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La porta degli elefanti
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E-book163 pagine2 ore

La porta degli elefanti

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Info su questo ebook

A un’ora di macchina da Trento c’è la Val di Sole, un luogo in cui «l’estate scappa un po’ prima che nel resto del mondo»; qui quattro compagni di classe vivono la monotonia tra il liceo e l’unico locale per giovani: il Möbius. Un sabato sera come tanti il mondo adulto farà la sua mostruosa comparsa, gettandoli nella violenza di una provincia dove tutti si conoscono e nessuno si parla.

Una gita scolastica un po’ noiosa, lo scattare di una macchina fotografica, un concerto trap, basta poco per creare un legame: cosa sei disposto a fare per preservarlo? «Non starete sul serio pensando di ammazzarlo, vero?»
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788831662109
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    Anteprima del libro

    La porta degli elefanti - Daniele B. Stablum

    info@youcanprint.it

    1.

    Mi chiamano Rimmel, un nome che è mio e non mio. Lo presi in seconda superiore, quando rubai un rossetto dall'astuccio di Sonia, la mia compagna di banco, e lo misi. Ricordo mi sembrò di aver baciato il mostro della palude, con la bocca ricoperta di fango caldo e saliva. Sonia non si arrabbiò, rideva insieme alla classe. Era nuovo quel rossetto, e, sono pronto a scommetterci, non aveva intenzione di  indossarlo. Lo teneva lì da chissà quanto, imballato in una leggera plastichina coperta di grafite e segni d'evidenziatore, ad aspettare il giorno adatto per essere preso e indossato.

    Compri qualcosa e non la apri, la metti là dove puoi vederla. La trascini dietro quando esci di casa e vai a scuola, o fai i compiti, e non la scarti. La confezione prende il colore delle tue giornate, si ammacca da un lato, ma non prende polvere, in fondo è sempre con te. Un giorno arriva qualcuno e si prende l'oggetto a cui ti eri abituata e lo scarta, ricordandoti perché l'avevi comprato e che è ancora nuovo.

    Da allora per tutti io fui Rimmel, per me ero il rossetto di Sonia.

    Saranno stati due o tre giorni che stavamo in banco assieme. Durante una lezione del Longhi avevo fatto casino parlando con Giulia, e siccome era impossibile che Giulia si fosse messa a disturbare la lezione il prof mi indicò come responsabile della perdizione di una ragazza tanto garbata e a modo. Mi cambiò di posto, dalla seconda alla prima fila, angolo destro, con il muro a un lato e la secchiona della classe all'altro. Fu il mio secondo cambio quell'anno, meno di tre mesi prima ero stato messo accanto a Giulia per lo stesso motivo, lei non era secchiona, ma aveva l'abitudine di stare sulle sue.

    Con Sonia legai subito, anche se non era tipo da parlare durante le lezioni. Aveva questo bisogno di raccontarsi e cercava di non farlo trapelare, parlarci era come giocare a nascondino.

    «Che hai fatto ieri?» dicevo io.

    «Mi sono esercitata.»

    «E a fare cosa?»

    «Col sassofono.»

    «Non sapevo suonassi.»

    «Sì», fece una pausa. Mi teneva fisso negli occhi, come se fosse lei a domandare a me.

    «Che hai suonato?»

    «Solo esercizi, nessuna canzone.»

    «Mi piacerebbe sentirti suonare una canzone», divenne rossa, capii subito che non aveva amici.

    In poco tempo, a furia di domande su domande, scoprii molto sul suo conto, ad esempio che quel sassofono, con cui si esercitava ogni sera, non le piaceva più di tanto. Quando stava in prima media i suoi genitori le chiesero quale strumento le sarebbe piaciuto imparare, e, d'istinto, rispose sassofono. Da allora, escluse le estati, seguiva lezioni di solfeggio e pratica due volte in settimana e si esercitava almeno un'ora tutte le sere, una quantità di tempo incredibile, pensai.

    «Perché non smetti se non ti piace?»

    «Non è che non mi piace», rifletté un attimo, «solo non l'ho scelto io. Sì, d'accordo, l'ho scelto io, ma non è come se l'avessi scelto io per davvero.»

    Mi sembrò strano, «I bambini non dovrebbero prendere decisioni tanto drastiche», dissi, anche se mi sarebbe piaciuto avere qualcosa da portare avanti come il sassofono di Sonia.

    Un giorno sbirciai nel suo zaino e vidi un libro fuori dalle cose di scuola. Le piacevano i romanzi, e quelli, a differenza della musica, li leggevo anch'io. Andavo di classici, per darmi un tono e, insieme, andare a colpo sicuro, ma leggevo anche Lansdale, Ammaniti, e, ogni tanto, Stephen King.

