Una notte buia di settembre
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Info su questo ebook
Un grande giallo
Un caso complicato per il commissario Festa
Il chitarrista Angelo Donati – membro di una band che è stata famosa per circa un decennio, ma ora sul viale del tramonto – viene trovato morto nel suo appartamento. L’uomo pare essere stato strangolato. Il commissario Festa, incaricato delle indagini, è convinto che la vittima conoscesse il suo assassino: la serratura dell’appartamento infatti non è stata forzata.
Le indagini si muovono su due filoni, strettamente connessi: quello legato al mondo della droga e quello relativo all’ambiente musicale. La dipendenza dalla cocaina aveva infatti reso il musicista inaffidabile e inviso agli altri membri della band e anche alla sua stessa fidanzata.
Mentre scava nei rapporti di Donati, Festa scopre che la vicenda è molto più sfaccettata e intricata di quanto pensasse, e che la musica e la droga potrebbero non essere le uniche due chiavi per risolverla…
Un giallo appassionante, coinvolgente e spiazzante
Sono sempre i peggiori ad andarsene…
Hanno scritto dei suoi libri:
«Se nella vita non bisogna fidarsi delle apparenze, questo romanzo giallo conferma in toto questa tesi.»
«Chiuso il libro, qualcosa continua a scavarti dentro, come un tarlo, lasciandoti un retrogusto dolce e amaro.»
«Questo è un thriller che morde e lascia il segno.»
«Magistrale. Scritto con il cuore, con un registro stilistico impeccabile, non lascia indifferenti ed entra sotto la pelle.»
Valerio Marra
È nato nel 1985. Lavora e vive a Roma ed è laureato in Scienze per l’investigazione e la sicurezza presso l’Università degli studi di Perugia. È autore del thriller Le scottanti verità e dei romanzi L’eco del peccato e Anima bianca, dedicati alle indagini del commissario Festa. La Newton Compton ha pubblicato La donna del lago e Una notte buia di settembre.
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Anteprima del libro
Una notte buia di settembre - Valerio Marra
Prologo
La pioggia è densa.
Ha una consistenza viscosa.
Scorre nelle grondaie e sull’asfalto.
Lo sguardo è fermo, puntato verso il ragazzo.
Le parole rimbombano. Un sibilo acuto da un timpano all’altro.
Un lampo frantuma il cielo e una luce violacea si diffonde nella stanza. Un brivido caldo risale dentro il corpo, come un fiume controcorrente.
Poi il buio li avvolge di nuovo.
Una frazione di secondo, un bisbiglio e l’uomo si avventa su di lui.
Stringe forte e un solco compare sul collo. I rumori sono attutiti dalla pioggia.
Ancora un lampo e le ombre si allargano nella stanza.
Serra le labbra e continua a stringere. Ancora più forte.
Lascia la presa e resta a guardarlo. Tutto torna buio.
E non rimane nient’altro.
Solo la pioggia.
1
Frascati, martedì 12 settembre
Alina riempì il bicchiere d’acqua fino all’orlo e prese due caramelle. Appoggiò tutto sul vassoio e si avviò in camera da letto, fermandosi davanti alla finestra nel corridoio: il giardino del convento di San Bonaventura sembrava avvolto da una cappa tremolante, e le gocce d’acqua sospese sui rami brillavano come pietre preziose. Un raggio di sole si era fatto spazio tra le nuvole, proiettando su Frascati un tenue arcobaleno. Profumo di violetta e rosa selvatica.
«Alina… Alina». La voce tremula di Emma la sorprese quando si trovava ancora nel corridoio.
Alina affrettò il passo ed entrò nella camera. «Signora, sono qui».
Emma era seduta sulla sedia a rotelle. Lo sguardo assente fisso sul televisore. «Devo andare al bagno».
Alina appoggiò il vassoio sul comodino. «Signora, ci è appena andata».
