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Non entrate in quella casa
Non entrate in quella casa
Non entrate in quella casa
E-book383 pagine5 ore

Non entrate in quella casa

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Info su questo ebook

Bestseller in Germania
400.000 copie vendute

Una notte d’autunno un uomo finisce in coma dopo aver subito un brutale pestaggio. Si tratta del padre della poliziotta Frida Paulsen, che frequenta l’accademia lontano dal suo paese natale. Allarmata dalle condizioni di suo padre, nonostantei loro rapporti freddi, Frida fa ritorno nell’Elbmarsch. Rimettere piede in quei luoghi significa riaprire vecchie ferite mai cicatrizzate, le stesse che il commissario di polizia criminale Bjarne Haverkorn – che indaga sul caso di suo padre – condivide. Sono trascorsi quasi vent’anni dal loro ultimo incontro, quando la migliore amica di Frida, Marit, venne assassinata in una stalla. Il colpevole non fu mai trovato e Haverkorn non si è mai perdonato per non aver saputo fare giustizia. È così che i due cominciano a collaborare, raccogliendo gli indizi sulla misteriosa aggressione al padre di Frida, fino a scoperchiare orrori del passato e riportare alla luce verità terribili. Perché ci sono segreti in grado di sconvolgere ogni cosa, persino dopo tanti anni.

Ci sono rimorsi di cui non ti libererai mai

«Applausi per Romy Fölck e per questo promettente inizio di serie.»

«È un libro davvero fantastico che può toglierti il sonno. Sono sicuro che il nome di Romy Fölck sarà presto nelle classifiche dei bestseller.»

Romy Fölck
è nata a Meißen, in Germania, nel 1974. Ha studiato legge e ha lavorato per dieci anni per una grande azienda di Lipsia, fino a che non ha deciso di vivere il suo sogno di scrivere a tempo pieno. Oggi vive con il marito nell’Elbmarsch vicino ad Amburgo, dove trova ispirazione per le ambientazioni dei suoi romanzi. Non entrate in quella casa è la prima indagine dei due investigatori Frida Paulsen e Bjarne Haverkorn.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2019
ISBN9788822729255
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    Anteprima del libro

    Non entrate in quella casa - Romy Fölck

    1

    Lo spogliatoio era vuoto. Frida chiuse la porta dietro di sé e sfinita si sbottonò l’uniforme. Aveva lavorato diversi anni nel servizio di pattuglia, prima di cominciare l’Accademia di polizia di Amburgo nel 2015. Ma quelle settimane di addestramento al commissariato 11 la stavano sfinendo sempre più. Sankt Georg era una zona difficile. Per ogni singolo incarico doveva concentrarsi al massimo, anche se dopo il turno di servizio passava le nottate sui libri per la prova finale in accademia.

    Frida aprì l’armadietto e prese lo smartphone da un ripiano. Tre chiamate perse. Una di Kai, che probabilmente voleva uscire con lei. Due chiamate dai suoi genitori. Frida esitò. Poggiò il telefono sulla panca e si tolse le scarpe. Lo riprese in mano e compose il numero dell’Elbmarsch.

    «Frida, finalmente!». Marta Paulsen sembrava sollevata.

    «È successo qualcosa, mamma?»

    «Volevo solo sentire la tua voce. Non chiami mai!».

    «Ho molto da fare».

    «Anche noi. Tuo padre lavora sedici ore al giorno».

    Frida restò in silenzio.

    «È da quest’estate che hai promesso di venire alla fattoria».

    «Appena ho un fine settimana libero vengo a trovarvi».

    «Lo dici da mesi! Se aspetti un altro po’ saremo morti».

    Frida sospirò. «Stai esagerando». Ancora un paio di frasi e chiuse la telefonata. Perché non andava un pomeriggio nel Marsch? Tanto sua madre non l’avrebbe lasciata in pace fino a che non sarebbe andata a trovarli un paio d’ore.

    Scrisse un messaggio a Kai per dirgli che quella sera aveva voglia di cucinare. Magari senza ritirare fuori il discorso sul perché l’ultima volta fosse andata via dopo aver fatto sesso. Perché non lo rendiamo pubblico? Vogliamo cercare insieme un appartamento?

