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LA CAREZZA DEL PAPAVERO
LA CAREZZA DEL PAPAVERO
LA CAREZZA DEL PAPAVERO
E-book622 pagine10 ore

LA CAREZZA DEL PAPAVERO

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Info su questo ebook

Dopo tre lunghi anni trascorsi a Parigi lontana dal lavoro che ama con tutta se stessa e dal suo migliore amico e mentore Thomas, Bridget accetta di riprendere la posizione che aveva occupato alla Behavioral Analysis Unit di Quantico. Il suo compito sarà dare la caccia al serial killer che ha preso di mira l’intera squadra di profiler dell'Fbi. Un individuo scaltro e molto intelligente, che sembra essere al corrente di ogni più piccolo segreto delle loro vite e che non sta colpendo a caso. Bridget si rende conto ben presto che la sua opera, un crescendo di malvagità ed efferatezza, è inscenata per un unico spettatore: lei. I collegamenti tra le vittime e il suo passato sono evidenti, così come il legame tra lei e il killer.
Incastrata in un sadico gioco, sarà costretta a mettere in dubbio le sue certezze e alla fine dovrà confrontarsi con le menzogne sulle quali si è basata tutta la sua vita.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2012
ISBN9788867551255
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    Anteprima del libro

    LA CAREZZA DEL PAPAVERO - Chiara Plazzotta

    CHIARA PLAZZOTTA

    LA CAREZZA DEL PAPAVERO

    Prima edizione digitale 2012

    Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Il presente romanzo è opera di pura fantasia.

    Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.

    Ad Alessandro,

    il mio orizzonte,

    la mia meta.

    Che la tua vita possa essere un sogno meraviglioso.

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 1

    Il giglio della pioggia, in botanica Zephyranthes. La natura ha donato quest’amarillide al continente americano dove ancora oggi prolifera indisturbato, tingendo dei colori più dolci i pendii muschiosi e le coste aride. Un fiore magico e misterioso, in Europa pressoché sconosciuto. Ruba il nome a Zephyros, la divinità greca in grado di dominare i venti portatori di pioggia che soffiano da Occidente.

    Delicato, minuto e  poliedrico. Una pianta che sopravvive nei territori più inospitali e fiorisce dopo una pioggia abbondante, schiudendo i suoi splendidi fiori dai colori dell’arcobaleno. Bianco che diventa rosa, giallo che si arrichisce dell’oro, color pesca che s’incendia in rosso. Lo Zephyranthes significa speranza. Significa vita. La vita che rinasce dopo un acquazzone, più forte e più spettacolare che mai.

    Eclettico, come un uomo che riesce ad essere mille persone diverse senza perdere mai di vista il suo vero Io. Un uomo in grado di scendere negli inferi e ritornare alla vita, con la leggerezza di una farfalla. Alcune specie di Zephyrantes corteggiano le misteriose e fugaci creature notturne, anziché quelle del giorno, offrendo in dono il profumo dei loro piccoli fiori alla timida notte.

    L’autunno quell’anno iniziò davvero presto. Era l’ultima settimana di ottobre, eppure l’aria gelida fuori dal locale soffiava rabbiosamente e la pioggia non si decideva a smettere di cadere.

    Davvero un gran benvenuto, pensò Bridget rabbrividendo. L’aereo che l’aveva riportata a casa era atterrato da poche ore e già il richiamo della sua vecchia vita era diventato tanto irresistibile da convincerla a mettere di nuovo il naso fuori dalla stanza. Quelle strade erano per lei come il canto di una sirena. Emozionata, non aveva potuto restarsene chiusa un minuto di più nell’accogliente camera d’albergo che le era stata assegnata.

    Tre anni prima Bridget era stata costretta a lasciare la sua casa (un semplice appartamentino in affitto, per dire la verità) alla volta di Parigi. Spaventata, avvilita e con il cuore a pezzi. Da quel momento la sua abilità nel mentire a se stessa era cresciuta costantemente. Aveva cercato in tutti i modi di convincersi che la sua squadra non le mancava, così come non le mancavano il suo lavoro, la sua città e il suo migliore amico. Si era sforzata di diventare una persona nuova, ma le menzogne hanno le gambe corte. E nelle settimane successive lei avrebbe dovuto affrontare davvero un lungo viaggio…

    Appena scesa dal taxi, i ricordi della sua vita passata l’avevano investita, impregnando l’aria gelida e umida di Woodbridge. Le era tornato tutto in mente, come se il suo soggiorno a Parigi fosse durato solo il tempo di una notte. La realtà dei fatti aveva spazzato via in un soffio gran parte delle sue menzogne.

