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Memorandum di un uomo invisibile
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E-book229 pagine4 ore

Memorandum di un uomo invisibile

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Info su questo ebook

Sì, forse era invisibile, quando era ancora un ragazzino. Capita a tante persone. Quando quelli meno timidi cominciano a darsi i primi baci alle scuole medie... quando qualcuno fa il gioco della bottiglia... anche più avanti, quando i contatti fisici diventano sempre meno casti... ecco, se immaginate una foto di quei momenti, c’è sempre uno che guarda, in un angolo, con un’espressione in faccia che significa “Quando toccherà anche a me?”. Se, però, parliamo di queste pagine, allora parliamo dell’uomo, non del ragazzo. E quell’uomo, a rimanere fedeli ai fatti, non è affatto invisibile. Al massimo, può mantenere un profilo basso nella vita di tutti i giorni, ma quando le tende si chiudono, il mondo dell’erotismo gli spalanca le porte, con tanto di tappeto rosso. Rosso come la passione, come il sangue, come il vino più pregiato. Pagine certamente sconsigliate ai minori, ma vivamente consigliate a chiunque sia capace di togliere il cervello dalla naftalina, il cuore dalla carta stagnola e... beh, sul resto penso che ci siamo già capiti.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ago 2018
ISBN9788893846707
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    Anteprima del libro

    Memorandum di un uomo invisibile - Sergio B. Cena

    Sergio B. Cena

    Memorandum di un uomo invisibile

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2018 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica agosto 2018

    ISBN 978-88-9384-670-7

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    "Uno ‘spirito libero’ non significa altra cosa

    che uno spirito affrancato, uno spirito che ha

    ripreso possessione di se stesso."

    (Frédéric Nietzsche, Ecce Homo)

    A me nessuno mi ha proprio mai cagato. Sin dai tempi della scuola è stato così. A quel tempo magari la consideravo una fortuna essere dimenticato dai proffi, specie da quella di matematica. A ragion veduta, se c’è mai stato un nullo su questo porco mondo, quello ero e sono io. Mai capito niente di matematica. Eppure alle elementari non avevo avuto nessuna difficoltà con l’aritmetica. Addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e anche le divisioni con o senza virgola non avevano proprio nessun segreto per me. Persino con le frazioni me la sono cavata bene, ma per quanto riguarda l’algebra, mistero assoluto. Un po’ meglio me la cavavo in italiano, anche se l’analisi logica io la facevo d’istinto, ma non ho mai capito a cosa diavolo possa servire, ammesso e non concesso serva a qualcosa nella vita corrente, esattamente come l’algebra. Comunque, cessavo di essere invisibile solo nell’ora di italiano. La proffia mi interrogava sovente per aver qualcuno davanti, tale da non sembrare uscire dall’istituto dei sordomuti. Anche i miei compagni ad un tratto sembravano accorgersi della mia esistenza. Questo succedeva quando c’era il compito in classe. L’ora del tema da svolgere. Allora le orecchie mi si riempivano di bisbigli, dello zombi al mio fianco e dei due dietro di me. Finivo sempre per scriverne quattro di temi. Tre per gli zombi di cui dicevo e l’ultimo per me. Da non credere ma non avevo mai meno di otto, a volte nove, mai dieci però, ma questo lo si capisce perché anche la fantasia finisce per avere i suoi limiti.

    A parte queste parentesi, io sono sempre stato invisibile. Mai stato invitato ad una festa, all’uscita da scuola nessuno si accompagnava con me per tornare a casa, per i proffi il mio nome era un mistero, non ho mai avuto nemmeno dei compagni di gioco. Insomma ero schivato da tutti. Quando poi alle medie si era scoperto il gioco della bottiglia, si sono messe anche le ragazze a non volerne di me. Il gioco della bottiglia io l’ho sempre visto fare stando sul marciapiede opposto di dove si svolgeva, per cui posso descriverlo, anche se non vi ho mai preso parte. Si deve essere almeno in quattro: due ragazzi e due ragazze. Ci si mette in cerchio e uno fa roteare la bottiglia su se stessa, se a farla roteare è stato un ragazzo e la bottiglia si ferma col collo indicante una ragazza, lui la bacia, o è lei a baciare lui, difficile da capire. Se invece la bottiglia indica un altro ragazzo, il gioco passa di mano. D’accordo, non è poi gran cosa come gioco, però a dodici o a tredici anni magari c’hai voglia di vedere quale effetto fa baciare una ragazza, io invece non l’ho mai saputo. O per meglio dire l’ho saputo quando ormai tutti lo sapevano.