    A Frida piaceva quello che c’era fra di loro. Qualcosa di informale e non vincolante. Non sopportava troppa vicinanza. Nessuno doveva sapere che si vedeva con qualcuno. Don’t fuck the company. Una relazione con un collega non portava altro che problemi. E, se Kai non lo capiva, avrebbe chiuso tutto. Sempre se c’era almeno qualcosa.

    Si cambiò e chiuse sbattendo l’armadietto. Poi lesse la risposta di Kai in arrivo: «Di cosa hai voglia?».

    Scrisse: «Di te e di una bella bistecca al sangue».

    L’edificio dell’Accademia di polizia sul Braamkamp era una costruzione grigia a cinque piani. Confinava con il distretto di polizia in Carl-Cohn-Straße, in cui erano di stanza alcune centinaia di uomini della polizia antisommossa. Alcuni anni prima la Scuola superiore di polizia e la Scuola di polizia di Stato erano stata accorpate nell’Accademia di polizia. Secondo un articolo di giornale di allora, il loro scopo non era solamente quello di addestrare gli studenti, ma anche di plasmarli. Quell’affermazione aveva strappato a Frida un sorriso. Come se si potessero plasmare delle persone già adulte. Fu proprio lei stessa a candidarsi poco dopo per entrare all’Accademia, e superò il test d’ammissione. L’esperienza decennale nella polizia di pattuglia era stata decisiva per gli eccellenti risultati dell’esame e per le eccezionali valutazioni dei suoi superiori, tanto che venne subito ammessa agli studi. In quel momento era al quarto semestre e stava svolgendo la parte pratica al commissariato di polizia.

    Frida lasciò la jeep scassata nel parcheggio e scese gli scalini che portavano all’ingresso sul retro del centro di formazione della polizia. Alla mensa si diresse velocemente alle macchinette con snack e bevande, davanti alle quali due studenti se ne stavano in piedi a parlare. Frida riconobbe uno dei suoi compagni e gli fece un cenno, senza fermarsi lì con loro.

    La mensa era uno spazio aperto con delle alte finestre, in cui dominava il tono caldo del pavimento e dei mobili. Un leggero odore di cibo aleggiava nell’aria, nonostante l’orario dei pasti fosse passato da un pezzo. Sul passaggio che portava alle scale splendeva uno stemma dell’accademia alto quanto la parete. La prima volta in cui Frida entrò da quella porta le venne la pelle d’oca. Adesso la vista dello stemma le confermava che quegli studi erano stati la scelta giusta.

    La biblioteca, situata al primo piano, avrebbe chiuso dopo mezz’ora. Frida saliva gli scalini a due a due.

    «Ciao Frida, che ci fai qui? Credevo fossi nel commissariato 11». Jasmin Yildiz, una compagna di studi con origini turche, stava correndo dietro di lei.

    Frida si fermò. «Sì, è così. Voglio fotocopiare un paio di fascicoli per criminologia in biblioteca. Finora non ho studiato molto di analisi delle prove e di gestione della scena del crimine per l’esame».

    «Dai, vieni, sei la migliore in criminologia, lo sanno tutti».

    «Devo comunque studiare per l’esame».

    Jasmin mise su un ghigno sarcastico. «Davvero vuoi entrare nella polizia criminale una volta finito? Alla scrivania? Non ti mancherà la strada?»

    «Sono stata dieci anni sulla strada. È ora di cambiare».

    Jasmin mostrò un sorriso raggiante. Era di una gran bellezza e sapeva come sfruttarla a proprio vantaggio. Ad appena vent’anni stava facendo l’addestramento per entrare nella Direttiva i, il servizio intermedio. «Ma almeno la divisa?»

    «Quella mi mancherà sicuramente». Frida aveva sempre indossato la divisa volentieri. Era una sorta di corazza e un’espressione della sua appartenenza. Gli anni in pattuglia le erano costati molto e l’avevano resa più forte, avevano dato un senso alla sua vita. Ma per molto tempo le era mancato un obiettivo, una nuova sfida. Alla fine si era decisa di studiare per la Direttiva ii, quello che fino a qualche anno prima chiamavano servizio superiore. A trentun anni era una delle studentesse più anziane dell’accademia.

    «E com’è Sankt Georg? È davvero così pazzesco come dicono?».