    «Qual è il tuo libro preferito?»

    «Norwegian wood

    «Di chi è?»

    «Di chiunque l'abbia letto.»

    Poi mi rivelò che era di Murakami, un autore che non avevo mai sentito. La sua risposta mi colpì e le chiesi di portarmelo, si raccomandò di non fare pieghe agli angoli e trattarlo bene. Lo terminai in tre giorni, anche se a lei lo dissi dopo una settimana.

    «Credi di saperla fare al sassofono quella canzone dei Beatles?»

    «Non saprei, gli spartiti non si trovano e a orecchio sono negata.»

    Terminai così la mia recensione di Norwegian wood, chiedendomi se sarei mai riuscito a farla bagnare nel modo in cui Watanabe, il protagonista, aveva fatto con Naoko.

    Sonia non sapeva della mia cotta per lei e quando glielo confessai restò stranita. Disse si sentiva brutta e che non avrebbe mai immaginato di poter piacere a qualcuno, io non potei darle torto, nel senso stretto del termine, non era bella. Come molti della nostra età aveva un serio problema di brufoli. Ogni tre giorni alcuni sparivano e ne comparivano di altri, soprattutto in fronte e al lato esterno della guancia, ma anche sul mento e, qualche volta, agli angoli della bocca. Era come se la sua faccia non si volesse decidere a prendere una forma e continuasse a muoversi sottopelle, per vedere dove sarebbe stata più comoda. Dava l'impressione non le pesasse, anzi, quando ne arrivava uno grosso gli dava un nome come a un cane, «Ti presento il mio nuovo cucciolo, si chiama Jimmy. Non toccarlo che non è abituato agli estranei, potrebbe perfino mordere». Io ridevo come un pazzo. Oltre all'acne aveva un paio di occhiali troppo grandi per il suo viso, le tette piccole e alcuni chili in più giusto in vita, però aveva un bel culo rotondo che guardava all'insù e un paio di gambe lunghe e sode. I capelli castani non troppo ricci, occhi marroni, naso anonimo, labbra sottili. Nel complesso, tranne forse che per il sedere, non ti saresti girato a guardarla, ma io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. A lezione capitava mi fissassi su qualche dettaglio e cercavo di stare attento a non bloccarmi mai sugli occhi.

    «Cosa guardi?» chiedeva, girandosi a cercare il punto che indicavo con lo sguardo.

    «Niente, pensavo a una cosa» e non le dicevo che la cosa in questione era l'orecchino di perla centrato nel suo lobo. Era piena di dettagli, l'avrei squadrata per ore senza annoiarmi e c'era ancora la parte sotto ai vestiti che non avevo mai visto. Alla fine lo prese come un mio modo di fare e smise di cercare di capire dove io guardassi, al massimo sventolava la mano dicendo «Ed ecco che l'abbiamo perso».

    C'è da domandarsi perché aspettai fosse lei ad andare in quella direzione, le occasioni di provarci non mi mancavano. Il fatto è, e questa è la mia risposta, che avevo quindici anni e quello che sarebbe successo da lì a poche settimane mise tutto in secondo piano, imballandoci come in una sottile plastica. Qualche tempo dopo l'avremmo scartata, e ne successero di cose nel periodo che fui il rossetto di Sonia.

    I sabati sera uscivo già da parecchio tempo, per lo più con Luca e, se non c'erano feste particolari, finivamo sempre al Möbius. Vivevamo in Val di Sole, una strada di trenta chilometri con altrettanti paesini e meno di due locali per i ragazzi della nostra età. Non che fosse brutto, imparavi in fretta volto e nome di tutti. Per noi uscire in due era soltanto preoccuparsi di come tornare a casa in due, per il resto eri sempre in mezzo a gente che conoscevi.

    Luca e io eravamo quel tipo di amici cresciuti a due passi l'uno dall'altro. Lo tenni d'occhio quando si ubriacò per la prima volta, assicurandomi che vomitasse prima di entrare a casa. Fumammo insieme la prima sigaretta e la prima canna, e quando mi capitò il primo pompino corsi da lui a vantarmi, ma, come accade per le cose prese perché capitate, non durò a lungo. Dopo aver condiviso la crescita ci separammo con la stessa facilità con cui ci eravamo trovati.

