicava con difficoltà da un’uscita dai piani inferiori. Nessuno aiutava l’altro: al contrario sembravano uno sull’altro, oppure c’era chi tirava giù qualcuno o spingeva indietro nel tentativo di uscire prima che la barca affondasse e li trascinasse a fondo con sé. Da qual poco che si poteva vedere attraverso l’oscurità, sembravano tutti impazziti.

    «Prendi questo», Mabel sentì dire da qualcuno vicino a lei. Si ritrovò con un telefono in mano. Chiunque fosse stato afferrò una cima e saltò giù. Un secondo dopo atterrò sul ponte del natante afferrando braccia e tirandole con forza dalla stiva verso la salvezza. Era una battaglia persa per la maggior parte di coloro che erano là sotto: probabilmente erano già affogati.

    Guardò il telefono e poi alla persona eroica e improvvisamente si accorse che era Jean-Marc. Le si rivoltò lo stomaco e gridò il suo nome come se ciò potesse essere d’aiuto.

    Ripensandoci successivamente, pensò di avere avuto una premonizione. In quel preciso momento, avvenne qualcosa di incredibile. Il ponte della barca sembrò spaccarsi per il lungo. Tutti a bordo traballarono in ogni direzione e i più finirono in acqua. La barca si inabissò così velocemente che sembrava essere stata tirata giù da qualcuno. Jean-Marc e tutti quelli vicino a lui semplicemente scomparvero sotto la superficie.

    Nel frattempo, l’equipaggio croato cercava di farsi strada tra i sanitari e i parapetti. Avevano visto Jean-Marc e non volevano che si ripetesse la stessa cosa. Furono lanciate funi, giubbotti di salvataggio, salvagenti e furono contenti di aiutare. Il personale no.

    I primi migranti stavano già salendo a bordo. Bjorn afferrò Mabel per le spalle e la costrinse a guardarlo.

    «Hai un lavoro da fare», le disse con fermezza. «OR2. Vai».

    Lei lo guardò come se fosse matto.

    «Adesso!» gridò.

    Certamente, ma lui non si rendeva conto che lei non sarebbe stata di utilità sino a quando... che lei doveva...?

    Reagì e si mosse nella direzione richiesta.

    Era sotto choc. Riconobbe i sintomi. In quelle condizioni non sarebbe stata d’aiuto ad alcuno e cinque minuti più tardi anche Bjorn giunse alla medesima conclusione. La trovò che stava indossando un paio di guanti chirurgici e le disse di andare in mensa. A uno dei croati fu detto di tenerla d’occhio. Era un uomo alto, muscoloso, in tuta blu che la fece sedere a uno dei tavoli, mettendosi di fronte a lei e incrociò le braccia. Restava in silenzio. Una tazza di tè forte improvvisamente apparve dal nulla.

    Trenta minuti dopo arrivò Celine con indosso camice chirurgico verde e guanti. Celine Dufour: avevano in precedenza passato un’ora a parlare a Messina mentre erano in attesa del via libera all’Odyssey. Sembrava commossa. Si sedette vicino a Mabel e le prese la mano. Si asciugò gli occhi con la manica libera.

    «Ho delle notizie terribili», disse.

    A quel punto Mabel perse la cognizione del tempo. La portarono sul ponte per assistere al recupero del corpo di Jean-Marc prima del suo trasferimento all’obitorio. Si era trattato di una strage: parecchie persone erano morte e la notizia probabilmente sarebbe apparsa sulle prime pagine di tutti i giornali del giorno dopo.

    Fu solo quando rientrò a Messina che, finalmente sola per la prima volta, si rese conto di avere con sé il telefono di lui. Attese il giorno dopo, in viaggio in bus verso Roma, per accenderlo. Sedeva accanto a un vecchio con berretto.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1