    Erano trascorsi dieci anni da quando aveva varcato la soglia dell’Accademia dell’Fbi di Quantico. Spinta da un entusiasmo tipicamente giovanile, che l’aveva irrazionalmente convinta di essere destinata a fare qualcosa di grande, aveva afferrato il suo bagaglio colmo di speranze e di buoni propositi e si era diretta a grandi passi incontro alla vita. Stringendo in mano la sua laurea in psicologia, aveva bussato alla porta del suo futuro capo. Era rimasta per diversi secondi immobile a guardare attraverso il vetro smerigliato, sforzandosi di scorgere qualche dettaglio di ciò che stava accadendo nella stanza: una parola pronunciata sottovoce, un’ombra che oscurava il pavimento, un avanti che tardava ad arrivare. Schegge di quella che sarebbe stata la sua esistenza futura. Una volta entrata, aveva appoggiato con grazia il suo bagaglio, ancora leggero per la scarsa conoscenza del mondo, e con un sorriso impacciato aveva scelto la sua strada.

    Nessun ostacolo era riuscito a indurla a modificare il percorso che aveva deciso di intraprendere a ventiquattro anni. Dentro di lei sentiva che quel sentiero tortuoso e ripido era quello giusto. Alla fine sarebbe riuscita a scalare la montagna che le stava dinnanzi e, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante, avrebbe goduto della visione del mondo dall’alto. Solitaria, affaticata e felice. Si sarebbe sentita unica. Si sarebbe sentita finalmente se stessa. Ma la vita non è una madre amorevole e talvolta sa essere davvero spietata.

    Adesso Bridget di anni ne aveva trentaquattro e, pur sapendo con certezza che quel sentiero era l’unica via percorribile, cominciava a dubitare di poter raggiungere tanto facilmente la meta. Le esperienze della vita avevano appesantito il suo bagaglio, stropicciando le belle speranze che tanto gelosamente vi custodiva. Da anni si trascinava dietro quel greve fardello, che rallentava i suoi movimenti e faceva franare il sentiero sotto i suoi piedi, rischiando di farla scivolare nel vuoto ad ogni passo. Si era domandata spesso che cosa la spingesse a continuare. Prima del soggiorno a Parigi era convinta che il merito andasse al suo migliore amico, ma ora si rendeva conto che quell’accanimento non aveva una causa esterna.

    Quando conobbe Bridget, Thomas Brown era un trentacinquenne piuttosto precoce. Nonostante la giovane età, nel suo campo era considerato una leggenda. Aveva intrapreso la carriera di medico psichiatra in un carcere nei pressi di Washington. Seduto ad una logora scrivania in una stanza mal illuminata, giorno dopo giorno aveva imparato a rispettare tutto ciò che gli altri esseri umani normalmente giudicano esecrabile.

    In quel luogo duro, scomodo, che gli era entrato indelebilmente nell’anima, era nato un uomo forte e autoritario, poco incline ai lunghi dialoghi. Era nato Thomas Brown, il profiler. L’uomo dagli occhi di ghiaccio e dai nervi d’acciaio. Ironico, talvolta sarcastico, aveva il potere di entrare nella profondità dell’animo altrui, come quella stanzetta buia era entrata nel suo.

    Aveva scelto di studiare le menti disturbate, di pensare come loro, di prevederle. E ci riusciva talmente bene che le persone normali avevano cominciato ad evitarlo. In fondo si può comprendere davvero il prossimo solo se si ha la capacità di mettersi nei suoi panni, no? E per farlo è necessario conoscere personalmente i mostri che si nascondono negli angoli bui della sua anima.

    Come un abile giocatore di poker, Thomas osservava le mosse delle altre persone, attendendo immobile e silenzioso il suo turno, quindi sferrava l’attacco. Freddo e geniale. Conosceva talmente bene l’animo umano, da sapere sempre cosa aspettarsi da chi gli stava di fronte.