    Frida scrollò le spalle. «È a posto», tagliò corto. «Jasmin, sono in ritardo. La biblioteca sta chiudendo».

    «Sì, certo! In bocca al lupo per l’esame!». Jasmin riscese giù nella mensa, da cui giungeva l’eco delle risate.

    Frida entrò in biblioteca e prese dallo scaffale i libri che le servivano per prepararsi. L’esame successivo della prova finale sarebbe stato di lì a tre settimane. Era una dei migliori del suo corso, ma questo non contava nulla. Doveva dimostrare di nuovo di cosa era capace e non avrebbe lasciato niente al caso. L’ambizione non è per i pigri. Dopo la bistecca e il sesso con Kai avrebbe studiato un paio d’ore in cucina. Di solito lui le dormiva accanto mentre Frida si metteva in pari con il carico di studio. Da settimane dormiva troppo poco. Ma ne sarebbe valsa la pena se prima o poi fosse riuscita a entrare nella polizia criminale.

    A Frida servì qualche istante per realizzare che era stata la vibrazione dello smartphone a svegliarla. Kai era sdraiato lì accanto e non si mosse.

    Con un cattivo presentimento afferrò il telefono che non smetteva di tremare sul comodino. Un rumore che le arrivò sotto pelle. Di notte non è mai nulla di buono. Un numero sconosciuto di un telefono fisso da Amburgo. Fece swipe sul display. «Paulsen?»

    «Frida…», sussurrò sua madre.

    «Mamma? Cos’è successo?»

    «Papà…».

    «Cosa gli è successo?», le chiese.

    Sua madre singhiozzò. «Qualcuno lo ha aggredito».

    «Cosa?»

    «Non è tornato a casa stanotte dalla Capanna del Marsch…». Per un attimo pianse nel telefono. Frida chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di cadere. Poi sentì di nuovo la voce di sua madre. «Sono andata a cercarlo di notte con la torcia. Era nella cunetta sul ciglio della strada. Ci è mancato poco che non lo vedessi nemmeno. La sua testa aveva così tanto… sangue».

    «Dov’è adesso?»

    «In ospedale… a Eppendorf. Lo stanno operando».

    «Nella clinica universitaria?»

    «Sì». Un altro singhiozzo. «Sbrigati, Frida. I medici non sanno se supera la notte».

    Le ore scorrevano davanti agli occhi di Frida come le scene di un brutto film. Il corridoio sterile dove aspettavano, l’odore pungente di ospedale che a un certo punto non sentiva nemmeno più, lo scattare delle lancette dell’orologio a muro, le lacrime della madre. Un’infermiera del turno di notte aveva offerto loro una stanza libera dove attendere la lunga operazione di suo padre, ma non c’era stato verso di convincere Marta ad allontanarsi neanche di un metro dall’ingresso delle sale operatorie. Voleva rimanere il più vicino possibile a suo marito.

    Eppure, la cosa peggiore era il terrore di una brutta notizia. Quando si apriva una porta, il cuore di Frida cominciava a battere più velocemente. Per favore, diteci che è vivo, pensava. Ma il personale dell’ospedale andava e veniva. Nessuna novità sulle condizioni del padre.

    Perché si capiva solo di fronte alla morte quanto si fosse sentita la mancanza di qualcuno?

    Frida si alzò. Le faceva male la schiena. La gamba destra era intorpidita. Si stiracchiò, zoppicò fino alla macchinetta e prese un tè. Alla fine Marta si era addormentata. Frida aveva chiesto a un’infermiera un cuscino e una coperta per sua madre, e adesso Marta era sdraiata sulle sedie per i visitatori, avvolta al caldo. Come un barbone alla stazione di Altona, pensò Frida. Ma almeno si sarebbe ricaricata un po’ per ciò che la attendeva l’indomani.

    Speranza o dolore?

    Frida si appoggiò alla parete. Guardò la madre, le sue palpebre che tremolavano nel sonno. Marta le aveva raccontato più e più volte di come aveva cercato Fridtjof e lo aveva trovato sul ciglio della strada. Rannicchiato come un animale.

    Chi aveva ridotto così suo padre? Il colpevole voleva soltanto ferirlo o addirittura ucciderlo?

    Alle cinque di mattina si spalancò la porta del blocco operatorio. Il chirurgo sembrava stravolto. Aveva abbassato la mascherina sotto il mento.