Emma mosse solo gli occhi acquosi senza rispondere. Alina la guardò con tenerezza: erano quattro anni che si prendeva cura della signora Emma Di Carlo e le sembrava che peggiorasse ogni giorno. I grandi occhi verdi avevano perso l’intensità di un tempo e le labbra, ancora piene, sorridevano sempre meno. Il naso minuscolo e i capelli canuti erano gli stessi. Nell’insieme, doveva ammettere, la signora dimostrava dieci anni in meno delle sue ottantaquattro primavere. Tuttavia, la memoria e la capacità di ragionamento avevano subito un inesorabile declino e, gradualmente, la signora Emma aveva perso buona parte della mobilità. Alina si dedicava a lei con costanza e, grazie al diploma da infermiera conseguito quando si trovava ancora in Polonia, non le faceva mai mancare le cure mediche.
«Sì, signora. Accompagno lei subito», disse dopo qualche istante. Spinse la sedia a rotelle fino al bagno e l’aiutò a muoversi tra le pericolose trappole di acciaio e ceramica.
Contro il morbo di Alzheimer, lo sapeva, si poteva fare ben poco. Per questo cercava di non farle mancare nulla.
Lei.
Non come i due figli maschi della Di Carlo che, nell’unico giorno in cui Alina era di riposo settimanale, litigavano tra loro per chi dovesse andare a prendersi cura della madre. Lo stipendio, comunque, lo pagavano sempre. E questo bastava.
«Ha smesso di piovere?». La signora Emma stava fissando la finestra.
«Sì. Guardi, c’è anche sole». Alina la sollevò nuovamente per rimetterla sulla carrozzina. «Ci andiamo a fare una passeggiata?».
Emma sorrise.
Alina tornò in camera da letto. «Prima deve prendere medicina».
Emma aprì la bocca e buttò giù a fatica la pillola, aiutandosi con il bicchiere d’acqua. Alina attese qualche istante e le porse una caramella. La donna non fece la minima resistenza.
«È la sua preferita», le disse sottovoce spostando la carrozzina lungo il corridoio. Poi raccolse un soprabito e aiutò la signora Emma a indossarlo. Recuperò dall’appendiabiti il giubbino di pelle nero e se lo infilò.
«Ehi, ragazza», la richiamò l’anziana, «e il dolce… il dolce non me lo dà?».
Alina le porse sorridendo un’altra caramella. Recuperò le chiavi e uscirono dall’appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Chiamò l’ascensore. Il pianerottolo profumava di limone e menta. Il piccolo Ficus cresceva rigoglioso e donava un po’ di colore alle mura grigie. Un’anomalia, però, catturò la sua attenzione: la porta alla sua destra sembrava accostata e, spinta dal vento, cigolava sui cardini. Si trattava dell’appartamento dove viveva Angelo Donati, il dirimpettaio, che spesso vedeva uscire con la custodia della chitarra sulle spalle e l’amplificatore in mano.
«Angelo…», chiamò Alina avanzando verso la porta aperta, «sei in casa?».
Nessuna risposta.
Si avvicinò ancora. «Angelo! La porta è aperta…».
Silenzio.
Alina lanciò uno sguardo alla signora Emma e controllò che fosse ancora seduta sulla sedia a rotelle. Quindi aprì leggermente la porta. Uno stridio, come un lamento.
«C’è qualcuno?».
Buio.
Le tapparelle abbassate. L’unico bagliore proveniva da un televisore acceso nel lato opposto della stanza. Lezzo di chiuso e abiti sporchi. Alina strinse gli occhi e, in controluce, le parve di vedere un’ombra riversa a terra sulla moquette. «Angelo…».
Ancora silenzio.
Cercò l’interruttore sulla parete. Accese la luce e avanzò fino al corpo. Si piegò in avanti e scosse il ragazzo con una mano.
«Angelo… Angelo…».
Era freddo. Rigido come un burattino. Poi, i polpastrelli tastarono un liquido appiccicoso.
Sangue.