    L’esperienza e l’innata predisposizione per quel mestiere l’avevano portato a diventare prima un collaboratore esterno e poi un Agente Speciale dell’Fbi.  Era abilissimo nel suo lavoro, forse il migliore in circolazione. Fare il profiler per lui era la cosa più naturale del mondo, la sua grande passione.

    Quando si occupava di un caso, ogni altra cosa perdeva d’importanza. Thomas si ritraeva nel suo mondo, i cui confini non ben definiti erano celati da una fitta nebbia lattiginosa. Quello era il mondo della mente: non c’erano regole, non c’era nulla di certo, solo tante sfumature. Sforzandosi di guardare il mondo con gli occhi di un altro individuo, infiniti panorami non completamente sconosciuti si stagliavano dinnanzi a lui. Anche in Thomas, infatti, vi erano lati oscuri, piccole manie. In lui, in Bridget, nei suoi genitori, nei killer ai quali dava la caccia. Per quanto tutto ciò potesse sembrare paradossale, egli non soleva fare distinzioni. E proprio in questo stava la sua forza.

    Pur circondato da persone che desideravano ricalcarne le orme, Thomas Brown restava un uomo piuttosto solo, con pochissimi amici e una famiglia molto lontana. Era indubbiamente un punto di riferimento, preso a modello e stimato da molti per la sua competenza e la sua forza d’animo, eppure la stima e il rispetto non erano quasi mai accompagnati da un affetto più che superficiale. In parte tutto ciò era da imputare al suo carattere introverso e rigoroso all’eccesso. Sarebbe stato ingiusto, tuttavia, dire che la responsabilità di un tale isolamento fosse completamente sua. Anziché apprezzarne l’integrità e l’intelligenza a dir poco acuta, infatti, la società preferiva prendere le distanze da quella sua creatura singolare e straordinaria. Un mostro di bravura, insomma. Ma pur sempre un mostro.

    Thomas abitava in un loft minimalista, essenziale ed apparentemente freddo almeno quanto lo erano i suoi occhi cinerei come l’acciaio. Era un appassionato di arte contemporanea e di storia. Leggeva molto, scriveva qualche libro di profiling ed era sempre più che disposto a condividere le sue conoscenze con le altre persone. Quando parlava del suo lavoro, diventava perfino loquace e lo sguardo di ghiaccio si illuminava in modo irresistibile. 

    Bridget aveva imparato, nel tempo, a guardare oltre l’immagine che Thomas dava di sé al resto del mondo, individuando nel suo essere infinite qualità di rara purezza. Sapeva ridere delle sue battute, apprezzare le sue premure, farsi guidare dall’innata sensibilità che possedeva. Era un uomo forte e concreto, onesto al punto di risultare spesso scontroso.

    Lei sentiva profondamente quel legame. Erano diventati prima colleghi, poi confidenti, quindi amici, ma mai amanti. Non ce n’era bisogno. Il loro rapporto era troppo intenso, troppo completo. Per trasformarlo in una storia d’amore avrebbe per lo meno dovuto trattarsi di un sentimento con la delicatezza di una poesia e la forza di una tempesta.

    È strano come in certi momenti si preferisca evitare quella che sarebbe una felicità troppo scontata e continuare a percorrere l’unica strada che si conosce, per paura e pigrizia. La paura di perdere quello che già c’è e la pigrizia dinnanzi alla necessità di ricreare un nuovo equilibrio.

    Loro due si capivano con uno sguardo. Avevano lavorato insieme per sette anni, condividendo tutto. Avevano viaggiato, avevano affrontato i momenti di crisi personali e nel lavoro. Thomas le aveva insegnato i segreti di quella professione così difficile e lei lo ripagava diventando ogni giorno più brava.