    Un veloce sorriso sul volto.

    Speranza, pensò Frida.

    «Signora Paulsen?»

    «Sì!». Andò da lui. «Sono la figlia».

    Marta si svegliò e si drizzò mezza addormentata. «Cosa c’è?». Negli occhi la confusione, poi la paura. Si alzò.

    «Suo marito ha superato l’operazione. È arrivato qui con un importante trauma cranico. Siamo riusciti a fermare l’emorragia, ma le prossime ore sono decisive».

    «Cosa significa?», chiese Marta. «Morirà?»

    «Purtroppo con una ferita del genere alla testa non posso fare alcuna prognosi. Dobbiamo aspettare». Guardò Frida, rimasta muta accanto a lui. «Qui suo padre è in buone mani. Vada a casa. Non appena ci sono delle novità la chiamiamo». Il chirurgo fece loro un cenno e si allontanò lungo il corridoio.

    «Non mi muovo di qui!». Marta si risedette.

    «Non ha senso aspettare. Papà deve riprendersi dall’operazione. E anche tu devi riposare».

    «Cosa succede se muore?», chiese Marta con un filo di voce.

    «Non devi nemmeno pensarla una cosa del genere, capito? Papà ce la farà! Ha superato l’operazione. È un buon segno».

    Aiutò sua madre ad alzarsi e lasciarono insieme l’ospedale in cui suo padre lottava tra la vita e la morte.

    2

    I tergicristalli scivolavano monotoni e regolari sul parabrezza. Marta sedeva impietrita accanto a Frida e guardava dal finestrino. Si stava facendo giorno mentre attraversavano il Marsch. Una tenue striscia di luce spuntava da dietro i nuvoloni di pioggia. Per alcu-

    ni minuti non avevano aperto bocca. Ma era meglio quel silenzio che le poche, misere parole che si erano scambiate negli ultimi

    anni.

    Man mano che si avvicinavano al paese Frida diventava più nervosa. Le spalle si irrigidivano. Si sentiva come se fosse infilata in uno stretto corsetto che qualcuno stringeva sempre di più. Il cartello giallo di Deichgraben si stagliava nella pioggia. Il paese in cui aveva trascorso l’infanzia.

    Frida guardò a destra, dove uno stretto sentiero serpeggiava tra i campi. In lontananza riusciva a scorgere nella pioggia la sagoma di un edificio in mattoni. La vecchia stalla sul sentiero della morte. Il luogo dove venne assassinata Marit.

    Non voleva pensarci e rivolse lo sguardo in avanti, alle case con il tetto di paglia, provate dall’umido clima autunnale.

    «Pensiamo spesso a Marit». Sua madre riprese a parlare all’improvviso, riscuotendo Frida dai propri pensieri. «Non credere che abbiamo dimenticato tutto».

    Frida entrò nella fattoria, evitò una buca e parcheggiò la jeep davanti alla casa con il tetto di paglia, da generazioni di proprietà dei Paulsen. Desolato fu la prima parola che le venne in mente quando spense il motore. Erano mesi che non tornava lì. L’ultima volta era stata per il compleanno del padre a inizio agosto. In mezzo alla natura incolta non poté fare a meno di notare allora la tristezza e la rovina dell’intera tenuta. In quella mattina grigia a Frida sembrò tutto ancora più sconvolgente. Non soltanto per le buche nel cortile e per il mucchio di attrezzi abbandonati accanto all’edificio adiacente, tra i quali crescevano le erbacce. Anche la casa sembrava lasciata a sé stessa. I mattoni una volta rossi erano rovinati dalle intemperie e ricoperti di efflorescenze saline. L’intonaco si sbriciolava dalle fughe. La tinta si staccava dalle finestre, dalle porte e dalle assi di legno sotto l’abbaino.

    Sua madre guardò la casa e si asciugò una lacrima all’angolo dell’occhio. «Cosa diavolo ne sarà adesso della fattoria e del raccolto?»

    «Se ne occuperà Hagen», disse Frida.

    Da quarant’anni Hagen Krohn, il dipendente di suo padre, viveva con loro insieme al figlio, e lei era sicura che per un po’ potesse gestire gli affari del meleto anche senza Fridtjof.

