Croce e delizia (Alle cinque del mattino Vol. II)
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Anteprima del libro
Croce e delizia (Alle cinque del mattino Vol. II) - Rita Angelelli
Cover
Il fumo fa male, così dicono
Con gli occhi ancora chiusi allungò un braccio verso il comodino per cercare lo smartphone che, come tutte le mattine, le dava la sveglia con quella suoneria insistente. Una musichetta sgraziata, un motivo che si ripeteva in loop tratto da una canzone della quale non conosceva nemmeno il titolo, comunque, non peggiore di molti altri.
Tastò sul comodino, ma, quando le sembrò di averlo afferrato, il cellulare le scivolò di mano. Aprì gli occhi, maledì l’aggeggio che continuava a mandare quel motivetto scemo e, sempre tastoni, trovò l’interruttore e accese la luce. Si infilò gli occhiali e scese dal letto. Raccolse il cellulare e disattivò la suoneria. Le cinque e due minuti. Aveva tutto il tempo per fare le solite cose.
Letizia era una donna abitudinaria. Viveva sola in un appartamentino non lontano dall’hotel dove lavorava e si reputava una donna fortunata, anche se a volte rimpiangeva la mancanza di un uomo al suo fianco. Era addetta alla pulizia delle camere e, nonostante la fatica, quel lavoro le piaceva. Usciva di casa con il sorriso stampato in faccia e faceva il tragitto fino al lavoro, poco più di tre chilometri, in auto, sempre di buon umore. Nemmeno messa la divisa da cameriera ai piani la sua espressione mutava di un millimetro, nemmeno quando le camere erano sporche e ridotte male.
Alle cinque e quarantacinque parcheggiò sul retro dell’hotel. Scese dall’auto, la chiuse con un click del telecomando e si avviò verso l’entrata secondaria. Lì incontrò una collega. Si scambiarono un saluto, fecero due chiacchiere, poi, insieme, andarono nello spogliatoio, dove Letizia infilò il camice rosa, la cuffia e il candido grembiulino allacciato in vita. Si sentiva perfetta ed era pronta ad affrontare le sue otto ore di lavoro.
Alle sei in punto aveva già preso il suo carrello e si era messa a controllare l’attrezzatura: i detergenti erano al loro posto, gli strofinacci e le spugne anche, i panni per spolverare c’erano…
Andò in lavanderia, contò le lenzuola e gli asciugamani che prevedeva le sarebbero serviti per sistemare il secondo piano e li caricò sul carrello. Dieci stanze in tutto. Tutte occupate e quindi da sistemare? Questo non poteva ancora saperlo, ma presto le sarebbe arrivato il solito messaggio con il numero delle camere da pulire, anche se lei un controllino lo dava sempre a tutte, visto che alcune delle camere potevano esser state usate da avventori a ore. I mordi e fuggi del sesso.
L’unica cosa che non sopportava del suo lavoro era raccogliere i preservativi che la gente lasciava in giro o buttava nella tazza del cesso, senza comprendere che era difficile che finissero nelle fogne.
«Ecco. Idioti», si trovò a mormorare. Scrollò la testa. Sorrise. Non doveva lasciarsi influenzare da quei pensieri.
Intanto aveva finito di preparare il carrello e adesso aveva il tempo per concedersi un caffè, poi una sigaretta sul terrazzino, come tutte le mattine a quell’ora. Come ogni mattina avrebbe iniziato dalle parti comuni: il corridoio, le scale, l’interno dell’ascensore e i vetri delle portefinestre che si aprivano sul terrazzino, nell’attesa che le camere del secondo piano via via si liberassero e lei potesse sistemarle.
Andò verso la reception, salutò il portiere di giorno e si infilò nella stanza accanto al bar. Lì, altri colleghi. Si unì alle loro battute, prese il caffè e cinque minuti dopo salutò tutti. Tornò nello spogliatoio, prese il suo carrello e uscì. Attese l’ascensore pregustando la sua amata sigaretta, quella del mattino, che avrebbe fumato da lì a poco, da sola, mentre guardava il cielo e le fronde degli alberi muoversi.
