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Peggio di ieri e meglio di domani
Peggio di ieri e meglio di domani
Peggio di ieri e meglio di domani
E-book873 pagine10 ore

Peggio di ieri e meglio di domani

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Info su questo ebook

È un romanzo corale narrato in prima persona dai protagonisti, ognuno racconta a suo modo la serie di delitti, centro della storia, mescolandola con episodi della propria vita, a volte tragica, a volte grottesca.
Nonostante le testimonianze di guerre, pulizie etniche e altre bruttezze vissute dai personaggi, gli omicidi del racconto sono la dimostrazione che la malvagità non necessita di grandi scenari.
La storia principale si svolge in una piccola località montana, dove si sospetta la presenza di un pericoloso criminale di guerra. Quando una serie di omicidi sconvolge la serenità del paese è naturale pensare che il colpevole sia lui, ma la vicenda si rivela più intrigata del previsto e per i maldestri e pacifici carabinieri del luogo è un incubo.

 
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2021
ISBN9791220250061
Peggio di ieri e meglio di domani

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    Anteprima del libro

    Peggio di ieri e meglio di domani - Luciano Balzotti

    Luciano Balzotti

    Peggio di ieri

    e meglio di domani

    A mia moglie e ai miei figli

    Venerdì

    05/01/2007

    Voce narrante

    Ivan

    1

    Ivan

    Fa freddo, sarà pure il cinque gennaio, ma fa troppo freddo. La Fiat Uno arranca sulla salita, un tornante dietro l’altro, uno sbuffo dietro l’altro.

    — Su dai, un altro sforzettino!

    Ormai la tratto come una vecchia amante che nonostante mi abbia tradito tante volte, non sono in grado di lasciare. L’amore però non c’entra, è una questione di quattrini e io non ne ho, vorrei farli con la musica ma con quella o si vive da nababbi o si sopravvive. Io neanche sopravvivo, vivo sopra le spalle di mio padre che non fa il musicista, guarda i suoi operai costruire palazzi e ingigantire il suo conto in banca. Ogni volta che mi vede gli vengono le lacrime agli occhi, ma non per l’amore paterno.

    Svolto un altro tornante e la notte cade come una lama di ghigliottina, dando l’impressione che dietro l’angolo sia ancora giorno. La ventola dell’aria è rotta e l’abitacolo è un frigorifero, sta a vedere che tra un po’ nevica, la macchina si ferma e io muoio congelato, il tutto non necessariamente in quest’ordine. Difatti la Fiat inizia a tossire, perde colpi e si ferma, un ultimo scossone tipo cartone animato mi riempie il cuore di tenerezza, poi si blocca. Provo a riaccenderla più volte, niente. Mi innervosisco, do un pugno urlando sul volante e si spengono anche i fari.

    Notte, buio totale, inverno e la prima casa ad almeno cinque chilometri, respiro un paio di volte e con uno sforzo mi calmo. Accosto in retromarcia e piazzo a una decina di metri dietro la macchina uno dei due triangoli che ho nel portabagagli.

    Perché ho due triangoli?

    Guardo l’interno della macchina, ci sono tutti i miei averi: tastiera, computer, sax e ammennicoli vari, impensabile portarsi dietro qualcosa a piedi, forse il portatile? Dopotutto con quel nome. No, non è ancora tardi, meglio sbrigarsi ad arrivare, trovare un aiuto e tornare. Chiudo la macchina e mi avvio sconsolato, poi torno indietro di corsa e do un calcione a uno sportello, urlando con quanto fiato ho in gola ‘Stronza’, mi riavvio zoppicando perché mi sono fatto male.

    Più che vedere la strada sento l’asfalto sotto i piedi, una curva sì e l’altra no si scorgono le luci del paese in lontananza. Ai lati della strada ombre di alberi spogli, cerco di rientrare la testa nel bavero del cappotto mentre scruto il buio, nella paura che spunti all’improvviso qualcosa: un lupo, un licantropo, Dracula o il mostro della laguna nera casualmente in vacanza da queste parti. Come diavolo sono finito qui? La decisione di andare per un paio di mesi nella casa dei miei nonni paterni, non è altro che una fuga. Una fuga dagli ultimi trent’anni della mia vita, di anni ne ho trentadue.

    La mia vita non è stata un susseguirsi di racconti epici, ma solo una sfilza di errori. Ho cominciato a far danni da subito nascendo prematuro, mi hanno detto che ero uno sgorbio orribile, un pollo spennato di appena undici etti. Ho iniziato a parlare tardi, mio padre sostiene che se non lo avessi fatto mai sarebbe stato meglio. Se sono un discreto pianista lo devo a mia madre, per tutta la mia infanzia ha continuato a insistere per farmi seguire da un’insegnante privata. Dopo sei anni di onesto insegnamento, con l’arrivo della mia pubertà, la pazienza della pianista arrivò al capolinea, nonostante una paga oraria degna di un chirurgo si rifiutò di continuare le lezioni.

    — Il ragazzo è dotato ma non si applica, la musica richiede impegno e disciplina. Non posso continuare a perdere tempo e farvi sprecare soldi.

    Quella fu la prima volta che mia madre non prese le mie difese, accettò supinamente il verdetto dell’insegnante di musica, che poi fu lo stesso di tutti i miei professori, sia alle scuole medie sia al liceo. Mai sono riuscito a togliermi di dosso quell’aurea di mediocrità che mi avvolge, anche fisicamente: sono alto poco meno di un metro e ottanta ma peso solo sessantacinque chili, ho i capelli castani e gli occhi marroni. In qualsiasi foto di gruppo per vedermi bisogna cercarmi con calma.

    A diciotto anni, insieme a quattro amici, formai la classica rock band, suonavamo bene. Mettemmo su uno spettacolo di quasi due ore, io scrissi le musiche e facemmo alcuni concerti, ricordo le proteste di mio padre quando pagò l’affitto del teatro e la pubblicità, per uno spettacolo a entrata gratuita. Fu un successo inaspettato e spuntò fuori il solito personaggio modello il gatto e la volpe di Pinocchio, ci disse che avremmo sicuramente sfondato e ci propose un contratto capestro con numerosi concerti in giro per l’Italia. Iniziarono i problemi: uno di noi non voleva abbandonare gli studi, un altro lasciare il lavoro, un altro ancora voleva portarsi la donna. Stavamo cercando un accordo tra noi quando nella cantina, dove facevamo le prove, venne a trovarci un musicista di discreta fama, un cantante di musica leggera odiato dal nostro gruppo. Prese in disparte me e Mauro, il chitarrista, e ci fece la proposta oscena: abbandonare la band e accompagnarlo nel suo prossimo tour estivo. Non parlò di contratti, parlò di soldi, tanti soldi.

    Rifiutai, fu un rifiuto ideologico, figlio dei sogni e di infinite discussioni vertenti su temi quali: L’arte non può essere venduta, La musica una volta composta è di tutti e altre amenità nate con l’adolescenza e morte poco dopo in un triste disincanto. Mauro accettò e il suo tradimento sgretolò il nostro gruppo, la cosa che mi fece più male fu il successo che il cantante fece scopiazzando e rovinando una mia musica, su evidente suggerimento di Mauro. Il brano in questione, con un testo sull’amore universale, diventò un tormentone per un’intera stagione, lo passavano alla televisione e alla radio continuamente, per la strada la canticchiavano anche i bambini, una tortura. Non potevo farci nulla, non avevo i diritti d’autore. Ancora oggi parecchi telefonini la usano come suoneria, provocandomi ogni volta un travaso di bile.