    Dopo la morte di suo padre, Bridget era rimasta da sola. Aveva una sorella più grande, Meredith, ma la distanza che le separava aveva finito per limitare i loro rapporti a sporadiche telefonate e a più frequenti e-mail. Manny si era trasferita in Giappone lo stesso anno in cui Bridget era entrata a far parte della Behavioral Analysis Unit e ritornava negli Stati Uniti sempre più raramente. Erano sempre state due sorelle piuttosto unite, anche se del tutto indipendenti l’una dall’altra. La morte del padre aveva riportato Manny a casa, ma solo temporaneamente. Entrambe sapevano benissimo che Manny era scesa dall’aereo con la valigia in una mano e il biglietto di ritorno nell’altra. Avevano trascorso molte ore insieme, ricordando il passato. Avevano pianto e sorriso. Si erano strette l’una all’altra durante il funerale. Poi Manny era ripartita e Thomas si era preoccupato di raccogliere i cocci. Era stato lui a prendersi cura di Bridget. Le aveva dato la forza necessaria per superare quel lutto, trasformandosi nell’appiglio che le aveva impedito di scivolare nel vuoto. L’aveva aiutata a sbrigare le formalità, a sgomberare la casa del padre e a venderla. Era stato un amico, uno psichiatra, un fattorino, talvolta persino un giullare. Con la massima naturalezza erano diventati una vera famiglia.

    Durante quei tre anni di silenzio Thomas era sempre rimasto nei suoi pensieri. Lontano dagli occhi non deve necessariamente significare anche lontano dal cuore! L’amicizia, quella vera, può resistere al tempo. Trae la sua forza dai ricordi, che è in grado di amplificare a suo piacimento. Si alimenta della nostalgia per un passato che può vivere solo in noi stessi. E sopravvive.

    Bridget era stata trasferita a Parigi senza alcun preavviso, nel bel mezzo di uno dei casi più complessi che avevano affrontato insieme. Non avrebbe mai potuto dimenticare tutte quelle vittime, strangolate e gettate in un fiume con addosso un abito da sposa bianco e un velo rosso fissato al capo con undici chiodi. Ragazzine dai quindici ai diciotto anni, con una brillante vita dinnanzi e la solita valigia piena di belle speranze accanto.

    I volti delle vittime erano ancora impressi nella sua mente, quasi fossero trascorsi solo pochi giorni dal loro ritrovamento. Quegli occhi grandi, colmi di giovanile spensieratezza, sigillati definitivamente da un tragico destino. Il sipario era calato su una raccapricciante rappresentazione che non rendeva loro giustizia, proprio mentre quelle poverette si stavano timidamente affacciando al mondo. Bridget avrebbe potuto elencare a memoria uno dopo l’altro tutti i particolari di quel drammatico caso, unico clamoroso fallimento in due carriere impeccabili. Non poteva dimenticare, quasi interiormente obbligata ad espiare la terribile colpa di non essere riuscita a fermare il colpevole, consegnandolo alla giustizia.

    Dopo settimane di lavoro, la Squadra aveva individuato un possibile sospettato. Si trattava di un bibliotecario di quarant’anni alto e magro, con lunghissime dita bianche che sembravano voler afferrare ogni cosa. Aveva un naso aquilino che stonava su quel volto emaciato come un pezzo dei Korn durante la messa domenicale. Le labbra erano sottili, perennemente contratte in un'espressione severa. La fronte sfuggente e le sopracciglia folte e ravvicinate. Gli occhi piccoli e nervosi, che vagavano incessantemente alla ricerca di qualcosa di misterioso. Portava i capelli piuttosto lunghi, incolti e crespi come un cespuglio di Salsola che rotola senza meta attraverso il deserto. Tumbleweed, lo avevano soprannominato così. Il suo aspetto ricordava in maniera inquietante le illustrazioni di alcuni libri di fisiognomica dell’ottocento. Vestiva sempre, ossessivamente, allo stesso modo: pantaloni scuri di taglio classico, una camicia perfettamente stirata e un anonimo maglioncino di lana con lo scollo rotondo, blu o marrone.

    Inizialmente il caso era parso di semplice soluzione, eppure dopo mesi di indagini a trecentosessanta gradi erano emerse ben poche prove che potessero collegare senz’ombra di dubbio John Fisher agli omicidi. Tutti loro avevano temporeggiato, attendendo la conferma definitiva, almeno fino a quel maledetto giorno. Uno dei più importanti della sua vita. Ventiquattro misere ore che stravolsero l'esistenza di Bridget e di coloro che la circondavano, cancellando in un istante tutti i suoi punti di riferimento. Quello che accadde fu un fulmine a ciel sereno, inaspettato e assurdo.

    Si svegliò come sempre nell’appartamentino preso in affitto a Woodbridge, a pochi isolati dal loft di Thomas. Fece colazione con lui, specchiandosi in quegli occhi grigi che ogni mattina la osservavano premurosi e la sera andò a dormire con un biglietto aereo per Parigi in tasca e il cuore spezzato nel petto. Da allora nulla sarebbe più stato uguale.