    A quel tempo avevo compiuto diciassette anni e, per festeggiare, ero andato a infognarmi in una sala da ballo. Me ne stavo tranquillo tranquillo in un angolino con una gazzosa, osservando le coppie impegnate a ballare il liscio, tanto per vedere se mi riuscisse di imparare come si facessero i passi, quando arriva una banda chiassosa di ragazzi e ragazze, i quali prendono posto ai tavoli intorno a me. Io stavo per trasportarmi in un angolo più tranquillo della sala per potermi godere meglio la musica, quando una delle nuove arrivate mi prende per un braccio dicendo: «Dai, dai, fammi ballare». Da non crederci! Ed era anche carina la ragazza. Aveva le guance rosee e gli occhi neri, profondi e scintillanti. Mi lascio trasportare sulla pista proprio mentre incominciavano i lenti. Per fortuna non erano né valzer né tanghi, ma sino ai lenti, magari lì ci arrivavo. Però i lenti si ballano guancia a guancia ed io non osavo. Mica mi era mai successo di stringere tra le braccia una ragazza, e già sentire la sua schiena contro la mia mano mi metteva tutto in subbuglio. Invece lei si stringeva a me tanto da sentirle le tette sul mio petto. Giuro, fa una sacrosanta impressione la prima volta. Comunque la musica cessa ed io sono sicuro di essere piantato in asso, invece quella non mi molla la mano e balliamo altri due lenti. Io cominciavo a sentirmi un tantinello sulle spine, pensando che se quella non mi mollava, sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto confessare di non saper ballare. Secondo me però quella doveva averlo già capito perché, finito l’ultimo lento, mi prende la faccia tra le mani, mi scocca un bacio sulla bocca e torna col gruppo col quale era arrivata.

    Il primo bacio della mia vita. Subito subito, mica me ne sono reso veramente conto. Ero talmente frastornato da nemmeno osare di tornare al mio posto. Allora ho abbandonato la mia gazzosa bevuta a metà ed ho lasciato la sala, imbambolato. Solo quando mi sono trovato per strada ho realizzato. Il ricordo di quelle morbide labbra sulla mia bocca ha fatto sì che per un momento non mi sentissi più invisibile. E mi ha fatto un effetto strano accorgermi di essere esistito per qualcuno, anche se solo per un attimo.

    Nemmeno mio padre e mia madre parevano accorgersi di me. D’accordo, magari mi parlavano, mia madre preparava la tavola per tre, ma mai una volta mi abbiano dato l’impressione di sapere perché diavolo mi avessero messo al mondo. Dentro me cova il sospetto di essere arrivato a rovinare loro la vita, e questa certezza mi ha dato l’impressione di essere come una gobba: ce l’hai perché ce l’hai, ci fai l’abitudine e non ci pensi più. Io però a mio padre e a mia madre ho sempre voluto bene, ma ho l’impressione sia stato un amore a senso unico e non mi ha mai abbandonato. Loro sono morti in un incidente d’auto un anno dopo il bacio e lì ho scoperto cosa significhi essere nella cacca.

    Mio padre non si fidava delle banche, allora teneva nascosti i suoi risparmi tra le lenzuola invernali (d’inverno tra le lenzuola estive). Non ricordo più a quanto ammontasse la somma, ma erano solo i quattro soldi di un poveraccio. Una quindicina di giorni dopo, il suo datore di lavoro mi diede anche il suo stipendio per intero e la liquidazione. Sul momento credetti di avere il tempo di cercarmi un lavoro con calma, invece i soldi si son messi a filare ad una velocità sbalorditiva. Affitto, bollette, cartella delle tasse, spesa del funerale. Insomma, ho dovuto acchiappare il padrone di casa per proporgli di scambiare l’alloggio dei miei con due stanzette all’ultimo piano. Quello ha subito accettato, cosicché ho traslocato e mi sono venuto a trovare sul medesimo pianerottolo dove abitavano Riki e Attila, due miei vecchi compagni di scuola, i quali, da tempo, si sono dimenticati di me e adesso vivono solo dio sa come.

    O almeno poi l’ho saputo e ho visto come si può montare di grado nell’ambiente della mala. A quel tempo il quartiere di San Salvario era già tutto una piaga, una specie di zoo delle razze umane, le più sfrontate e bellicose ci siano al mondo, tanto che nessuno in possesso di una parvenza di dignità voleva più abitare la zona.