    Abbandonata per qualche tempo la musica tentai diverse facoltà universitarie, cambiando anno dopo anno e litigando ferocemente con mio padre.

    — Ti bocciano agli esami perché studi poco.

    — Non è vero, ho studiato per sette ore al giorno per sei mesi, roba da diventar cretini.

    — Non ci sei diventato, ci sei nato!

    Mio padre non mi sopportava più, al mio ventiseiesimo compleanno mi regalò un appartamento e una rendita mensile appena sufficiente a vivere.

    — Puoi andare a vivere come e con chi ti pare — poi, agitandomi sotto il naso il suo dito indice, grosso e duro come un pestello di mortaio, aggiunse una delle sue famose perle — se vengo a sapere che quello che pare a te non mi pare a me, ti tolgo i coglioni, sempre che tu li abbia.

    Era qualcosa che non mi aspettavo, sembrò che nei miei confronti avesse gettato la spugna anche mio padre. Invece era un’occasione, privilegio di pochi, fare delle scelte senza l’oppressione di trovare un alloggio e i mezzi di sostentamento. Ho fatto le mie scelte, sbagliandole tutte, l’ultima, forse l’errore più doloroso: Marta. La mia compagna aveva deciso che era l’ora di avere un figlio.

    — Sono stato un pessimo figlio, non sarò mai un buon padre?

    — Lo sarai, ti conosco.

    — Fammici pensare.

    Ci sto ancora pensando, lei si è sposata venti giorni fa e non mi ha neanche invitato, lo sono venuto a sapere da amici comuni.

    Un rumore, un fruscio tra gli alberi.

    Non si vede niente, probabilmente un animale, una volpe o un cane. Un altro fruscio, mi sta seguendo, forse è un lupo? Ho sempre pensato che il modo più orribile di morire sia per annegamento, però la possibilità di finire sbranato acquista improvvisamente punti. Scruto nel buio il ciglio della strada fino a trovare un sasso che ricorda quelli che Polifemo scagliò verso la nave di Ulisse, aspetto di risentire il fruscio, poi lo lancio urlando minacciosamente e la cosa fugge via. Ho avuto paura.

    Fa anche un freddo boia e sarò circa a meta strada tra la macchina e le prime case. Inciampo in qualcosa, è un bastone, non proprio da passeggio, è lungo quasi due metri, memore dell’incontro di poco fa, lo raccolgo e come un novello Mosè mi incammino verso la terra promessa. Non ho neanche la speranza che passi qualcuno in automobile, se anche fosse dubito che si fermerebbe a chiedere cosa ci faccio di notte, con un tempo del genere, su una strada di montagna e con un bastone modello ninja in mano. Dopo un quarto d’ora finalmente cominciano ad apparire le prime case.

    Il Paese dove è nato mio padre è diviso in tre blocchi, uno ai lati della strada che lo attraversa da nord a sud; la strada sale fino ad allargarsi per formare la piazza principale e poi ridiscendere dall’altra parte della montagna. Il secondo blocco a est con la rocca medievale, il terzo, la parte più moderna, a ovest. Grazie a qualche deroga a un piano regolatore, forse neanche esistente, e intrallazzi degni della più becera tradizione italiana, qua e là ci sono vari insediamenti o ville faraoniche che deturpano il panorama. La toponomastica annovera Corso Italia, Via Roma, Piazza Garibaldi e altri prodigiosi sfoghi di fantasia. Comunque, per me questo posto è incantato e sono sicuro lo sarebbe per qualsiasi bambino. Visto dall’alto sembra un posto qualsiasi, con le sue stradine e i suoi vicoli, ma visto da dentro sembra un quadro di Escher. Le case, le vecchie e alcune delle più recenti, spesso da un lato hanno una strada in salita e dall’altro una in discesa; che sia una strada, una stradina o un vicolo cieco poco importa, si entra in casa al piano terra, si attraversa la sala da pranzo, e ci si affaccia da una finestra al secondo piano. Le entrate dei palazzi sono spesso due, a diversi livelli, cosicché si può passare alla strada superiore salendo per la tromba delle scale. Il paese vecchio, di origine medioevale, è una spirale culminante con un castello e sotto di questo ci sono le case, poggiate l’una contro l’altra, infilate a forza in spazi angusti, alte e strette, basse e larghe, storte e scavate nella roccia. E tra le case ci sono le scale, scale e ancora scale, sembrano il sistema venoso che tiene in vita tutto, scendono larghe e comode, salgono veloci e ripide, si biforcano per pendenza o direzione, sono lastricate di marmo, di porfido o solo di sassi e cemento. Poi ci sono i cunicoli tra le case affiancate, sono dei budelli che sfociano sulla strada sottostante, a volte stretti anche per un gatto altre abbastanza larghi da passarci dentro, corrono ripidissimi tra le costruzioni, passando sotto buchi che generosamente possiamo definir finestre, forse un antico modo per far scorrere l’acqua piovana e sbarazzarsi dei pochi rifiuti prodotti da una società contadina.

    Immaginate un bambino, fatelo nascondere o provate a rincorrerlo in un posto così, non lo prenderete mai.

    2

    Ivan

    Finalmente inizia l’illuminazione stradale, la civiltà, anche se ogni tre lampioni uno è spento la vista è buona. Mi libero del bastone e supero lo svincolo che porta al cimitero, un pensiero corre ai miei nonni paterni e a una infanzia spensierata. Altri trecento metri e sono nella piazza principale, per strada non c’è nessuno ma da dentro il bar arriva rumore di voci e risa, i vetri appannati dell’entrata segnalano un interno piacevolmente tiepido. Per il freddo non sento più i piedi, credo siano di un colore tra il viola e il grigio, ora entro nel bar ordino un tè caldo e me lo verso nelle scarpe. Dal bar esce un uomo alto e magro, sta per mettersi uno zuccotto di lana sui capelli chiarissimi quando si ferma e mi guarda, sul suo volto dapprima dubbioso appare un sorriso, zoppicando si avvicina tendendomi la mano.

    — Ivan, come stai? Saranno più di dieci anni che non ti fai vivo.

    — Ciao Angelo, ho scelto l’inizio della nuova era glaciale per tornare.

    La stretta di mano diventa un abbraccio mentre mi si accende il ricordo di Angelo, sette o otto anni meno di me e un’infanzia segnata da una zoppia a una gamba. Passavo ogni tanto, nei pomeriggi estivi, a prenderlo al negozio di generi alimentari dei suoi genitori, dove era parcheggiato a leggere fumetti vicino alla cassa. Lo portavo nella comitiva dei grandi, i suoi coetanei non lo volevano tra i piedi, a dieci anni non si può giocare con chi non può correre. Anche se sempre sorridente sapeva di essere d’intralcio e ne soffriva come un cane bastonato. Quasi albino, pelle chiara e pallida, capelli e ciglia quasi bianche e occhi neri come il carbone, un’immagine complessiva inquietante ma un modo di fare di una dolcezza infinita, forse una riparazione di madre natura accortasi di essere stata troppo cattiva. L’abbraccio si scioglie e si trasforma in vigorose pacche sulle spalle, i sorrisi si spengono, lo fisso negli occhi e scorgo la tristezza di una vita difficile. Sto per domandargli qualcosa quando si sente un grido che si trasforma in un urlo soffocato.