Alina avvertì una morsa alla gola, un cappio invisibile che le stringeva il collo. Avrebbe voluto urlare, ma dalla sua bocca uscì solo un gorgoglio strozzato. Sollevò le mani e sgranò gli occhi. Quindi si alzò di scatto e si lanciò fuori dall’appartamento.
Poi, finalmente, riuscì a gridare.
2
La Renault Clio procedeva ad alta velocità su via Sciadonna.
Dopo un sorpasso azzardato, svoltò con una sterzata nei parcheggi riservati al commissariato, arrestandosi di traverso e con uno stridio acuto di gomme. L’agente scelto Michele Russo aprì la portiera e scese dalla macchina. Controllò l’ora e si sistemò i Ray-Ban sul naso.
Era in ritardo. E questo non accadeva mai.
Tirò oltre, guardando verso l’alto: dopo l’abbondante pioggia del mattino, il sole del primo pomeriggio era tornato a splendere nel cielo, insinuandosi tra i rami degli alberi e i palazzi.
Russo entrò nel commissariato e andò direttamente alla sua stanza. Si accomodò sulla sedia girevole e, prima di accendere il computer, diede un’occhiata al suo riflesso sul monitor: la barba incolta era più lunga del solito e i radi capelli erano arruffati dal vento e lasciavano intravedere una profonda stempiatura. Con una mano spostò una ciocca davanti alla fronte, imprecando contro quel gene ereditato dalla sua famiglia che rendeva tutti gli uomini calvi non appena passati i trent’anni. Lui, in realtà, aveva superato da sette mesi i trentuno e, col giusto taglio, riusciva ancora a camuffare l’incipiente calvizie. Tuttavia, a renderlo così nervoso non erano soltanto la chioma spelacchiata, l’insolito ritardo col quale era arrivato al lavoro e il fatto che quello fosse il primo giorno di servizio dopo tre settimane di ferie. Il suo cattivo umore era causato soprattutto dalla pesante discussione che aveva avuto con Camilla, la sua fidanzata, con la quale conviveva ormai da quasi tre anni. In realtà, condividevano l’appartamento anche con Daniele, il figlio diciottenne che Camilla aveva avuto da una precedente relazione, e Cesare, l’esuberante incrocio tra un boxer e un rottweiler, che pesava appena quaranta chili. Russo ripensò al diverbio avvenuto in mattinata e, senza sfilarsi gli occhiali, accese il computer. Forse stava esagerando e la sua gelosia era ingiustificata: d’altronde era anche normale che Camilla, per il bene del figlio, avesse riallacciato i rapporti col precedente compagno. E lui non aveva nulla da temere. Qualcosa, però, lo rendeva inquieto, tanto da fargli sentire a malapena il passo ovattato che proveniva alle sue spalle.
«Bentornato!». Il commissario Festa comparve sulla porta.
Russo si voltò e osservò il superiore: la mascella volitiva era come sempre sbarbata alla perfezione e gli occhi a mandorla sembravano più allungati del solito. Un paio di pantaloni neri, abbinati a una camicia grigia, lo rendevano impeccabile. Notò, con un pizzico d’invidia, che i capelli corvini, pettinati leggermente all’indietro, erano ancora folti. «Buongiorno, capo».
Festa entrò nella stanza picchiettando l’orologio da polso con l’indice. Le labbra erano curvate in un sorrisetto. «Sei arrivato tardi, oggi».
«Ho avuto un problema con la macchina e…».
«Lo credo bene: è il minimo se continuerai a guidare in quel modo», sogghignò il commissario interrompendolo. Quindi lo guardò con più attenzione. «Sono nuovi quegli occhiali?».
Russo se li sfilò, passandoseli tra le dita. «Sì, li ho comprati questa estate. Dicono che mi diano un’aria importante. Da duro».
«No, Miche’, è impossibile. Ti si vede ancora la faccia!».
L’agente aggrottò le sopracciglia senza rispondere.