    Io non ero tra quelli. Il perché è presto detto, la dignità se la può permettere solo chi ha i soldi in tasca, a meno di non essere un deputato, perché quelli non conoscono neppure la parola, ed io, con le mie settecentomila Lire al mese guadagnate col posto di fattorino che mi ero trovato, potevo leccarmi le dita ad avere una spelonca da trecentomila, altrimenti dove mi sarebbe toccato andare a sbattere? Un’assistente sociale mi aveva trovato alloggio alla Falchera, ma io lavoravo in via Monti, mi sarebbe toccato fare delle levatacce o comprarmi una moto la quale sarebbe durata sino al giorno in cui mi fosse sparita da sotto il naso.

    Poi mi è successo un guaio. Un mattino arrivo al lavoro e vedo Saverio e Sau parlottare con un tizio, lo osservo, ma non ha per niente l’aspetto del cliente, tuttavia, essendo tutti tipi piuttosto rozzi, da meccanici d’auto quali sono, non mi preoccupo troppo e mi avvicino. Il tizio sta parlando della sirena antifurto, dice di non servire a un bel niente, chiede a Saverio di aprire la serranda e, come quello apre, lui si precipita dentro, si guarda attorno, balza sul bancone con un pezzo di reggetta di metallo (serve a chiudere i pacchi inviati per corriere), e la infila nell’antifurto. Nemmeno un minuto ci ha impiegato quello, e la sirena non suona. Capita l’antifona, mi infilo tra gli scaffali e cerco qualcosa per occuparmi.

    Quello era l’inizio del guaio e si rivela come tale una settimana dopo, quando Sau mi chiede di andare a fare un carico. Con lui c’era un ragazzo pari pari a Riki e Attila, sale sul furgone e aspetta che io mi avvii. Quello non dice una parola per tutto il percorso. Si limita a chiedermi se so la strada per il Mappano e, come dico di sì, chiude il becco e non lo riapre sino a quando abbandona corso Vercelli per passare il viadotto, per poi fermarsi davanti a un bar dove c’è un suo socio in attesa del nostro arrivo. Quello vuole che gli lasci il furgone, io ho paura di vederlo svanire, ma il tizio con me mi dice essere tutto a posto, non devo preoccuparmi, è d’accordo con Sau. Mentre aspettiamo il ritorno del furgone, il tizio mi vuole offrire da bere, ma io sono troppo agitato e resto a guardarlo ingoiarsi ingordamente dei pesci in carpione. A mettermi in agitazione era il pensiero di essere fermato dalla pula. Se il compare del tizio fosse tornato col furgone, avrei trasportato della roba rubata senza nemmeno uno straccio di fattura. Ci sarebbe solo mancato di farmi fermare dalla pula! Sicuro mi avrebbe imbarcato, perché mi rendevo conto di non poter dire molto e ciò che non avrei potuto dire se lo sarebbero inventato loro. D’altronde me la vedevo bene la faccia di Sau tutta bella stupita mentre diceva: «Giustappunto mi chiedevo a cosa potesse mai servirgli il furgone chiestoci in prestito». Per farla breve, il compare ritorna ed io filo alla ditta, scendo dal furgone e scarico, nel mentre dico a Sau di non contare più su di me la prossima volta, non ho nessuna voglia di mettermi nelle grane. Bene, alla fine del mese mi sono trovato a spasso. Avrei potuto vendicarmi andando a raccontare alla pula cosa avevo visto, ma dei pulotti io non mi fido, così ho preferito passare un paio di settimane a vendere i fornitori della ditta per la quale avevo lavorato. In effetti producevano tutti per la Fiat e, senza che questa ne fosse al corrente, anche per la ditta per cui avevo lavorato, la quale si intascava pezzi di ricambio marchiati col logo Fiat al prezzo delle imitazioni. Gli ho mandato in fumo un bel business che mi ha reso qualche Euro, che intanto era stato inventato per incularci tutti per bene. Però da allora è sempre stata una galera. All’ufficio di collocamento avevo un numero maneggiato solo dagli astronomi, ma io mangio tutti i giorni, le bollette arrivano ogni due mesi, l’affitto una volta al mese e, cazzo, il mio gruzzolo si faceva sempre più sottile. Un po’ mi ha aiutato Sergio, l’unico amico mai avuto. Lui fa le stagioni: l’inverno lo passa in montagna e l’estate al mare. Guadagna tutto sommato bene ed ha un sacco di conoscenze, cosicché si inventa per me il mestiere di custode di ville e, una settimana qui una settimana là, mi riesce di racimolare quanto basta per pagare le spese, ma giusto giusto, talmente giusto che il gruzzolo accumulato in un canto si è sciolto da tempo come una caramella in bocca a un goloso.