    Io e Angelo ci guardiamo per un istante, quanto basta per scorgere nella sua faccia un terrore disperato, poi scatto verso la scalinata che porta a una stradina da dove è partito l’urlo. Dopo pochi metri sono quasi nel buio, qui i lampioni spenti sono la maggioranza, sul lato destro c’è una fila di palazzi in attesa dei turisti estivi, sul sinistro una fila di acacie costeggiano un muro di due metri, oltre il quale ricordo esserci solo la campagna aperta. Rallento, scorgo un corpo accasciato a terra ai piedi di un albero, un lampione acceso più in là illumina un uomo che corre. Non so che fare, mi fermo e mi volto, vedo Angelo che sta faticosamente arrivando, gli indico il corpo.

    — Là. Vai là!

    Poi mi metto a inseguire l’uomo che ormai ha più di venti metri di vantaggio, so che la strada scende fino a ricongiungersi più in basso a quella principale, dalla quale si era biforcata in partenza. Ricordo che questo tratto almeno in inverno non era abitato, ma più avanti c’era perfino un bar. Penso sia meglio chiedere aiuto, dovrei gridare ma mi manca il fiato, poi mi accorgo che qualcuno lo sta già facendo, non è una richiesta d’aiuto ma una sola parola ripetuta, una serie di No che si trasforma in un urlo acutissimo, un sibilo da animale che mi fa accapponare la pelle. Ma che sta accadendo? Sono confuso, perché sto inseguendo quell’uomo, se anche lo prendo che faccio? Non sono un tipo da film d’azione, a Braccio di Ferro perdo anche contro mia sorella.

    L’uomo, che è ancora a una ventina di metri da me, entra in un portone che conduce alla strada superiore, lì si potrà nascondere in altri palazzi facendomi perdere le sue tracce. Non ho tempo di pensare, l’androne è più buio della strada, entro anch’io. Qualcosa mi colpisce alla base del collo sotto un orecchio, sembra un ferro da stiro, ma probabilmente è un pugno. Mi affloscio a terra, mi sembra di sentire uno strano odore che non riconosco, poi devo perdere i sensi per un attimo e non so perché vedo la scena della crocifissione in Jesus Christ Superstar, ma al posto del Cristo c’è Dumbo.

    Quando mi riprendo sento il mio assalitore che sale le scale, per oggi sono stanco di fare l’eroe, mi alzo massaggiandomi il collo ed esco dal portone tornando indietro mestamente. Avrò corso sì e no per cento metri ma ho l’affanno, dal primo grido sarà passato neanche un minuto ma in alto comincia a radunarsi gente. Mi arrivano voci concitate, qualcuno urla di fare luce e chiamare i carabinieri, arranco per la salita e mi unisco al gruppo di uomini disposti a semicerchio, sento ripetere il nome di Elisa. Tutti guardano Angelo che seduto a terra stringe tra le braccia una ragazza, il buio impedisce di comprendere cosa sia successo, si sentono solo i singhiozzi di Angelo che accarezza la testa della ragazza, dondolandola come si fa per addormentare un bimbo. Vediamo arrivare dal fondo della strada un’automobile, è la camionetta dei carabinieri, doveva già essere in zona. La folla si apre e i fari della camionetta illuminano la scena. Quello che mi colpisce di più è l’improvviso silenzio, pochi secondi, interminabili. Tutti zitti, parla solo l’orrore, non si sente fuori, ci sta urlando dentro.

    Angelo e la ragazza sono imbrattati di sangue fino all’inverosimile, non so dove la ragazza sia stata ferita, ma lui deve aver tentato di fermare il sangue con le mani per poi mettersele tra i capelli. Una bestemmia rompe il silenzio, Angelo che fino a ora aveva la testa appoggiata a quella della ragazza la alza, un misto di sangue, lacrime e bava cola dal suo mento. La testa di lei si abbandona sulle braccia di lui, rivelando uno squarcio sulla gola così profondo ed esteso da mostrare chiaramente il suo interno, si sente qualcuno vomitare.

    — Cristo! L’ha scannata.

    Vedo un carabiniere, con la pistola in mano puntata su Angelo.

    — Non ti muovere — urla.

    A questo punto non mi resta che intervenire.

    — Scusate, ma non è come sembra.

    Tutti si voltano a guardarmi, si accorgono che sono uno sconosciuto e si allontanano. Il carabiniere ora punta la pistola su di me.

    — E tu chi cazzo sei?

    Temo che adesso mi spari, non credo che sia all’altezza della situazione, non lo sono neanche io.

    — Guardi, che a fare quel macello non è stato Angelo.

    — Chi cazzo sei? — Urla di nuovo, la pistola gli trema nella mano.

    Sto per morire ne sono certo, da come trema, però, anche se spara forse mi manca. Mi guardo intorno ottenendo solo che tutti si allontanino ancora di più da me, poi dalla camionetta esce un altro carabiniere molto più giovane del primo, gli si avvicina e delicatamente gli mette una mano sulla pistola fino a farla puntare a terra.

    — Chiama un’ambulanza e avverti il maresciallo.

    L’altro lo guarda smarrito, poi rientra in macchina sempre con la pistola in mano. Il secondo carabiniere ha una macchina fotografica, scatta velocemente delle foto, poi si avvicina ad Angelo stando attento a dove mette i piedi e gli parla con una calma surreale.

    — Cosa è successo?

    — Non ho potuto fare niente, niente. Quel bastardo la deve pagare — la voce sembra fatta di solo odio.

    — Io e Angelo — intervengo di nuovo — siamo stati i primi ad accorrere dopo aver sentito le urla. Ho visto un uomo che scappava e l’ho inseguito, ma aveva troppo vantaggio, si è infilato in un portone più avanti e l’ho perso.

    Il carabiniere non mi presta attenzione ma delicatamente aiuta Angelo ad alzarsi e adagiare il cadavere a terra, poi scatta altre foto, infine si volta verso me.

    — Scusi, non la conosco.

    Ho sempre provato un po’ di imbarazzo a dire il mio nome, specialmente a scriverlo.

    — Mi chiamo Ivan Navi, mio padre è originario del paese — aggiungo, forse per non sembrare un assassino di passaggio.

    Il mio nome ottiene un buon effetto, quasi mi fossi tolto una maschera, tutti i presenti sembrano riconoscermi e si avvicinano. Inizia una serie di convenevoli, strette di mano e frasi di circostanza a dir poco fuori luogo. Il giovane milite intanto con del nastro e appigli di fortuna sta delimitando la zona del crimine facendo spostare, a fatica, tutti di una decina di metri verso la parte alta della strada. Al centro dello spiazzo illuminato rimane solo il cadavere e Angelo, che preso un fazzoletto da una tasca invece di pulirsi la faccia imbrattata di sangue si china sulla morta e comincia a pulirle il volto.

    — Ehi fermo! Non toccare più niente.