Lasciò il carrello all’inizio del corridoio del secondo piano e uscì sul terrazzo. Accese la sigaretta, aspirò il fumo con gusto, fece qualche passo e si appoggiò alla ringhiera. Fumava e si guardava intorno, come tutte le mattine. E, come ogni mattina, abbassò lo sguardo per seguire la cenere che scrollava al di là della ringhiera. Un gesto dettato dall’abitudine, perché in realtà per lei la cenere, che nel corso della discesa perdeva calore e si disperdeva nell’aria, era un elemento indistinguibile, anche se indossava gli occhiali.
In realtà il vicolo non aveva nulla di interessante. Era una strada stretta, senza uscita, che separava la proprietà dell’hotel dal muro dell’edificio a fianco.
Tossì, il fumo le si strozzò in gola, ebbe una lieve vertigine, la sigaretta le cadde dalle mani e finì sull’asfalto sottostante. S’affacciò e la intravide atterrare molto vicina a una sagoma indistinta che avrebbe potuto essere un corpo umano.
Si sporse di più, ma la sua miopia non le permise di distinguere di cosa o di chi si trattasse, così rientrò e scese di corsa al pianterreno usando le scale, senza attendere l’ascensore. Andò subito dal portiere e gli riferì quello che aveva appena visto, o meglio intravisto. Uscirono insieme dall’edificio e si infilarono nel vicolo.
La scena che si presentò loro era raccapricciante: una giovane donna, nuda, era seduta con la schiena appoggiata al muro, la testa riversa da un lato. Aveva i seni mutilati dei capezzoli. Sui palmi delle mani, posate sulle cosce, due lembi di carne. Sangue ovunque.
Letizia ingoiò un conato di vomito e si coprì il viso con le mani; il portiere invece voltò di scatto la testa e guardò in basso.
«Dobbiamo avvertire la polizia...» disse sottovoce, come se un tono troppo alto fosse inadatto a una situazione del genere.
Letizia annuì, continuando a fissare il cadavere. Poi si voltò verso il portiere, lo afferrò per un braccio e lo tirò verso il piazzale dell’hotel.
«Non possiamo restare qui. Dobbiamo avvertire anche gli altri e, in qualche maniera, coprire quella poveretta.»
«No. Non tocchiamo nulla», rispose il portiere camminandole a fianco.
«Da quanto tempo sarà lì? Tu non ti sei accorto di nulla? Io ho parcheggiato sul retro, come sempre. Lì davanti non ci passo mai.»
«Neanch’io ci passo mai», replicò lui.
Rientrarono subito e il portiere chiamò al telefono il titolare dell’albergo, poi radunò i colleghi nella hall: impiegati, camerieri, il barista e gli addetti alla cucina. Per fortuna gli ospiti erano ancora tutti nelle loro camere e in cuor suo sperò che continuassero a dormire fino all’arrivo della polizia.
«Seguitemi in ufficio», disse quando tutti furono presenti.
Lì, si mise dietro la scrivania e restò in piedi. Di fronte a lui, venti occhi lo guardavano meravigliati. Non era mai successo che venissero chiamati in ufficio tutti insieme, soprattutto da una persona che non era il proprietario dell’albergo. Senza scendere nei particolari, il portiere spiegò quello che c’era nel vicolo, e loro restarono ammutoliti. Qualcuno poi disse di non essere passato lì di fronte, altri confermarono che l’unica entrata dalla quale accedevano era quella riservata ai dipendenti, sul retro dell’edificio.
«Uno di voi dovrebbe andare all’imboccatura del vicolo e non far avvicinare nessuno. Vai tu Sergio?» chiese all’aiuto cuoco.
L’omone dallo sguardo glaciale gli sembrò, in quel momento, il più adatto.
Sergio annuì e uscì subito dall’ufficio.