«Hai trascorso bene le vacanze?», riprese Festa, avvicinandosi alla finestra.
«Sì, capo. Siamo stati una settimana a Casoria dai miei genitori e le altre due in un villaggio turistico a Sibari».
Il commissario non rispose, aprì la finestra, estrasse una Marlboro dal pacchetto e se la mise tra le labbra.
Russo lo guardò di sottecchi. «E tu? Sei stato in ferie?»
«No. Ma qui a Frascati è stata un’estate tranquilla».
«Capo, secondo me dovresti riposare ogni tanto. Alla tua età fa male lavorare troppo…».
Festa non mutò di una virgola la sua espressione e si accese la sigaretta. «Sto benissimo e, come dicevo, è stata un’estate molto tranquilla».
«Quindi non ci sono pratiche?»
«Nulla», confermò Festa, tirando due lunghe boccate.
Russo lo fissò confuso. Possibile che lo scrupoloso commissario Festa non avesse trovato nemmeno una piccola indagine da svolgere? Cosa era accaduto in quelle settimane per indurlo a privarsi delle enormi qualità del suo collaboratore prediletto? E se, invece, il superiore avesse affidato tutto il lavoro a quel pivello ruffiano che da un anno e mezzo avevano assegnato al commissariato?
«L’agente Conti dov’è?», chiese a quel punto.
Festa soffiò una nuvola di fumo dall’angolo della bocca. «Fuori».
Russo sgranò gli occhi. Qualche pratica, dunque, c’era, e il superiore l’aveva tenuto all’oscuro, per affidarla a quello scrupoloso collega. Doveva scoprire di cosa si trattasse e non poteva perdere altro tempo. Così, si alzò dalla sedia, pronto a torchiare il superiore con alcune domande a trabocchetto. Proprio in quel momento, però, Festa spense la sigaretta ancora a metà sul davanzale e gettò fuori il mozzicone. «Miche’, torno nel mio ufficio. Mi raccomando», lo liquidò, uscendo.
Russo rimase per un attimo a bocca aperta. Chella criatura di Conti stava giocando sporco e lui doveva intervenire prima che fosse troppo tardi. Fortunatamente, sapeva come rimettere a posto le cose. Accese il computer di Conti e iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. Avrebbe rimesso tutto a posto.
In un modo o nell’altro.
«Bella la vita, Spina!». Russo indirizzò lo sguardo verso la porta. Francesco Conti comparve sulla soglia con la solita espressione dimessa. Ventisette anni, capelli castani e i tratti del viso delicati e anonimi.
«Buongiorno!». Conti andò diretto alla sua postazione. L’abbinamento dei pantaloni a costine blu con la camicia bianca e le scarpe lucide gli conferiva, nell’insieme, un aspetto più antiquato del solito.
«Stai bene, Miche’?», domandò Conti, accomodandosi sulla sedia.
«Benissimo», replicò Russo, scrutandolo con attenzione. «Certo che vestito accussì m’arricordi Pappagone».
«Pappa che?», fece l’altro perplesso, accendendo il computer.
«Pappagone è un personaggio immaginario inventato da De Filippo», spiegò Russo. «Ma lasciamo perdere, a te mancano proprio le basi».
Conti scrollò le spalle.
Russo si alzò. «Insomma, Festa non ti lascia un attimo tranquillo, eh?».
Il giovane agente non rispose e continuò a fissare il monitor.
«Uno il martedì non fa nemmeno in tempo ad arrivare in ufficio, che subito il commissario ti rifila qualche indagine, non è così?», continuò Russo.
«Be’, penso sia normale. Si tratta di lavoro». Conti fece un’espressione perplessa. «Miche’, ma che succede al computer?».
Russo allargò le braccia con un’aria innocente. «Che intendi?»
«Guarda», sbottò il giovane, indicando il monitor, «è tutto rovesciato e sembra scritto in cirillico».
«Uhm, è vero… Forse hai preso qualche virus».