    Gli urla il carabiniere, ma lui finisce di pulire il viso della ragazza, poi la bacia sulla fronte lasciandole uno segno rosso. Solo allora si guarda le mani incredulo e capisce di essere anche lui coperto di sangue, ha un violento fremito e ricomincia a piangere, ormai ha perso ogni controllo.

    Arrivano di corsa due uomini, uno oltre i cinquanta anni l’altro intorno ai quaranta, non sono in divisa ma dai commenti dei presenti capisco che il più anziano è il maresciallo, mentre l’altro è sconosciuto a tutti. I due entrano nella zona delimitata e cominciano a parlottare con il giovane carabiniere, nonostante non si senta nulla si intuisce che il giovane sta esponendo i fatti. Durante il racconto lo sconosciuto si volta prima verso Angelo, poi verso me e infine verso la camionetta dove è ancora l’altro carabiniere, fa cenni di assenso con la testa, il rapporto del milite deve essere stato soddisfacente. L’uomo prende da una tasca del suo lussuoso cappotto un cellulare, chiede qualcosa al maresciallo e comincia a fare rapide telefonate. Dopo neanche un minuto arriva di corsa un uomo con una bottiglia di brandy e un bicchiere, si ferma davanti al nastro incerto sul da farsi, lo sconosciuto, smesso di telefonare, mi chiama.

    — Navi! Sì lei, Navi. Mi porti per favore la bottiglia e il bicchiere?

    Faccio quello che mi ha chiesto, lui si versa un’abbondante dose di liquore e si avvicina ad Angelo che continua a singhiozzare ai piedi del cadavere.

    — Bevi! Coraggio.

    — Sono astemio.

    — Meglio.

    Angelo beve tutto con un solo sorso, un brivido gli scuote il corpo, si soffia rumorosamente il naso in un fazzoletto insanguinato e se non altro smette di piangere. L'uomo fa allontanare Angelo dalla vittima e lo porta vicino a me e mi riconsegna il bicchiere togliendolo dalle mani di Angelo.

    — Abiti lontano? — Chiede lo sconosciuto ad Angelo.

    — No, proprio alla fine di questa strada — risponde mormorando lui.

    L’uomo va alla camionetta e parla a bassa voce con il carabiniere pistolero.

    — Su Costanzo, scendi dalla macchina — dice infine ad alta voce.

    Costanzo ha la faccia stravolta, il maresciallo gli si avvicina, forse per sorreggerlo, ma l’uomo dopo un lungo respiro fa un cenno come dire Sto bene!

    — Accompagna il ragazzo alla sua abitazione — gli dice lo sconosciuto, — fallo cambiare e prendi in custodia i suoi abiti sporchi. Appena possibile ti raggiungeremo, magari con un medico.

    Angelo sembra riluttante a lasciare il cadavere della vittima, ma dopo un ultimo sguardo si incammina lentamente con Costanzo.

    — Tu, Petri — continua lo sconosciuto rivolgendosi all’altro carabiniere — vai nel palazzo dove è entrato l’assassino e cerca di non fare entrare o uscire nessuno dagli appartamenti. Stai attento, se possibile ti mandiamo rinforzi.

    Poi fa un cenno al maresciallo che entra nella camionetta forse per chiedere altro personale. Lo sconosciuto deve essere il militare col grado più alto, in ogni caso è lui che comanda.

    — E ora lei.

    L’uomo con un tocco leggero su un braccio mi allontana dove non possono sentirci.

    — Lei ha inseguito l’assassino?

    — Beh, sì!

    Mi dà un’occhiata dall’alto in basso poi esclama un ‘Mah!’ pieno di perplessità.

    — Di grazia, lei mi sembra leggerino e di piè veloce, come ha fatto a farselo sfuggire? Nella sua voce non c’è ironia, forse.

    — Non mi è sfuggito, solo che è stato lui a prendere me. Mi ha aspettato in un portone e mi ha atterrato, è bastato un pugno qui, tra capo e collo. Sa, io sono leggerino.

    — Lei non è solo leggero ma anche assistito dalla buona sorte.

    — E perché mai?

    — Invece del pugno poteva far uso del coltello.

    Ammutolisco, credo anche di essere impallidito. Mi fa mostrare il punto dove sono stato colpito.

    — Saprebbe riconoscerlo? — Mi domanda mentre continua a guardarmi il collo.

    — No!

    — È sicuro che l’assassino lo sappia? — Capisco subito il doppio senso.

    — Cristo!

    — Riporti la bottiglia e il bicchiere al barista. Le do un consiglio: vada in mezzo a quella gente e racconti tutto, in modo speciale il fatto di non poter identificare nessuno. Quando è sicuro di aver convinto anche i sassi torni qui e vedremo se potrò lasciarla andare a casa a dormire. Mi raccomando, non prima di essersi assicurato di aver chiuso bene porte e finestre.

    Sono perplesso, la mancanza di tatto è sconfortante, ma il consiglio sembra ragionevole. Appena superato il nastro di delimitazione riconsegno bottiglia e bicchiere e rispondo con solerzia alle domande della piccola folla. La maggior parte di loro è arrivata di corsa dal bar senza mettersi nessun soprabito addosso, devono sentire un freddo cane, ma non accennano ad andarsene. Ripeto più volte che il buio non mi ha permesso di vedere bene l’assassino, di non poter riconoscerlo, di non aver fatto caso a che abiti indossasse e perfino di non essere certo se fosse un uomo o una donna.

    Capito che da me non avrebbero cavato altro, la loro curiosità si sposta sul misterioso tipo che sembra comandare tutti, visto che nessuno lo conosce si fanno ipotesi.

    — È un tenente o un capitano dei carabinieri.

    — Con quel cappotto minimo è un generale

    — Forse è dell’FBI.

    — Cambia canale deficiente!

    — Forse è un Giudice — e altro ancora.

    Vengo a sapere che la morta si chiamava Elisa Meucci, il nome non mi ricorda nessuno, mi dicono che era una bellissima ragazza bionda, unica figlia di madre nubile. Pietosi sono i commenti verso la madre, che l’aveva cresciuta orgogliosamente da sola davanti agli sguardi scandalizzati dei paesani. Pietà pelosa di una morale causa essa stessa del male verso cui misericordiosa ora si volge.

    Tutti i presenti ammutoliscono quando, dal fondo della via, si sente una donna che con voce straziata invoca il nome di Elisa. Il maresciallo le va incontro cercando di bloccarla, insieme a lei ci sono altre due donne che cercano invano di aiutare il maresciallo. Come potrebbe una madre sopportare quello scempio. L’improbabile agente dell’FBI osserva la scena, si gira verso la folla e fa un gesto che chiaramente indica che lo spettacolo è finito, poi entra dentro la camionetta e spegne i fari.

    Sabato

    06/01/2007

    Voce narrante

    Benedetto

    3

    Benedetto

    Come si può officiare la Santa Messa pensando ad altro? Come si può?

    Dopo quello che è successo ieri sera la chiesa era quasi piena, i fedeli sono venuti di prima mattina a chiedere risposte a Te, Signore. Risposte alle loro domande, conforto per le loro paure, e Tu avresti dovuto parlare attraverso me.