«Tutti gli altri tornino alle proprie mansioni. Gli ospiti dell’hotel presto si sveglieranno e dobbiamo essere il più possibile professionali. Offrite loro caffè e bevande, e non fate uscire nessuno. Soprattutto, non parlate di quello che è accaduto, il colpevole potrebbe essere uno di loro. Io adesso chiamerò la polizia. Tu, Letizia, rimani qui con me. Sei la prima a esserti accorta del cadavere.»
Sembra uno che sappia cosa fare in queste situazioni, considerò Letizia. O forse, pensò, imita solo il detective di una qualche serie TV. In realtà erano i suoi modi di sempre: risoluto ogni volta che c’era un problema da risolvere, anche se spesso si comportava da persona presuntuosa, più che capace.
L’agente Lorusso aveva appena preso servizio e sostava di fronte al distributore automatico in attesa che il bicchierino si riempisse per metà di quella brodaglia che ancora si ostinavano a chiamare caffè.
Era il secondo della giornata; il primo se lo era fatto a casa, con la moca, ma non era bastato a dargli l’energia necessaria per affrontare la giornata. Prevedeva grane, se le sentiva, e di solito si sbagliava di poco.
Aveva smesso di piovere, per fortuna, e un sole pallido stava sorgendo a riscaldare gli animi e la giornata dei genovesi così come dei dipendenti della questura.
Quando vide avvicinarsi di corsa Marozzi, l’agente che prendeva le denunce insieme a Canepa, il suo presentimento divenne certezza.
«Questa è di sicuro una grana», mormorò fra sé.
«Vito, devi chiamare Incandela. Ne abbiamo un’altra.»
«Un’altra di che cosa?»
«Un’altra morta ammazzata. E stavolta è messa peggio di quella di qualche giorno fa. Così dicono, belin.»
«Avete già mandato qualcuno?»
«No, abbiamo provato a chiamare il vice questore, ma non risponde. È sempre irraggiungibile.»
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!»
«Eh...»
«Arcovezzi lo hai chiamato? La Mancini?»
«No, nessuno dei due. Aspettavo...»
«Sei un cretino! Hai chiamato almeno Carnabuci o chi per lui? Chi c’è in servizio? E la scientifica? Il questore? Il PM? Dimmi che hai chiamato almeno uno di questi e non ti metto le mani addosso.»
«Uhm... no, nessuno, aspettavo di parlare con te.»
«Sei un cretino!»
«E due... Che devo fare, belin? Chiamo io o chiami tu?»
«Lo ribadisco: sei un cretino. Tu chiama Arcovezzi e mandalo sul posto con la Mancini, io chiamo il PM e il vice questore.»
«Vado?»
«Sei ancora qui?»
A differenza di tutti gli altri giorni, quel mattino Lorusso sembrava animato da una forza diversa, all’apparenza era più consapevole delle proprie possibilità e, visto che in giro non c’era nessuno, poteva dare sfogo al proprio io più profondo, quello che avrebbe voluto sempre mostrare: un uomo deciso e risoluto, senza paura e senza la timidezza che invece lo contraddistingueva.
Marozzi partì come un razzo e Lorusso entrò nell’ufficio della Ricci. Nemmeno lei c’era.
«Tutti assenteisti, oggi», mormorò.
Si sedette dietro la scrivania della collega. Afferrò la cornetta del telefono e digitò il numero di Incandela. Irraggiungibile.
Attese due minuti e riprovò. Niente da fare. Cercò allora nell’agenda il numero del PM. Svegliarlo alle sette e quindici del mattino avrebbe significato sentirlo urlare maledicendo il questore, il vice questore e tutta la questura, nessuno escluso. Non poteva però fare altrimenti: il PM doveva essere avvertito.
D’Alatri rispose dopo il quinto squillo.
«Dottore, buongiorno. Sono l’agente Lorusso. Abbiamo un’altra vittima. No... non lo so di preciso. No... sto provando a chiamarlo da un po’ ma potrebbe avere il telefono spento, o scarico... non so. Sì, dottore. Non si preoccupi. Ci penso io. Lo cerco. Buona giornata.»
Buona giornata un cazzo, pensò. Che mi dice la testa? Dare la