    Marta sospirò e aprì la portiera della macchina. «Non lavora più qui». Scese e sbatté con forza lo sportello.

    Frida la seguì e si tirò su il cappuccio. Voleva dire qualcosa, ma l’abbaiare sordo di un cane copriva la sua voce. «Mamma, cosa significa?», domandò.

    «Un paio di giorni fa tuo padre ha buttato fuori Hagen». Marta andò al cancello del granaio e lo aprì. Un pastore ungherese le saltò addosso contento. «Va bene, Arthur!».

    Il cane abbaiava a Frida e la tormentava con dei grandi balzi. Poi la riconobbe e prese a saltellarle intorno. Lei lo afferrò per il pelo e lo accarezzò dietro le orecchie. «Oh, Arthur! Vecchio mio, ora mi riconosci». Guardò sua madre che richiuse il cancello. «Perché l’ha licenziato?».

    Marta alzò le spalle e sembrava non notare la pioggia che la stava inzuppando da capo a piedi. «Non lo so. Fridtjof mi ha detto solo che hanno litigato di brutto».

    «E perché?»

    «Non me l’ha voluto raccontare. Ha detto che era una cosa da uomini».

    Frida si diresse a casa insieme a Marta. Arthur girava loro intorno scodinzolando. «Parlo io con Hagen. Ci aiuterà sicuramente».

    «Fridtjof non lo vorrebbe. E nemmeno Hagen. Sono ancora arrabbiati. E lui avrà già trovato un altro lavoro».

    Sua madre entrò in casa. La porta non era chiusa a chiave. Una cosa normale in paese. Frida rimase in piedi sulla soglia consumata. Gli odori della sua infanzia le piombarono addosso, un misto di muri vecchi, canne essiccate e profumo di cibo. Ma in quel momento sentì anche qualcos’altro: un leggero odore di marcio.

    «Adesso prendi i tranquillanti che ti ha dato il medico e mettiti a letto, mamma».

    «Devo dare da mangiare a Hetfield».

    «Ci penso io!».

    «È vero, è il tuo cavallo!». Sua madre la guardò con gli occhi lucidi. Si appoggiò a Frida, che si imbarazzò al contatto. Marta era così piccola che le arrivava appena al mento. «Non so come fare da sola».

    Frida voleva abbracciarla, voleva offrirle conforto, invece rimase rigida, in piedi accanto a lei. Nemmeno le lacrime della madre riuscirono a scacciare il suo risentimento. «Vai a sdraiarti, mamma. Sei esausta. Poi parliamo di tutto».

    «È bello che tu sia tornata, bambina mia. La fattoria è anche casa tua».

    La casa era silenziosa. Sua madre era andata di sopra. Arthur dormiva sotto il tavolo della cucina. Frida mise un po’ d’acqua sul fuoco per prepararsi un tè. Nelle stanze faceva freddo. Probabilmente stava congelando anche a causa della stanchezza. Si sarebbe sdraiata volentieri, ma voleva prima andare a dare un’occhiata a Hetfield. E doveva anche riflettere su cosa fare. Anche se suo padre fosse sopravvissuto non era detto che avrebbe potuto continuare a lavorare in fattoria.

    Frida restò davanti ai fornelli fino a quando l’acqua non fu pronta e fece il tè. Con le mani strette intorno alla tazza si sedette sulla panca vicino alla finestra e tirò su i piedi. Guardò fuori, soffiò sul tè fumante e bevve un piccolo sorso. La pioggia picchiava ancora sui vetri. I rami del vecchio castano in cortile oscillavano al vento.

    Perché quella notte qualcuno aveva aggredito suo padre di ritorno dalla locanda? Il medico aveva detto che i colpi erano stati inferti da dietro e con un oggetto appuntito. Suo padre era stato fortunato che non l’avessero ucciso subito. E ancora più fortunato che Marta lo avesse trovato prima che annegasse nel fosso della strada o che morisse dissanguato. Ora la sua vita era appesa a un filo sottilissimo. Ci sarebbe voluto un miracolo per farlo guarire completamente. Chi odiava suo padre a tal punto da colpirlo alle spalle e lasciarlo mezzo morto nel canale di scolo?