    Ma io, mentre celebravo la Santa Messa, ero con la mente da un’altra parte, ho fatto quello che faccio da anni, sapendo di non poter sbagliare, nell’omelia sono stato capace solo di chiedere a tutti di stare vicini ad Annamaria, la madre che ieri ha perso così tragicamente la sua unica figlia. Poi mi si è chiusa la gola e non sono stato capace di aggiungere altro, Ti prego, non farmi di nuovo perdere la ragione, il Male mi segue da prima della mia nascita. Ho avuto fede in Te Signore, quando Satana sembrava aver trionfato su Te e i Tuoi servi. Solo la fede mi ha permesso di far uscire la mia mente dal buio nel quale si era rifugiata per quello che avevo visto. Mi ha aiutato la fede in Te e l’amore delle persone vicine, e ora proprio da una di queste il sangue torna a sgorgare. Non ce la faccio ho paura che possa ricominciare, sono passati oltre dieci anni ma l’incubo non è stato cancellato, era solo nascosto nella mia mente neanche troppo bene, ora sta tornando chiaro davanti ai miei occhi.

    Il Tuo volere, Signore, mi spedì in una missione in Africa il quarto anno di seminario, in quei bellissimi giorni vidi i sacerdoti portare insieme al Cristo, cibo, assistenza sanitaria e istruzione, ne rimasi affascinato. Appena presi i voti chiesi di poter andare in una qualunque missione Africana, i giovani sono pieni di buoni propositi, ma prima di buttarli in un girone dell’inferno è meglio farli maturare un po’. Io aspettai, ma per certe cose non esiste preparazione.

    Arrivai in Ruanda nel 1992, proprio mentre Dio se ne stava andando.

    Ero un giovane prete cattolico, un missionario? No, è una parola troppo grande e non ero neanche troppo giovane, avevo più di trenta anni ma l’entusiasmo di un bambino. Non dovevo andare precisamente in Ruanda, ma una serie di circostanze mi portarono là. Pensai che Dio avesse disposto così per facilitare l’azione pastorale di un giovane prete, in Ruanda l’80% della popolazione è Cristiana. Non si può dire che non sapevo nulla dei Tutsi e degli Hutu, ero stato informato, ma informato male. Sembrava assurda questa storia di razzismo tra neri, per giunta della stessa religione. Sarebbe bastato spiegare l’unico comandamento del Cristo: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Ma la mia pelle è bianca e in quelle terre è stato proprio l’arrivo di quelli come me a far finire tutto in tragedia. Li abbiamo sfruttati dicendo di portare la civiltà, lo facciamo ancora dicendo di portare la democrazia.

    Nella seconda metà dell’ottocento arrivarono i tedeschi e dopo, nel 1924, i belgi. Al Belgio il Ruanda fu affidato con un mandato della Società delle Nazioni, che altro non era se non l’ONU di allora che già cominciava a fare danni. I belgi instaurarono un regime basato sulla fisiognomica e i Tutsi, in media più alti, furono considerati una razza superiore, solo loro potevano studiare e fare da intermediari tra i colonialisti e le razze inferiori, tra cui i Pigmei che erano il 2% della popolazione, considerati in pratica scimmie. Nel 1933 si toccò il fondo inserendo nelle carte di identità la razza di appartenenza. È forse paradossale fare un paragone con quello che succedeva in Germania? Dopo i lager nazisti era poi così difficile prevedere cosa sarebbe successo in Ruanda? No, non era difficile e il tempo per evitarlo c’è stato, invece alla fine degli anni ’50 la situazione non era più contenibile ed esplose. La maggioranza Hutu si mobilitò incolpando delle politiche di sfruttamento coloniale i Tutsi, nel tentativo di rimanere al potere i Tutsi adottarono una politica di indipendenza dal Belgio che, con un voltafaccia poco intelligente, appoggiò gli Hutu. Questi ultimi, dopo anni di angherie, cacciarono dal paese buona parte dei Tutsi e ottennero l’indipendenza dal Belgio che li aveva sostenuti. Cinquanta anni di colonialismo erano riusciti a cancellare cinquecento anni di pacifica convivenza. Il seguito è stata una lenta discesa all’inferno, una meticolosa preparazione all’orrore finale. Il susseguirsi degli eventi e una lezione di storia.

    Aumentarono i raid assassini contro i Tutsi rimasti e i paesi confinanti furono destabilizzati dalla massa dei profughi in fuga. Una serie di massacri furono compiuti dai Tutzi ai confini, nel tentativo di rientrare in patria. Seguì un colpo di stato, la democrazia col Partito Unico e un decalogo del Buon Hutu, nel quale si vietavano i matrimoni misti e gli affari con l’altra razza.

    Ama il prossimo tuo come te stesso.

    L’arrivo di una crisi economica aumentò la povertà e il partito unico non riuscì più a soffocare gli oppositori. I Tutsi, organizzatisi in Burundi nel Fronte patriottico Ruandese, provarono a rientrare in patria con la forza. La comunità internazionale impose una pace farsesca tra i contendenti, un prossimo rientro dei profughi e la fine del Partito Unico. Fiorirono così svariati movimenti di opposizione politica, gli uomini al potere cercarono un modo per resistere e purtroppo lo trovarono. Nacque la: Radio Libera delle Mille Colline, comunemente detta Radio Machete, che incitava a liberarsi degli scarafaggi Tutsi, responsabili dei massacri al nord del paese. Vennero importati dalla Cina migliaia di machete per armare delle milizie irregolari, le armi da fuoco costavano troppo.

    Ama il prossimo tuo come te stesso.

    Si crearono le liste delle persone da eliminare, i primi erano gli oppositori politici, non tutti Tutsi, mancava solo una scintilla. Il 6 aprile 1994 venne abbattuto l’aereo presidenziale, con il presidente morirono anche la civiltà e la ragione. Il Male trionfò sotto gli occhi inorriditi di Dio. La prima lista era di 1500 uomini, ma ormai l’orrore era iniziato e continuò per 100 giorni con più di un milione di morti. La radio o gente con megafoni leggeva i nomi delle future vittime, le quali potevano avere salva la vita dei figli se si presentavano spontaneamente. La propaganda razziale incitava alla violenza carnale prima dell’uccisione delle donne. Alla fine i superstiti, sia vittime sia carnefici, rimasero mutilati nel fisico o nella psiche.

    Ama il prossimo tuo come te stesso.

    A chi dare la colpa?

    Al Belgio e alla sua politica razzista?

    Alla Francia? Consiglieri militari francesi erano presenti anche durante i massacri, c’è chi ha giurato di averli visti insegnare a mutilare velocemente un corpo umano. L’intervento tardivo dello stesso esercito francese fermò sì l’eccidio, ma permise ai suoi pianificatori di fuggire in Congo prima dell’arrivo dell’esercito del Fronte Patriottico Ruandese.

    All’ONU? Quando il comandante delle forze ONU presenti in Ruanda venne a sapere delle liste di proscrizione e che qualcuno nell’esercito si vantava di poter uccidere 1000 uomini in 20 minuti, chiese aiuto al Dipartimento per le Missioni di Pace, ma a New York venne insabbiato tutto.

    Ai trafficanti di armi? Loro fecero affari con il governo Ruandese e con i profughi scappati in Burundi, fino a farli diventare un esercito. Chissà se stanno tentando di fare la stessa cosa con i profughi Hutu fuggiti nel Congo, pregustando una golosa e terrificante ripetizione a parti invertite.