    Luca è più grande di me di un anno, più alto, più bello e più simpatico agli altri, ma da quel pompino, e per il resto del tempo che ci frequentammo, io ero venuto nella bocca di una ragazza e lui no. Tutti dicevano, e tutti ci credevamo, che i pompini erano il massimo. Non che non pensassi al sesso vero, tutt'altro, ma non per questo uscivo la sera con un preservativo in tasca o mettevo le mani oltre le tette e il culo se mi capitava di baciare qualcuna. Se una ragazza, invece, vuole prenderlo in bocca è solo una grande figata, non hai la preoccupazione di non saperci fare o di farle male e se anche capitasse di venire in fretta tanto meglio, ne esci con «È che sei davvero brava».

    Fu a dir poco surreale. La sera stessa, e le successive mille volte che ci pensai, avevo la sensazione fosse successo a qualcun altro e quando lo raccontavo era come raccontare la storia di uno che conoscevo. Era estate, dopo il primo anno di superiori e, come tutti i pomeriggi, mi sarei trovato con Luca al parco di Dimaro, dove stava un punto di ritrovo, con un bar e la rampa da skate. A Dimaro c'era anche la biblioteca e avevo preso l'abitudine di andare lì a procurarmi i libri. Decisi di fermarmi a vedere se scovavo qualcosa e lasciai lo scooter all'entrata, mi sarei fermato giusto un attimo. Appena dentro ci sono due stanze con i romanzi e, sul fondo, un angolino con tre computer disponibili al pubblico. Lei stava lì, seduta a stampare dei fogli tenendo scrollata la home di Facebook e con addosso delle braghette sportive un po' troppo alzate. Si chiamava Chiara, ma io, su influenza dei miei amici che adoravano raccontare questa storia, finii per ricordarla come Quella-della-biblioteca. Persino ora mi risulta difficile pensare a lei prima con il suo nome che come Quella-della-biblioteca. Non so che età avesse di preciso, di sicuro qualche anno in più. La si vedeva spesso girare di sera con il trucco pesante e il look da vestiti spogliati, a volte con intorno qualche ventenne. Quelle come lei Luca le chiamava puttane della droga, il tipo di espressione che chiarisce bene il tipo di ragazza di cui parliamo, anche se non lascia intendere di che droga si parli. Da parte mia non mi sento, che so, di averla sfruttata, non avevo quasi mai droga, e poi, droga, al massimo mezzo tocco di fumo, o moffo, come si diceva. 

    Sfogliavo La peste quando si avvicinò. Senza salutare chiese «Fumi?» tenendomi davanti una sigaretta.

    «Certo» e misi tra i denti quella sigaretta.

    Sorrise, dette due colpi al culo del pacchetto spingendo fuori un'altra Lucky Strike e si avviò fuori. La seguivo ipnotizzato dall'alternarsi di chiappe nella camminata, se avesse alzato ancora di poco i pantaloncini avrei visto tutto. Una volta usciti ci fu qualche sguardo, notai non portava il reggiseno sotto la canottiera, non le sarebbe servito. Scodinzolò intorno al motorino e prese il manubrio con entrambe le mani, «Ti vedo spesso in giro con questa», disse.

    «Anche a me capita di vederti.»

    Saltellò in un fare da bambina che vuole qualcosa e se ne uscì con «Portami a fare un giro, dai».

    A quel punto non avevo dubbi che quel giorno ero stato graziato. Portare lei nel posto giusto era molto di più di una limonata e un numero di telefono. Sapevo dove andare, bastava seguire le stradine sterrate di Dimaro e sarei sbucato a Plaucesa, uno spiazzo di griglie in mezzo ai boschi famoso per un certo genere di attività ricreative. Nei cinque minuti scarsi del giro che aveva chiesto mi restò incollata alla schiena, sentivo i suoi seni scuotersi, schiacciati, e la punta dei capezzoli induriti dal vento. Evitai salti e strani movimenti con la moto, riuscivo soltanto a pensare a quel pizzico alla schiena. Una volta arrivati pareva divertita, accettò in modo naturale che l'avessi portata in mezzo ai boschi senza prima chiedere e si mise sull'erba. Dovevo ancora togliere il casco quando mi accorsi di averlo duro. Senza dare nell'occhio mi sedetti con lei a dividere una sigaretta e ascoltai per dieci minuti una sfilza di domande di routine, se avessi fratelli o sorelle, che scuola facessi e via dicendo. Disse di avermi visto altre volte in biblioteca ed era felice di aver trovato il coraggio di parlarmi. Io non ricordavo, ma risposi alle domande e feci qualche battuta. Durante una pausa della conversazione le passai la mano lungo i capelli e la baciai, aveva quella di fare i vortici con la lingua, cosa che non ho mai sopportato, ma non era male.

    «Mi hai portata qui per sedurmi è?»

    «Indovinato» e le detti un bacio all'orecchio, passando poi con la lingua

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