    Hagen si era vendicato su di lui perché lo aveva licenziato dopo così tanti anni? Frida rivide davanti a sé quel viso irsuto, gli occhi allegri. Nei confronti della sua famiglia si era sempre comportato in maniera leale, una persona mite e tranquilla. Non avrebbe mai alzato le mani su qualcuno, non importava quanto lo odiasse, di questo ne era sicura.

    «Hai la corda?», domandò Hagen.

    «Sì». Frida si arrampicò sull’albero ancora un po’. «Fino a qui?»

    «Sì, basta così. Prendi il ramo più forte».

    Frida si appoggiò a una forcella e annodò stretta la fune.

    «Doppia gassa d’amante?». L’accento rude di Hagen non lasciava dubbi sul fatto che fosse cresciuto da qualche parte nella Frisia orientale. A Frida piaceva il modo in cui parlava. Le ricordava tutte quelle storie di marinai che amava leggere.

    Strinse forte il nodo. «Okay, ci sono!».

    «Vai, allora appenditi!».

    Frida tirò a sé il vecchio pneumatico che Hagen aveva fissato all’estremità della fune, ci si mise dentro e si tenne forte. Si diede la spinta e sfrecciò in aria.

    «Sì, sì, sììììì…», urlò a squarciagola mentre ondeggiava avanti e indietro. «Posso volaaaare!».

    Hagen era in piedi accanto a lei e rideva. «Ecco la tua altalena».

    «Come facevi a sapere che il nodo mi avrebbe tenuta?»

    «Una doppia gassa d’amante tiene sempre. E la tua era perfetta».

    «Vuoi provare tu?». Oscillò all’indietro.

    Fece cenno di no con la testa. «Devo tornare a lavorare».

    «Aspetta!». Frida saltò dalla ruota e gli corse incontro. Lui aprì le braccia e lei ci si gettò.

    «Grazie, Hagen! Sei il migliore di tutti!».

    Quando il telefono squillò, Frida trasalì e si versò il tè sui pantaloni. Appoggiò la tazza e corse nell’ingresso. Non voleva che sua madre si svegliasse. «Pronto?»

    «Sono Haverkorn. Parlo con Marta Paulsen?».

    Frida restò impietrita. Aveva riconosciuto immediatamente la sua voce. Il commissario Haverkorn della polizia criminale. Sembrava passata un’eternità da quando l’aveva conosciuto. Da quando Marit era sottoterra.

    «Pronto?», chiese lui. «Signora Paulsen?»

    «Sì, cioè no…». Si schiarì la voce. «Sono la figlia».

    Silenzio. «Frida?»

    «Sì».

    «Sicuramente sa perché ho chiamato. Mi hanno affidato il caso di suo padre, dobbiamo presumere che si tratti di tentato omicidio».

    Frida deglutì. Ebbe la sensazione di esser tornata indietro nel tempo. Aveva di nuovo tredici anni e sedeva di fronte a Haverkorn.

    Mi stai nascondendo qualcosa, Frida! Con chi si è incontrata Marit nella stalla? Devi dirmelo!

    «Sì, come posso aiutarla?»

    «Vorrei parlare di persona con lei e sua madre».

    «Mia madre sta dormendo».

    «Meno male. Di sicuro è stata sveglia tutta la notte». Tacque per un momento. «Vi andrebbe bene oggi pomeriggio?».

    Frida pensò disperatamente a una scusa per toglierselo dai piedi. Ma sapeva benissimo che presto o tardi avrebbe dovuto incontrare Haverkorn. «Alle tre qui alla fattoria?»

    «D’accordo». Ringhiò un colpo di tosse da fumatore nella cornetta. «Mi scusi. A oggi pomeriggio. E, Frida…».

    Lei rimase immobile. «Sì?»

    «Ha fatto bene a tornare!».

    Il commissario di polizia criminale Bjarne Haverkorn poggiò il ricevitore sull’apparecchio del suo ufficio e fissò il vuoto. Frida Paulsen. Espirò lentamente. Non l’aveva riconosciuta dalla voce. Sembrava scura e adulta, d’altronde erano trascorsi più di diciotto anni. Chissà che aspetto aveva adesso. Rivide davanti agli occhi la tredicenne di allora: vestiti trasandati, capelli corti, sguardo rigido. La ragazza che non voleva esserlo. Frida la spaventata, la cocciuta. Frida la bugiarda.

    Oppure si era sbagliato sul suo conto?