    Una sera ero nella mia stamberga in attesa si presentasse un lavoro, quando sento Riki e Attila fare salotto sul balcone. Quelli hanno sempre avuto una paura nera dei microfoni spia, allora quando hanno qualcosa di importante da dirsi si mettono sul balcone. Secondo me a quelli hanno fatto male gli 007 che si sono farciti, ma a me dà la possibilità di conoscere tutti i loro truschini. In questo modo, anni fa li ho sentiti montare un piano da una trentina di milioni. Almeno quella era la cifra da loro cercata per mettersi nel giro della droga, non come spacciatori alla spicciolata, ma come grossisti, e poiché grossisti lo sono diventati, i trenta milioni devono ben averli trovati.

    La vita del grossista di droga però non deve essere di tutto riposo, me ne sono accorto quella sera. Riki si stava lamentando di non poter più andare al nascondiglio, perché aveva l’impressione di avere sempre qualcuno dietro di lui. Però non sapeva se fosse la pula o qualche furbastro deciso a farli fessi. Ne parlarono per un’ora o giù di lì ed io ascoltavo senza fare rumore perché, anche se tenevo la finestra aperta, le gelosie erano chiuse, ma se quelli si fossero accorti di essere spiati, sarebbero stati capaci di farmi nuovo. Comunque cominciavo ad averne le scatole piene delle loro lamentele, così silenzioso mi allontano dalla finestra e mi accendo una cicca. Da dove ero, li sentivo ancora parlare ma non capivo più cosa dicessero, poi a un certo punto il silenzio. Penso si siano detti tutto e siano rientrati in casa, io spengo il mozzicone e sto per andare a prepararmi qualcosa da mangiare, quando sento Attila dire così forte da poterne intendere le parole: «Cazzo, ho trovato». Chiedendomi cosa avesse mai potuto trovare il meschino, quatto quatto mi avvicino alla finestra e resto in ascolto. Essendomi perso un pezzo del dialogo, dapprima fatico a capire cosa Attila dica. È come a teatro, se esci nel bel mezzo dell’atto per fare pipì, quando rientri non capisci più niente di cosa stia succedendo sulla scena. Alle elementari un giorno la scuola ci aveva portati all’Erba per uno spettacolo, a me scappava di fare pipì e quando sono tornato non ho capito più un bel niente. Comunque dopo un po’ capisco. Nel loro nascondiglio ci deve essere una fortuna in biglietti di banca e quelli devono servire per pagare una grossa partita di droga, ma quella tarda ad arrivare e intanto i soldi continuano ad accumularsi. La trovata di Attila consiste nel trovare un nascondiglio temporaneo per i dindi e lui sa dove cacciarli. Riki chiede dove intenda nascondere il malloppo e lì Attila ha dovuto fargli una spiegazione, la quale è proprio come se mi avesse dato una cartina stampata in mano, perché Riki è un po’ tonto, lo era ai tempi della scuola e lo è restato, ben saldo, inamovibile sul suo piedistallo di pochezza intellettuale. Non so perché Attila se lo trascini dietro, ma è così, a volte l’amicizia gioca di questi scherzi, oppure perché vicino a Riki, Attila si sente un gigante, non so, non saprei dire, valli a capire quei due. Comunque quando vado a prepararmi un panino, so già cosa dovrò fare l’indomani. Non conoscendo l’ora in cui i due bischeri intendano mettersi in moto, scendo da Recchia per chiedergli se mi può prestare la bici; quello, dallo stronzo che è, mi fa cascare il catenaccio dall’alto, ma alla fine riesco a farmi affidare il catorcio arrugginito e lo trascino sino all’ultimo piano, lo porto in casa, mi ficco nel letto e penso. Attila ha parlato di piazza Asmara. Dalle sue spiegazioni ho capito dove si trovi, solo non capisco come si possa nascondere un fracco di soldi in una piazza. Non capisco se Attila si sia rincoglionito o voglia far fesso Riki, ad ogni modo deve avere il fuoco al culo. Se la pula si porta Riki in questura, quello, con la strizza che ha di finire in galera, vuota il sacco ancora prima di entrarci. Se lo so io, figuriamoci Attila. Ecco allora venirgli un’idea, manda Riki a spasso, tanto per tener impegnato chi lo fila, nel mentre lui va al nascondiglio e, il tempo di trovare un nuovo rifugio, nasconde il malloppo da qualche parte. Se nel frattempo la pula acchiappa Riki e lui spiffera del nascondiglio, tanto peggio, quello lo trovano vuoto.