«Virus? Ma io… sono sempre attento e…».
Russo fece un sorrisino malizioso. «Spina, chissà su quali siti sei andato».
Conti scosse la testa. «No, no. È impossibile e…». Quindi si voltò, fissando il collega dritto negli occhi. «Non è che, per caso, tu…».
«Io? No, ma come ti vengono in mente certe cose?», si oppose Russo. Non poteva esserne certo, ma temeva che una lieve dilatazione delle narici potesse aver tradito le sue emozioni.
«Dai, Miche’!». Il tono di Conti, adesso, era supplichevole. «Devo fare delle ricerche. Il computer mi serve».
«Se vuoi, puoi usare il mio», propose, «oppure, puoi dire a me cosa cerchi e ci penserò io. Tanto siamo colleghi, il capo non si arrabbierà di certo».
Conti gonfiò il petto. Sembrava sul punto di replicare, quando si fermò di colpo.
Il telefono dell’ufficio aveva iniziato a squillare.
3
Il sostituto commissario Giulio Moretti si era allontanato dall’ufficio alle due del pomeriggio ed era andato a pranzare al bar tavola calda, proprio sotto al commissariato di via Sciadonna. Aveva ordinato un’insalata di riso ed era rientrato in tutta fretta al lavoro. Prima di tornare a firmare e ordinare moduli aveva controllato l’ora: aveva fatto un sorriso, accorgendosi solo in quel momento che il suo turno era già terminato da un pezzo. A Moretti non dispiaceva trattenersi al lavoro oltre l’orario stabilito, anche perché, ormai, non c’era più nessuno ad attenderlo a casa. Da quando quella maledetta malattia si era portata via sua moglie, infatti, trovava ogni scusa per non rimanere solo, e il lavoro in questo lo aiutava. In più, Valentina, la sua unica figlia, si era sposata da oltre un anno ed era piena di impegni e nuove responsabilità, quindi riusciva a vederla sempre meno. D’altronde era giusto così, e lui lo sapeva. A sessant’anni suonati, sebbene molte cose ancora gli sfuggissero, conosceva bene la noiosa ciclicità della vita.
Uscì dal bagno e andò verso la sua stanza, passando proprio davanti a quella di Barbara Giorgi.
Una strana sensazione gli si piazzò al centro del petto. Moretti provò a fare finta di nulla e si avvicinò alla porta, colto da una voglia improvvisa di salutare la collega. Sfiorò con una mano la maniglia e percepì il profumo agrumato di Barbara. Ancora quella sensazione a comprimergli il petto. Moretti prese un respiro, poi si bloccò. La mano ancora ferma sulla maniglia. Barbara stava sicuramente completando le ultime pratiche prima della fine del turno e non voleva sembrare assillante. Moretti decise di rimandare il saluto e passò oltre. Percorse il corridoio, dove incrociò Carlo Sciortino. O Bud, come l’avevano rinominato. Alto e robusto, infatti, il collega ricordava incredibilmente Bud Spencer nel periodo d’oro: cinquant’anni, altezza sopra il metro e novanta, spalle larghe, capelli arruffati e barba sempre incolta. Era stato da poco assegnato al commissariato di via Sciadonna e, per un motivo a lui ignoto, era stato impiegato nella centrale operativa.
«Oh, Giulio», lo salutò. «Ammazza, sempre in forma, eh?».
Moretti si passò una mano sulla camicia sgualcita. «Dici? Mi sento una chiavica… è una settimana che non vado a correre».
Bud gli diede una pacca sulla schiena, così forte da far risuonare la cassa toracica. «Ma falla finita! A proposito, ma che è ’sta storia della pensione?»
«Intendi la nuova legge?».
Bud annuì e si strofinò il naso col dorso della mano. La cartilagine fece uno scricchiolio innaturale.
«In poche parole, se faccio richiesta posso rimanere a lavorare un altro paio di anni», spiegò Giulio.