    Quando la squadra aveva esaminato l'ennesimo, pietoso corpo restituito dalle acque fangose di un fiume in piena, Thomas aveva promesso a se stesso e al resto del mondo che non ce ne sarebbe stato un altro. Ma sbagliava. Lavorarono giorno e notte per correggere il profilo, in modo che si adattasse alla perfezione anche all'ultimo delitto. Tutto corrispondeva: l'uomo che stavano cercando era John. Doveva essere lui...

    Thomas non attese oltre. Salì in auto e si lanciò a tutta velocità verso una baracca abbandonata in riva ad un fiumiciattolo locale. Guidò come una furia, con il cuore che gli batteva forte nel petto e le mani sudate che stringevano il volante con molta più forza del necessario. Durante quegli istanti non sentiva nulla, né la stanchezza, né la rabbia, né la paura. Era in trance, ipnotizzato dalla necessità di salvare la prossima vittima. Nessuno ne aveva denunciato la scomparsa, ma lui lo sentiva. Sapeva che quel mostro stava stringendo le proprie mani attorno al collo bianco e innocente di una ragazzina.

    Il suo piede pigiava senza pietà sul pedale dell’acceleratore. Le altre vetture, gli alberi, le case gli sfrecciavano accanto, senza che le loro immagini riuscissero a materializzarsi nel cervello di Thomas. In tanti anni Bridget non l'aveva mai visto così sconvolto. Si limitò ad aggrapparsi al sedile terrorizzata, senza proferire parola, rendendosi conto che in quel momento lui era troppo lontano per sentirla.

    Raggiunta la meta, Thomas aprì la portiera ed uscì dall’auto correndo, senza neppure attendere l’arrivo dei rinforzi. La sua mano scivolò sotto la giacca ed afferrò la Glock, estraendola dalla fondina. Incurante del pericolo, si avvicinò all’ingresso della baracca. Le mani tenevano saldamente la pistola davanti al suo volto, tese ed immobili come se fossero anch’esse di metallo. Mentre entrava nel minuscolo edificio, l’indice della mano destra sfiorò il grilletto, pronto a far fuoco.

    Doveva salvarla.

    Nella penombra la intravide. Immobile. Indifesa. Morta.

    Sbatté le palpebre più volte, cercando di mettere a fuoco la scena che gli stava dinnanzi. Non dipendeva dagli occhi, tuttavia, la sua incapacità di vedere. Dopo un interminabile minuto finalmente comprese e abbassò la pistola lungo il fianco, cadendo in ginocchio accanto al corpo inerme di una giovane donna bionda, bellissima. Allungò le mani verso quel volto deturpato. Appoggiò le dita sul collo bianco della ragazza, cercando una pulsazione sotto la pelle sottile.

    Era tutto inutile. Non respirava, il suo cuore non batteva più. I due occhi del colore del cielo primaverile lo fissavano vitrei, chiedendogli all’infinito perché tutto ciò era accaduto proprio a lei.

    Era morta. La squadra aveva fallito. Serrò le dita intorno ai morbidi capelli dorati sporchi di fango e sangue rappreso e chinò il capo. Se avesse creduto in qualche Dio, avrebbe potuto pregare per l'anima di quella poveretta. Ma Thomas non aveva ricevuto il dono della fede. Rimase a lungo immobile, incapace di proferire parola, paralizzato dalla colpa. Quindi lasciò la ciocca di capelli e abbassò con delicatezza le palpebre sugli occhi della giovane sconosciuta. Si alzò da terra con un’espressione spaventosa dipinta sul volto contratto. Si diresse a grandi passi verso l'auto parcheggiata a pochi metri di distanza e partì sgommando. Bridget comprese immediatamente: Thomas era intenzionato a fermare John Fisher ricorrendo a qualsiasi mezzo, legale o no.

    S’impossessò di un’auto di servizio e si lanciò all’inseguimento dell’amico, sperando di arrivare in tempo per impedirgli di commettere il più grosso sbaglio della sua vita. Parcheggiò in mezzo alla strada e si precipitò nella sonnolenta biblioteca del paese. Lo trovò accanto ad un corpo che si contorceva come un lombrico colpito dalla vanga di un contadino. Il sangue colava copioso rigando il volto di John. Thomas stringeva implacabile la sua pistola, deciso a risolvere in modo definitivo quella questione. Gli occhi, diventati inespressivi come schegge di vetro, tenevano il sospettato sotto tiro.