    Si era fissato che lei non gli avesse detto tutto quello che sapeva sulla morte della sua amica? Si era così accanito a voler trovare il colpevole che si era solo immaginato la menzogna in quello sguardo? Oppure il suo istinto era giusto?

    Ormai non era più in grado di ricordare ciò che gli aveva fatto dubitare della sincerità di quella ragazza intimidita. Aveva rivisto Frida un’ultima volta prima che i suoi genitori la spedissero in collegio. Erano trascorsi quasi vent’anni da allora. Un’eternità per chi ha quasi sessant’anni ed è a un passo dalla pensione.

    Haverkorn guardava fuori dalla finestra del suo ufficio al decimo piano, in direzione della chiesa St Laurentii di Itzehoe. In genere si godeva la vista, ma quel giorno il suo sguardo si perdeva in lontananza. Frida era tornata alla fattoria dei Paulsen. C’era da aspettarselo dopo la brutale aggressione al padre. Fu un caso, invece, che proprio a lui avessero affidato quel caso. Quella domenica mattina era reperibile a casa. Gli aveva telefonato il suo superiore, che era a un matrimonio a Berlino e non poteva muoversi da lì. Era scontato che Haverkorn prendesse il caso. Ordinaria amministrazione per un inquirente esperto come lui. Perciò era andato subito in uf-

    ficio.

    Non appena venne aggiornato sui fatti, gli suonò un campanello. Per Haverkorn il cognome Paulsen era una specie di grilletto che metteva in moto un carosello di immagini ed emozioni. Gli era sembrato di essere tornato improvvisamente al 1998, in quel paesino nell’Elbmarsch, come se fosse andato lì soltanto il giorno prima. Eppure erano passati mesi dall’ultima volta in cui era stato a Deichgraben. In primavera, considerò. O all’inizio dell’estate.

    Il caso di Marit Ott, a cui doveva la più grande sconfitta della sua carriera. Quel ritrovamento di cadavere era stato il primo caso affidatogli come capo della squadra Omicidi. E l’ultimo. Subito dopo aveva rinunciato alla nomina ed era rientrato nelle fila dei funzionari, perché aveva fallito. Sotto ogni aspetto. Persino il suo matrimonio ne era uscito pressoché distrutto.

    Haverkorn afferrò la giacca, tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne portò una alle labbra. Poi pensò che in ufficio era vietato fumare. Era da solo, ma rimise lo stesso la sigaretta nel pacchetto e si alzò. Gli sportelli inferiori dello schedario non venivano aperti da molto tempo. Lì dentro erano conservati alcuni dei vecchi casi. Haverkorn prese il fascicolo di Marit Ott e posò il faldone rosa sulla scrivania. Conosceva quelle pagine praticamente a memoria.

    Sebbene si trattasse di uno dei suoi casi più vecchi, non aveva mai smesso di occuparsene. Quel caso era stato la sua Waterloo personale e, anche se intanto aveva perso le speranze di riportare una vittoria, non aveva ancora abbandonato il campo di battaglia.

    Haverkorn andò dritto alle pagine con le foto della scena del crimine. Quante volte le aveva guardate? Era stato lì a lambiccarsi il cervello e si era lasciato convincere a non arrendersi? Non poteva dirlo. Quelle sensazioni riaffiorarono di nuovo mentre fissava le foto. Non così violente come quel giorno sul luogo del delitto nella stalla abbandonata e nelle settimane seguenti. Ma quella ragazza morta nelle foto gli faceva vibrare qualcosa. Un dolore profondo, una perdita, che tuttora non aveva elaborato.

    Haverkorn chiuse il faldone di scatto e diede un’occhiata al suo orologio da polso. Aveva ancora del tempo prima di muoversi. Gli servivano un caffè e un nuovo taccuino per gli appunti. Ne prese uno di quelli blu d’ordinanza dal cassetto in basso e lo ripose nella borsa di pelle. In sala riunioni accese il bollitore e mise una bustina di caffè istantaneo in una tazza. Mentre aspettava che l’acqua si scaldasse, guardò dalla finestra. Proprio accanto al loro edificio si trovava l’istituto penitenziario, il più vecchio e il più piccolo del suo genere nello Schleswig-Holstein, con soli ventitré posti. Quello non era il momento dell’ora d’aria, perciò l’esterno appariva deserto. Solo una coppia di germani reali se ne stava appollaiata accanto al tavolino nel cortile. La natura si appropria persino di una prigione, come se fosse una cosa normale. Il bollitore emise un suono. Haverkorn versò l’acqua nella tazza con la polvere di caffè e aggiunse del latte. Sorrise con un velo di gioia. Frida Paulsen era tornata. In un attimo il grigiore quotidiano si era trasformato.