    Alla Chiesa? Le colpe della Chiesa le ho imparate e sofferte.

    4

    Benedetto

    Arrivai in Ruanda nel 1992, proprio mentre Dio se ne stava andando.

    Risiedevo in un centro religioso non molto lontano dal lago Kivu, i miei doveri erano solo quelli di ambientarmi e rendermi utile. A poche centinaia di metri dal centro abitato c’era la scuola elementare da noi gestita; la comunità risiedeva in un altro edificio di due piani. Una parte di quello a terra era adibito a chiesa, poi c’erano la cucina e la sala mensa, al piano superiore la biblioteca e i dormitori per i seminaristi.

    Passavo tutto il mio tempo in pochi metri quadrati e difficilmente mi recavo in paese, uscivo solo la mattina presto per allenarmi alla corsa, una mia passione. Correvo per circa un’ora sulla strada che costeggiava la foresta, la quale distava meno di un chilometro dalla chiesa. Non avevo ancora fatto amicizia con nessuno, la mia compagnia preferita era François: il parroco. François era un sacerdote del posto, un uomo enorme, gioviale e con una risata animalesca da far tremare i muri. Per le sue dimensioni era soprannominato Kong e lui spesso si divertiva a battersi i pugni sul petto come i gorilla. Sembrava una sistemazione idilliaca, non potevo sospettare quello che avrei visto. Dopo un po’ però cominciai ad avvertire un senso di disagio, l’esercito era diventato una presenza costante, sembrava che i soldati fossero centuplicati. Anche se ormai ero abbastanza cosciente della situazione, chiesi un parere a François.

    — Devi sapere che siamo in guerra da due anni. Due anni di stragi nel nord del paese e questo accordo di pace non soddisfa nessuno. Il prezzo del caffè è crollato e con lui la nostra economia. La guerra e la povertà non portano certo il buonumore.

    — Ma ci sono più soldati in giro di prima e la radio dice cose orribili, forse dovremmo fare qualcosa, sta a noi contrastare questa propaganda di odio.

    — La combattiamo tutti i giorni, noi non facciamo differenza tra le razze e lo testimoniamo vivendo insieme. Tu sei bianco e io sono nero, nel convento vivono in pace sia gli Hutu che i Tutsi.

    — Sì, ma di bianco ci sono solo io, e di Tutsi c’è un solo seminarista.

    — Ma la domenica mattina la Chiesa è piena e non mi sembra che ci siano banchi separati secondo la razza di appartenenza. Le parole e la propaganda sono una cosa, le azioni e le testimonianze di vita sono un’altra.

    Si batté i pugni sul petto montando una faccia da gorilla inferocito, per poi scoppiare in una fragorosa e coinvolgente risata.

    Ero felice di essere là, ma qualcosa di brutto era nell’aria.

    Un pomeriggio fui richiamato da dei rumori provenienti dalla cucina, mi trovai di fronte due seminaristi: Bernard e Paul, uno impugnava un enorme coltello da cucina, l’altro un coperchio di una pentola a mo’ di scudo, era una scena surreale, una parodia di un duello gladiatorio. Rimasi a bocca aperta incapace di muovermi, li guardai danzare come galli da combattimento, tra finte di attacco, grugniti e sguardi che lanciavano fulmini di odio. Dovevano aver cominciato a mani nude, Paul, quello con il coltello-gladio, aveva la faccia sanguinante da più punti che già cominciavano a gonfiarsi, doveva aver preso l’arma per non essere ammazzato a pugni. Bernard si teneva a debita distanza, tentando di non inciampare in alcune sedie rovesciate e di non perdere d’occhio il rivale, il quale dopo un paio di finte urlò e lasciò partire un fendente, mirando alla base del collo dell’avversario. Bernard si dimostrò molto abile, non tentò di parare il colpo, ma si abbassò come fanno i pugili per schivare i ganci al volto. Il coltello partito per decapitarlo passò sopra la sua testa, come un fulmine lui fece un passo in avanti infilandosi sotto il braccio ancora teso di Paul e gli sferrò un pugno al fianco. Prima che a Paul si piegassero le ginocchia, Bernard era di nuovo in guardia pronto a un eventuale nuovo attacco.

    — Mio Dio! Fermi cosa fate.

    Il mio urlo ruppe la concentrazione di Bernard che abbassò le braccia.

    Tolsi il coltello dalle mani di Paul e lo scagliai il più lontano possibile e lo aiutai a rialzarsi, ma si accasciò di nuovo, aveva difficoltà a stare in piedi e a respirare nello stesso tempo.

    — Cosa è successo? — Domandai, mi rispose Bernard ancora con il coperchio in mano.

    — Paul ha fatto piangere Jean Baptiste, ho perso la calma e l’ho picchiato.

    — Non mi dire che anche Jean Baptiste ha fatto a pugni.

    — No, lui — indicò Paul — gli ha detto davanti a tutti che non vogliamo scarafaggi tra noi.

    Paul, con uno sforzo riuscì a mettersi in piedi, fece un paio di brevi respiri e sibilò verso Bernard con un filo di voce

    — Sei morto, bastardo.

    Sembrò la promessa di un serpente, poi uscì lentamente dalla cucina con la faccia imbrattata di sangue e una mano su un fianco.

    Jean Baptiste era l’unico Tutsi presente in convento.

    Nei giorni seguenti regnò una calma surreale, tutti facevano quello che dovevano con solerzia e precisione. Paul aveva detto di essere caduto sulle scale e tutti avevano fatto finta di credergli, anche François, che però poi aveva fatto una lunga passeggiata con lui fuori dal convento. Bernard era sempre vicino a Jean Baptiste, gli altri tendevano a isolarli, bastarono pochi giorni per notare dei sorrisetti di scherno nei loro confronti da parte degli altri seminaristi. Quei sorrisi stavano a indicare che tra i due stava accadendo la cosa più temuta dai direttori spirituali dei seminari, quella che viene definita: turba dell’affettività o della sessualità.

    Bernard era sempre calmo, allegro, massiccio di corporatura, Jean Baptiste di contro esile e introverso, facile alla malinconia e dai lineamenti fanciulleschi. Gli anni del seminario sono duri riguardo la continenza sessuale dei futuri sacerdoti, ogni tendenza omosessuale emerge grazie alla giovane età e alla vita in comune. Un giovane seminarista con una femminilità latente, sia essa mostrata o repressa, è una mina vagante in mezzo agli altri. Prima o poi ci sarà qualcuno, provato dalla continenza, che cercherà morbosamente la parte femminile dell’altro fino a rompere un difficile equilibrio.

    Però in questo caso qualcosa non mi quadrava, sì, Jean Baptiste era di una bellezza particolare, ma certamente questo non vuol dire niente, il suo comportamento era normalissimo, anzi aveva una vocazione ferrea, se avessi dovuto scegliere tra i seminaristi il miglior sacerdote futuro, avrei scelto lui. Bernard in un rapporto omosessuale proprio non lo vedevo, troppo spontaneo e diretto, se si fosse accorto di non poter fare a meno del sesso, in qualunque forma, ne avrebbe preso atto e avrebbe abbandonato la vita religiosa. Forse erano solo dicerie, fatte girare da Paul come vendetta sull’odiato Tutsi e su chi lo aveva picchiato, ma Paul era un ragazzo veramente ottuso per escogitare una vendetta simile, se l’odio acceca la mente, la sua doveva averla spenta. Le cose che avvennero nei giorni seguenti fugarono tutti i miei dubbi.