    «Vattene! Immediatamente!» ordinò a Bridget, con voce surreale.

    «Non mi muoverò da qui. Butta quell'arma, Thomas! Lo fermeremo come abbiamo sempre fatto...» rispose, cercando di mascherare il terrore che provava. Gli si avvicinò lentamente, nella speranza di convincerlo a desistere dal suo folle piano.

    «È troppo tardi ormai. Questo bastardo deve morire!» ringhiò Thomas, agitando la pistola d’ordinanza verso l’uomo. Il suo volto era paonazzo e gli occhi grigi fiammeggiavano.

    «Getta quella dannata arma, Thomas!» la voce le tremava. «Avanti, gettala!»

    Che cosa poteva fare? Estrasse anche lei la sua pistola, puntandola contro l'amico. Chiaramente non aveva alcuna intenzione di sparargli, ma doveva trovare il modo di fermarlo. La sua mente sconvolta vagava alla ricerca di una frase che fosse in grado di compiere il miracolo. Il buio assoluto, finché una lampadina si accese nel suo cervello, rischiarando ogni cosa. L’aveva trovata! Aveva trovato il modo per fermarlo.

    «Non farmi questo, ti prego. Ho bisogno di te. Non puoi lasciarmi da sola!»

    Scosse il capo convulsamente. «No! Non farlo! Riprendi il controllo, Tom! Continua ad essere il mio punto di riferimento! Sei l’unica persona che mi resta… Ti prego! Non sporcarti le mani per un simile bastardo!»

    Thomas la guardò allibito. Nei suoi occhi un misto di stupore e di rassegnazione. Quindi abbassò l'arma.

    «Brava, hai giocato bene le tue carte!»

    Già, l'aveva fatto. Non vi era argomento al mondo che avesse più presa su di lui.

    Bridget tentò di coprirlo, proteggendolo dall’ira dell’Agente Speciale Supervisore Matthews, l’uomo a capo dell’Unità di Analisi Comportamentale. L'unica cosa che ottenne, tuttavia, fu un trasferimento con decorrenza immediata a Parigi. Nel frattempo John Fisher confessò tutti gli omicidi, a parte quello della giovane ragazza bionda che non erano riusciti a salvare. A quella poveretta, evidentemente, non era stato concesso il lusso di ottenere giustizia.

    Con il passare degli anni Thomas e Bridget erano diventati una persona sola, con un’unica mente. Nel bene e nel male. Loro rappresentavano una squadra a sé, che faticava a collaborare con gli altri elementi della Behavioral Analysis Unit. Un fatto inaccettabile per il Dipartimento. La loro punizione, pertanto, doveva essere qualcosa di esemplare per entrambi. Il bureau doveva uccidere quella duplice creatura che ormai sfuggiva al suo controllo. E lo fece mettendo l’oceano fra i due. Lì era finita quella parte della loro vita, che ora a Bridget sembrava tanto lontana nel tempo, quanto vicina nei sentimenti, quasi fosse uno strano sogno dal quale si era appena destata.

    Ti è mai capitato, lettore? Ti è mai capitato che la sveglia suoni proprio mentre sei immerso in un mondo parallelo, con le sue regole e i suoi personaggi? Ti è mai capitato di sentire per tutto il giorno quella strana sensazione, sempre più inspiegabile man mano che il sogno diventa meno nitido nei ricordi? Sentire che forze sconosciute ti hanno strappato via da qualcosa che stavi vivendo e che non sei riuscito a portare a compimento? Sperare di poterti riaddormentare al più presto, rientrando in punta di piedi in quel mondo effimero che hai prematuramente abbandonato, le cui sensazioni sono ben più forti di quelle evocate da una semplice fantasia? Confidare nel fatto che non sia troppo tardi per riprendere quell’avventura da dove l’hai lasciata? Ecco, Bridget si sentiva esattamente così.