«E perché?». Bud si grattò la barba. «Io me ne andrei il prima possibile da ’sta gabbia de matti!».
Giulio sbottò a ridere.
Bud gli diede un’altra pacca, questa volta più piano. «Senti, me vado a pija un caffè alla macchinetta. Ce pensi te a risponne n’attimo ar telefono?».
Moretti annuì.
«Che faccio? Te porto quarcosa?»
«No, ti ringrazio». Moretti gli indirizzò un sorriso e si sedette davanti alla radio. Restò immobile, finché Bud non si fu allontanato. Si infilò la camicia nei pantaloni e si aggiustò il colletto. Poi, prese a guardare davanti a lui: i piccoli monitor trasmettevano le immagini riprese in tempo reale dalle telecamere di videosorveglianza disposte lungo il perimetro del commissariato. Un piccolo televisore, invece, mandava in onda un finto processo, con degli attori a inscenare le controversie e un avvocato a fare da giudice. Abbassò il volume e si stirò la schiena sulla sedia.
Il telefono squillò, cogliendolo di sorpresa.
Il commissario Festa se ne stava seduto dietro la scrivania. Si era appena acceso una sigaretta, quando Moretti bussò alla porta.
«Scusi, commissario».
Festa sollevò appena lo sguardo e gli fece cenno di entrare.
«Una telefonata arrivata al 112», disse Moretti, muovendo un passo in avanti. Si sfiorò con una mano gli occhiali da vista e strabuzzò gli occhietti celesti. «Un uomo, morto. È stato trovato nel suo appartamento al secondo piano, in via Luciano Manara, al civico 8».
Il commissario tirò una lunga boccata. «Di’ a Conti e Russo che verranno insieme a me a fare un sopralluogo sul posto».
Moretti annuì e tornò sui suoi passi.
«Ah, Giulio», lo richiamò Festa, «se non è un problema, avrei bisogno che ti trattenessi qualche ora in più al lavoro».
«Va bene». Moretti uscì dalla stanza dopo un vago saluto.
Festa spense la sigaretta nel posacenere e si alzò dalla sedia, avvicinandosi alla finestra. Le macchine si muovevano tra le strade e le persone erano tornate ad affollare la posta, il bar e il supermercato. Settembre, dunque, era tornato. Settembre, con le promesse di inizio estate non sempre mantenute.
Settembre, che profuma ancora di caldo, ma minaccia il freddo e l’inizio di un nuovo lunghissimo inverno.
Settembre, che significa solitudine. Se respiri forte, però, puoi ancora sentire l’odore delle storie d’amore, dei tavolini all’aperto, della salsedine e dei concerti in piazza.
Era tornato settembre.
Portando con sé la morte.
4
L’agente Michele Russo, seduto sul sedile posteriore, piantò le mani sui poggiatesta e si sporse in avanti. «Capo, io proprio nun me faccio capace ’e ’stu fatto».
Il commissario Festa sembrò fissare una serie di graffiti sul muro giallo scrostato di via Sciadonna. Quindi si voltò appena verso i sedili posteriori, senza rispondere.
«Mi devi spiegare perché deve essere sempre Spina a guidare».
«Perché tengo alla nostra vita».
Russo fece un’espressione offesa.
«Miche’, dobbiamo rispettare i gradi, o no?», domandò in un secondo momento. «Tu sei un agente scelto. Quindi è giusto che guidi lui, che è solo un agente».
«Sì, vabbuò», assentì con un mezzo sorriso. «Però, accussì, arriviamo domani. A piedi facevamo chiù ’ambress».
«Michele, non vedo perché dovrei correre». Conti non distolse lo sguardo dalla strada. «Si tratta appena di un chilometro… e per il morto c’è poco da fare».
Russo assunse un’aria seria. «Spina, è per le indagini. Quelli, i paramedici e i curiosi, fanno confusione e inquinano la scena del crimine».
Festa scosse la testa e tornò a guardare la strada. «Dai, Miche’,