    Innanzitutto, quel giorno, bisognava parlare dell’aggressione a suo padre. Ma Haverkorn aveva sentito nella voce di Frida che il caso di Marit non aveva ancora dato pace nemmeno a lei. Che non tutte le carte erano state giocate. Questa volta non avrebbe rimesso gli atti a posto nell’armadio finché il caso non fosse stato chiuso. E quel faldone sarebbe rimasto sulla sua scrivania fino al pensionamento.

    3

    Frida accarezzò il collo dello stallone che si avvicinò a lei. Appoggiò la testa sul pelo di Hetfield e chiuse gli occhi. Dopo la morte di Marit, quando andò in collegio, fu costretta a lasciarlo nella fattoria. Una perdita che aveva sopportato a fatica. Adesso era felice che i suoi genitori non l’avessero dato via. Era un legame con la sua infanzia. Con il tempo in cui il peggio non era ancora accaduto.

    Frida si mise davanti allo stallone e gli porse una carota che i suoi denti gialli maciullarono. Lo smartphone di Frida cominciò a suonare nella tasca dei pantaloni. Prese la telefonata. «Kai…».

    «Sei già in servizio?», chiese mezzo addormentato. «Non mi sono proprio accorto che ti sei alzata».

    «No, è successa una cosa. Sono dai miei alla fattoria».

    «Cosa è successo?»

    «Una questione di famiglia. Non preoccuparti!».

    Perché non gli disse che qualcuno aveva aggredito suo padre? Uscivano insieme dalla primavera, ma lei gli aveva raccontato molto poco della sua famiglia. Quasi fosse un confine che con lui non voleva superare.

    «Sì, okay». Sbadigliò. «Chiudo semplicemente la porta. Come sempre».

    Era un velato rimprovero poiché lei non gli aveva ancora dato le chiavi del suo appartamento. Ma lei lo ignorò. «Sì, fai così».

    «Ieri era deliziosa. La bistecca. E te».

    «Kai, devo andare. Ti chiamo io. A presto». E attaccò.

    Hetfield sbuffò e fregò il muso sulla sua mano. Lei gli diede un’altra carota e poggiò la guancia su quel collo caldo.

    «Dzien´ dobry!», disse una voce maschile dietro di lei.

    Frida si girò. All’ingresso del box c’era un uomo dai capelli bianchi e con una barbetta da moschettiere. Indossava dei jeans, una camicia a scacchi e degli stivali di gomma. «Posso aiutare?», chiese in un tedesco incerto.

    Frida fece un passo verso di lui. «Salve, io sono Frida Paulsen, Fridtjof è mio padre».

    «Aaah!». Si aprì in un sorriso. «Figlia!». Pronunciava la l come fanno nell’Europa dell’Est.

    «Esatto! E lei è?»

    «Io Adam!». Le strinse la mano. Sicuramente era uno dei lavoratori stagionali che assumeva suo padre. «Dove Fridtjof?», chiese.

    Frida sospirò. Cosa avrebbe dovuto dirgli? «È ricoverato, in ospedale!».

    «Oh, w szpitalu! Non bene!».

    «No, non sta bene».

    «Quando viene? Noi deve lavorare».

    «Sì, lo so!». Già da anni, durante la stagione del raccolto, i lavoratori abitavano in una dépendance in fattoria. Cosa doveva dire loro? «Oggi non si lavora, Adam. Hai capito? Niente lavoro oggi!».

    «Ah, okay!». Sembrava rattristato. «Domani?»

    «Non so cosa succederà domani».

    Frida uscì dal box, e Adam la seguì. Dall’espressione sul suo viso lei capì che non era contento. Ma una risposta migliore al momento non l’aveva.

    Quando Frida rientrò in casa, trovò sua madre in cucina. Se ne stava seduta sulla panca ad angolo con una tazza

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