    Inizialmente aveva scritto lunghe lettere a Thomas, ciascuna accompagnata dal disegno a carboncino di uno scorcio sempre diverso di Parigi. Egli, però, non le aveva mai risposto. Si era limitato ad inviarle puntualmente i regali di compleanno, insieme ad asettici bigliettini che ripetevano sempre le stesse, banali parole: "Tanti auguri, Bree. Spero che tu sia felice."

    Bridget credeva che lui l’avesse dimenticata. Si sbagliava. Thomas aveva bisogno delle sue lettere, come un naufrago portato alla deriva dalle correnti dell’oceano, che cerca disperatamente un bicchiere d’acqua dolce e un po’ di ombra. L’unico motivo per il quale lui non le aveva mai risposto era che le voleva troppo bene per tenerla legata a sé. Desiderava che lei vivesse, non semplicemente sopravvivesse.

    Guardando quei disegni, egli immaginava di poterla avere di nuovo accanto, con il suo sorriso spontaneo e le sue battute talvolta pungenti. Le uniche in grado di penetrare la sua corazza. Chiudeva gli occhi e ripensava ad un passato che, a differenza delle sue fantasie, almeno per una volta si era confuso con la realtà.

    Bridget era cresciuta. Il soggiorno a Parigi le aveva permesso di diventare una bella donna, sicura di sé e delle sue capacità. I lunghi e liscissimi capelli del colore del cioccolato fondente le accarezzavano le spalle, mentre sorseggiava quietamente un caffè bollente. Stretta in un paio di jeans slavati e in un maglioncino bianco a trecce, che lasciava intravedere il ventre piatto e muscoloso, teneva gli occhi scuri fissi dinnanzi a sé. Il suo corpo, tonico e snello come quello di una liceale, non era cambiato granché. Modellato da anni di sport e da lunghe corse mattutine, non sembrava invecchiare con la stessa rapidità della sua anima.

    Per qualche strano motivo, Bridget amava la fatica. Si sentiva davvero bene solo quando crollava distrutta sul divano di pelle nera di Thomas, dopo aver sfogato nella corsa tutte le tensioni che derivavano dal suo lavoro. I muscoli che le dolevano sembravano poterle regalare qualche attimo di pace interiore.

    Il divano di Thomas…

    Sorrise, appoggiando la tazza di caffè sul tavolino. Nel tempo trascorso lontana da lui aveva imparato a contare di più su se stessa e meno sugli altri. Ora che Thomas era a poche miglia di distanza, però, si sarebbero dovuti rivedere. Era pronta? Il suo stomaco iniziò a fare le capriole, mentre la mente era impegnata a ricostruire il volto dell’amico. Non doveva neppure sforzarsi, giacché ogni centimetro di quel viso era impresso nella sua memoria in maniera indelebile.

    Il locale era piuttosto affollato, eppure lei non vedeva nessuno. Le immagini del passato si imponevano alla sua mente, accompagnate da un’emozione talmente intensa, da diventare quasi dolorosa.

    Quell’improvviso richiamo in patria l’aveva inevitabilmente turbata. A Parigi era cresciuta. Si era abituata a vivere come una persona adulta, controllando le emozioni in modo che queste non raggiungessero mai un’intensità tale da destabilizzarla. Non aveva più sentito le farfalle nella pancia, né un nodo alla gola. Le sue giornate erano faticose, ma seguivano ubbidienti la tabella di marcia che lei imponeva loro. Pensava che la sua vita fosse cambiata in modo irreversibile, ma si sbagliava.

    Si guardò intorno. Il nuovo proprietario aveva fatto rivestire l’intero locale con assi di noce, nel tentativo di renderlo più accogliente. Ogni tavolino aveva la sua tovaglia a quadretti rossi con i bordi sfrangiati, sulla quale la cameriera aveva appoggiato minuscole piantine di Kalanchoe Blossfeldiana dai fiori scarlatti e una piccola candela bianca, rotonda come una palla di neve. Bridget notò che c’era un netto contrasto tra quell’atmosfera rassicurante e il freddo buio che dominava ogni cosa fuori dal locale.

    Si era fatta portare la specialità della casa, come l’aveva definita la giovane cameriera ispanica. Era una fetta di torta di mele servita tiepida, che profumava di cannella. Stava giocherellando distrattamente con la forchetta, quando una voce, quella voce, richiamò la sua attenzione.

    «Mio Dio, ma sei proprio tu! La mia piccola Bridget!»