    Sì, va bene, ma dove puoi nascondere un sacco di dindi in una piazza? L’idea mi tormenta e mi viene il sospetto che Attila voglia davvero far fesso Riki, ma se davvero volesse farlo fesso gli basterebbe sparire dal panorama coi dindi. Riki, che a malapena riesce a trovare la strada di casa, col cazzo lo ritroverebbe. E poi Attila è furbo, mica per niente continua ad abitare in un posto da morti di fame coabitando con Riki, lo fa per non mettere nessuno in sospetto, cosa che certamente avverrebbe se scegliesse di abitare in una villa lussuosa.

    Io comunque quella faccenda di piazza Asmara non riesco a digerirla, allora mi rivesto e scendo la bici nel cortile, lo attraverso e, come sono in strada, ci monto sopra e via. Piazza Asmara voglio proprio vederla. Sarà perché non sono abituato alla bici, sarà perché quella non ha il cambio, ma io la salita di corso Gabetti devo farmela a piedi. Saranno almeno le tre, e lì intorno non c’è anima viva. Meglio, mi dico, non corro il pericolo di trovarmi davanti Attila. Intanto arrivo nella piazza, ma non capisco proprio come si potrebbe nascondere una cosa qualunque là. Ne faccio il giro e, come mi ritrovo a ridosso delle case, mi accorgo di essere in piazza Hermada. Cazzo!, mi dico, e svicolo sul lato dove la strada inizia a salire la collina, ed eccola lì la mia bella piazza, non devo nemmeno chiedermi dove quel furbone di Attila voglia nascondere il suo tesoro. Me lo trovo di botto proprio lì davanti a me. Oltre la piazza, sul lato destro della val San Martino, delimitata da un muro di mattoni, c’è un cumulo enorme di sabbia. È quella che d’inverno, mescolata al sale, i cantonieri usano spargere sulla strada della collina per evitare il formarsi di placche di ghiaccio, ma siamo nel bel mezzo di maggio e non c’è nessun pericolo di vedere un cantoniere metterci mano. Fatto il giro del cumulo di sabbia, monto sulla bici e mi allontano chiedendomi come ad Attila sia potuto venire in mente proprio quel posto e mi dico che il loro nascondiglio non deve poi essere tanto lontano. Piazza lì il suo tesoro e va alla ricerca di un posto nuovo, magari una cantina o una mansarda, poi gli ci vuole un po’ di tempo per assicurare la porta e, come quella è pronta a resistere ad ogni spallata, torna a recuperare il suo bottino. Sicuro ho qualche ora di tempo a disposizione per alleggerirlo dei dindi e andare... andare dove?, mi chiedo. Non certo a casa mia, dovrei proprio essere tonto per fare una cosa del genere. Da Sergio, mi dico. Mi ha lasciato le chiavi di casa per andare a innaffiargli i fiori. Allora, decido, vado a casa di Sergio poi me ne torno tranquillo tranquillo a casetta e resto a spiare il dramma svolgersi al di là del muro.

    Intanto sono arrivato in fondo a corso Alberto Picco e mi chiedo cosa debba fare sul momento. Non mi va di tornare a casa e poi tra qualche ora mi toccherebbe tornare indietro, magari sono già le quattro e Attila mica può mettersi a scavare buchi nella sabbia in pieno giorno col viavai di macchine che ci deve essere lì intorno. No, di sicuro verrà prima dell’ora in cui la gente comincia ad andare al lavoro. Scommetto con me stesso, al massimo tra un paio d’ore sarà laggiù a scavare un bel buco. Mi guardo attorno e risalgo il vialetto che mena alla Villa della Regina, appoggio la bici contro una pianta e mi siedo a terra. Sono così nervoso da non immaginarmi nemmeno di addormentarmi. Fumo un paio di cicche ma, quando aspetti qualcosa, il tempo è come se rallentasse, mi aspetto persino di sentire il rumore dei freni, come quelli della bici di Recchia, i quali stridono appena li tocchi.

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