    5

    Benedetto

    Una mattina, poco dopo l’alba, una pattuglia di cinque militari si presentò da noi, non fu una visita di cortesia. Con un’arroganza incredibile ci radunarono tutti in sala mensa e a uno a uno controllarono i documenti, prendendo nota dei dati personali, arrivati a Jean Baptiste due di loro sputarono a terra. Dopo averci schedati il loro capo ordinò a me e a François di seguirlo, entrò in chiesa armato, incurante della sacralità del luogo.

    — Se fossi in lei, andrei via da questo posto — disse guardandomi dritto negli occhi.

    — Dio a voluto portarmi qui e solo Dio potrà portarmi via.

    Non disse altro, con un gesto mi invitò a lasciarlo solo con François, me ne andai con il dubbio se mi avesse minacciato o dato solo un buon consiglio.

    Quel giorno stesso Bernard mi disse che lui e Jean Baptiste volevano parlarmi, da soli.

    — Nessuno dovrà vederci o ascoltarci.

    — Qualsiasi problema affligga i vostri cuori, i fratelli saranno lieti di aiutarvi a sostenerne il peso, perché confidarsi solo con me?

    Mi pentii subito di quelle parole, se il problema era l’omosessualità, il loro riserbo era logico e anche appropriato. Lui mi guardò come si guarda un pazzo, tra lo stupore e l’accondiscendenza.

    — Lei padre Benedetto o è cieco, o il mondo da cui viene è veramente troppo lontano. Oggi subito dopo il pranzo faccia una passeggiata verso la foresta, non si addentri, la troveremo noi.

    Passai quelle poche ore prima dell’appuntamento a cercare parole delicate ma ferme, per dire ai due ragazzi che la pratica dell’omosessualità è assolutamente vietata dalla Chiesa, mi preparai un discorso che partiva dai disordini sessuali per arrivare a quelli morali, un classico del catechismo cristiano. Non mi aspettavo neanche lontanamente cosa avrebbero detto, sciocco io e sciocchi loro a credere che il colore della mia pelle avesse qualche potere contro tutto il Male che sarebbe arrivato. Ci incontrammo nel primo pomeriggio in una radura poco all’interno della foresta, dopo un minuto di silenzio e imbarazzo cominciò a parlare Jean Baptiste, una voce calma ma non piatta, la voce di chi sa cosa dice e ci crede.

    — Lei è in questo paese da poco, non può rendersi conto cosa vuol dire crescere nell’odio, né può sapere cosa stia accadendo. Sa cosa sono venuti a fare ieri i militari?

    — No, penso siano venuti a dimostrare la loro presunta supremazia del terreno sullo spirituale. Un atto di forza, arrogante e inutile.

    Jean Baptiste mi interruppe alzando una mano, un semplice gesto accompagnato da uno sguardo compassionevole. Lo sguardo che un padre rivolge a un figlio che sta dicendo un mare di corbellerie, uno sguardo di amore. Davanti a quegli occhi rimasi in silenzio, pendevo dalle sue labbra, che grande sacerdote sarebbe diventato! Lui senza cambiare tono della voce mi rivelò la sua verità.

    — Sono venuti per decidere chi devono uccidere.

    — Ma che dici? Sono militari, non una banda di assassini, poi spiegami chi dovrebbe morire e perché.

    Ero incredulo, ma purtroppo in fondo alla mia anima cominciò a formarsi un dubbio, ad aprirsi un varco che non portava luce ma tenebra.

    — Per primi morranno i Tutsi poi chi si oppone al regime, o forse il contrario, che importa.

    — Come fai a dire questo, che prove hai?

    A rispondere fu Bernard.

    — Un mio zio lavora alla sede ONU di Kigali. Mi è arrivata due settimane fa una sua lettera, dice che sono venuti a sapere di liste con migliaia di cittadini da eliminare. Sono notizie talmente certe che il capo militare dell’ONU ha chiesto rinforzi per evitare un massacro, ma le schedature continuano, lo hai visto anche tu.

    — Ragazzi suvvia! Perché credere a tuo zio, poi dov’è la lettera?

    — Primo perché mio zio non è pazzo, secondo è una lettera molto dettagliata, puoi leggerla.

    Bernard mi passò due fogli di carta scritti a mano su carta intestata ONU. Oltre a quanto già detto si parlava di squadroni della morte, di importazione di armi bianche dalla Cina e di una pianificazione minuziosa per le prime 1000 esecuzioni, da compiere in meno di mezz’ora. All’ONU sapevano cosa sarebbe successo. La lettera si chiudeva con la supplica a Bernard di allontanarsi da qualsiasi Tutsi. Ero sconvolto, non poteva essere vero.

    — Anche se fosse vero, adesso che l’ONU sa, interverrà per impedirlo. Qui siamo quasi tutti cristiani, non ci ammazzeremo tra fratelli, la Chiesa e Dio non lo permetteranno.

    Silenzio. Solo gli sguardi di due ragazzi che mi fecero sentire già vecchio e inappropriato per questo mondo.

    — Perché venite a dirmi questo, cosa posso fare?

    — Noi siamo già morti, — mi rispose Jean Baptiste — io come Tutsi, Bernard come mio amico. Abbiamo deciso di non ribellarci con la forza o di scappare, Cristo ci ha insegnato che tutti gli uomini sono uguali tra loro, ogni discriminazione è contro il suo insegnamento, preferiremmo vivere ma morire per queste idee, per questa fede, non ci spaventa. Non è il nostro destino che ci opprime ma quello della Chiesa, per questo ti vogliamo parlare. Cosa ha fatto la Chiesa in questo paese per rispettare gli insegnamenti di Cristo? Prima si è adagiata al potere coloniale, non opponendosi alle discriminazioni razziali, dopo le ha anche favorite. Ha appoggiato la politica di equilibrio etnico che nulla ha di democratico, anzi è razzismo nudo e crudo, si è passati dalla denigrazione alla deumanizzazione, uccidere un Tutsi oggi è come uccidere un Indios americano agli inizi del 1500. Qui l’ottanta per cento della popolazione è cristiana, ma cosa ha fatto la Chiesa per contrastare il razzismo? Lo sai che solo il 4 per cento dei seminaristi è di etnia Tutsi? Lo sai che nei documenti scolastici, delle scuole gestite dalla Chiesa, è indicato ben chiaro il gruppo etnico di provenienza? Sono quaranta anni che la classe dirigente di questo paese viene formata nelle scuole gestite da sacerdoti, ebbene questa classe dirigente è educata al più becero razzismo. No, la Chiesa ruandese non è stata solo vassalla del sistema politico, ne è stata complice. Si sono levate alcune voci di protesta, ma non sono riuscite a uscire dall’ambito della chiesa locale, qui la Chiesa è malata, siamo certi che in Vaticano ben pochi lo sanno. Se veramente noi moriremo tu sarai libero di tornare a Roma, una voce, anche se non autorevole, è pur sempre meglio del silenzio. Questo è quello che ti chiediamo.

    Rimasi a guardarli senza riuscire a parlare per più di un minuto.

    — Mi state chiedendo di diffamare la Chiesa ruandese, non l’accetto, la vostra analisi è superficiale. La stessa vita in comune che conducete nel seminario è la prova di una pacifica convivenza tra Hutu e Tutsi, proprio nell’ambito delle comunità religiose.

    Purtroppo non credevo neanch’io in quello che avevo appena detto.

    — Pensi che l’essere accusati di omosessualità sia pacifica convivenza? Io vedo solamente una diffamazione provocata dall’odio, generato da un sistema malato che trova nella denigrazione e nell’eliminazione del diverso la sua realizzazione. No, padre Benedetto, non siamo gay, ma dopo morti ci sarà una ragione in meno per piangerci. Se abbiamo ragione noi, se ne accorgerà da solo. Il posto in cui vive, dorme, mangia e celebra messa è la dimora di un demone, non di Dio. Ora dobbiamo rientrare per non rinvigorire certe accuse.

    — Meglio che non faccia parola con nessuno di questo incontro — aggiunse Bernard e se ne andarono sconsolati.

    6

    Benedetto

    Rimasi a rimuginare sulle parole di Jean Baptiste per tutto il pomeriggio. Le accuse alla Chiesa locale di aver favorito il razzismo erano troppo generiche, se fossero state vere si sarebbe potuto parlare più di una setta che di una religione, dovevano riferirsi a qualche caso specifico non prontamente verificato e rettificato. Quello che faceva paura era la lettera proveniente dalla sede ONU, gli eccidi in Africa non sono rari, ma da questo ad annunciarli con tanto di liste di esecuzione ne passa. Poi l’ONU che sa e ma non fa niente, non mette solo paura, dà una sensazione di acquiescenza, di ineluttabilità, di morte. Non poteva essere vero, ma le ombre che attanagliavano la mia anima stavano allargandosi, decisi di confidarmi con François e andai prima di cena nella sua stanza.

    — François, ho un problema.

    — Sono qui per ascoltarti.

    — Mi sono giunte voci allarmanti, parlano di una eliminazione di massa della popolazione Tutsi, un eccidio imminente. Forse ne dovremmo informare la Santa Sede, un discorso del Papa potrebbe essere utile.

    — Potrebbe — mi interruppe lui — inasprire le tensioni e portare una parte della Chiesa locale ad allontanarsi da Roma. Chi ti ha messo in testa certe voci?

    Non sembrava arrabbiato ma preoccupato. Ero restio a raccontargli del mio incontro con i due seminaristi, ma se non con lui con chi altri consigliarmi? Gli raccontai tutto, lui ascoltò con attenzione poi esplose in una fragorosa risata.

    — Come fai a credere a quei due?

    — Mi hanno fatto vedere la lettera. — Si fece serio.

    — La lettera non vuol dire nulla, i falsi esistono, come esistono gli esaltati e non è detto che non lavorino per l’ONU. Non devi confondere i problemi di questa terra, che sono tanti, con i problemi di due ragazzi. Quei due si sono resi conto che la vita religiosa non fa per loro, non è quello che si aspettavano e ora cercano di proiettare i loro problemi nel mondo che li circonda. Uno è un violento, più adatto a fare il pugile che il prete e l’altro ha un’idea del Cristianesimo che definire visionaria è poco, è di quelli che pensano che la risposta a ogni domanda sia nel Cristo; attento, non sto bestemmiando, sto separando la religiosità dall’integralismo. Non ho il coraggio di allontanarli dal seminario, ma devo dire che stanno creando problemi. Oltretutto, i modi melliflui da presunto santo di Jean Baptiste sono visti come sessualmente ambigui dagli altri. Anche se lui nega, ho dei dubbi, tu non devi preoccuparti, loro sono un mio problema.

    Me ne andai invece più preoccupato di prima, l’analisi dei due ragazzi era precisa e poteva aver colto nel segno, ero confuso. Soprattutto una frase risuonava nella mia mente: "Potrebbe portare una parte della Chiesa locale ad allontanarsi da Roma", significava che una parte, se non tutta la Chiesa ruandese, non seguiva i dettami del Vaticano. Forse Jean Baptiste aveva ragione, la chiesa locale era malata, appoggiava la politica razzista del governo. La Santa Sede non sapeva niente o peggio sapeva ma non interveniva, per non crearsi problemi. L’ONU e il Vaticano sembravano due delle tre scimmiette che si coprono gli occhi e le orecchie, la terza era l’umanità, quella con la mano sulla bocca per non urlare dall’orrore.

    Due notti dopo iniziò.

    Non mi accorsi di nulla, non sentii nessun rumore e dormii profondamente dopo aver pregato a lungo. Mi venne a svegliare all’alba François, dicendomi che era successa una cosa terribile.

    — Nei bagni, devi venire subito.

    Mi vestii di corsa, con la testa intontita dal sonno. Davanti ai bagni c’era un capannello di seminaristi, alcuni piangevano, mi feci largo ed entrai. Il corpo di Jean Baptiste giaceva supino a terra completamente nudo, le braccia sotto il corpo sembravano voler coprire la nudità. Vicino al cadavere, in una pozza di sangue, c’era un coltello da cucina. Rabbrividii alla scena, mi vennero le lacrime agli occhi e un groppo alla gola, mentre tentavo di recitare una preghiera, poi mi prese una rabbia improvvisa e cominciai a urlare.

    — Chi è stato?

    — Non riusciamo a trovare Bernard — mi rispose François, un’accusa in un dato di fatto.

    Nella mia mente si creò un ingorgo di pensieri e sensazioni, non capivo o forse era meglio non cercare di capire.

    — Ma nessuno ha sentito nulla? — Nessuna risposta.

    — Ma com’è possibile? Siamo a pochi metri dai dormitori, non può non aver gridato. Non avete visto né sentito niente?

    Mi rispose una voce tra i seminaristi che riconobbi come quella di Paul.

    — Si sono alzati e sono andati al bagno quando noi dormivamo, lo facevano spesso e si soffermavano a lungo.

    Sperai che i pugni di Bernard gli facessero ancora male.

    — Ora basta. Tutti in chiesa a pregare per l’anima di Jean Baptiste, che ne ha bisogno — disse François.

    Rimanemmo solo io e François a vegliare la salma. Poco dopo giunsero due di quei soldati che ci avevano fatto visita tre giorni prima. Si informarono rapidamente dell’accaduto con François, lui fu molto discreto nel raccontare i fatti, ma non poté negare che Bernard era sparito e che probabilmente prima di farlo era nel bagno con la vittima. I due annuirono poi girarono il corpo di Jean Baptiste, le mani del poveretto non tentavano di coprire la nudità ma di arrestare il sangue, era stato evirato. Più colpi di coltello gli erano stati inferti nel basso ventre, un omicidio a chiaro sfondo sessuale, il sorriso dei due militari mi fece capire che le indagini erano chiuse, ancor prima di cominciare.

    Due giorni dopo, al funerale, erano presenti i genitori di Jean Baptiste e due suoi fratelli, ne aveva cinque ma non tutti erano potuti venire, erano povera gente con pochi soldi

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