    Sussultò dinnanzi al volto dell’amico.

    «Beh, non più tanto piccola… Come stai? Sembri in gran forma!» gli occhi di Thomas sorridevano, nonostante l’ombra di un dolore non ancora assopito minacciasse di prendere il sopravvento.

    Quello sguardo fece fare gli straordinari al cuore di Bridget.

    «Thomas!» si alzò in piedi facendo quasi cadere la sedia dietro di lei. Corse incontro alla figura alta e slanciata e si aggrappò alle larghe spalle che l’avevano fatta sentire protetta in così tante occasioni. Thomas era abbastanza muscoloso, ma nel complesso ancora più magro di quanto lei riuscisse a ricordare. Gli occhi di un tenue colore tra il verde e il grigio sembravano molto stanchi. Thomas abbassò il bel viso, incorniciato dai capelli mori lunghi qualche centimetro di troppo, su di lei. Era pensieroso, nonostante il caldo sorriso che aleggiava sulle sue labbra. Indossava un elegante abito scuro in lana, una camicia bianca e una cravatta color platino, resa ancora più rigorosa da sottili oblique righe nere. Era sempre stato un bell’uomo, virile e raffinato. La natura gli aveva donato lineamenti regolari e labbra moderatamente carnose e ben disegnate. Ma erano i suoi occhi a conferirgli quel fascino fuori dal comune. In essi era custodita la chiave dell’immenso carisma dell’agente speciale Thomas Brown. L’amica non poteva trattenersi dall’osservarli sempre con ammirazione e, in fondo al cuore, una punta di invidia. Quello sguardo era in grado di rapire il prossimo e di portarlo esattamente dove desiderava. Sapeva essere caldo e luminoso, vitale, ma anche freddo e distante. Sapeva manifestare chiaramente le emozioni di Thomas, oppure celarle dietro al suo bagliore metallico.

    Bridget si era domandata spesso perché un uomo di tale valore fosse ancora solo. La risposta era banale. Non erano certamente le occasioni a mancargli. Semplicemente non aveva voglia di legarsi ad una donna. Ogni volta che una persona cercava di avvicinarsi a lui, puntualmente riusciva ad allontanarla con il suo disinteresse, dando l’impressione di non poter sopportare nessuno, a parte Bridget. Lo faceva apposta, senza ombra di dubbio. Ma perché? La sua intenzione era davvero quella di restarsene per sempre da solo?

    Da quando Bridget era partita per Parigi, gli era stato assegnato un nuovo compagno, Andrew Hayes. Un ragazzo profondamente diverso da lui, tanto nella personalità, quanto nell’aspetto fisico. Al di là di ogni previsione, fra loro era nata una moderata amicizia, fondata sulla bonaria e rispettosa tolleranza dei rispettivi caratteri.

    Quella sera Andrew sedeva accanto a Thomas proprio davanti al bancone. Arrampicato sullo sgabello di legno, teneva stretta nella mano una bottiglia di birra bianca gelata. Udendo il suo nome, si era voltato a guardare Bridget incuriosito. Aveva sentito parlare di lei dai colleghi, ma mai da Thomas. Lui non l’aveva nominata neppure una volta durante gli ultimi tre anni, quasi non fosse mai esistita. Sapeva essere, tuttavia, un acuto osservatore: ai suoi rassicuranti occhi blu non era sfuggita l’inconsueta luce che aveva illuminato per un attimo lo sguardo di Thomas e che, in tutta onestà, poteva dire di non aver mai scorto nel collega.

    Bridget non gli era indifferente come inizialmente aveva pensato, tutt’altro! Decise quindi di restarsene in disparte, concedendo ai due amici un po’ d’intimità. Voleva osservare quell’incontro dall’esterno, senza influenzarne inavvertitamente l’esito.

    «Come stai, Thomas? Sono secoli che non ho tue notizie!» il suo volto si fece immediatamente più severo. «Non hai mai risposto alle mie lettere.»

    Bridget aveva desiderato più di ogni altra cosa al mondo di poter nuovamente incontrare l’amico, eppure non era riuscita a trattenersi dall’esordire con un banale rimprovero.

     «È vero» rispose l’uomo con apparente noncuranza, evitando di guardarla negli occhi. Sarebbe stato inutile cercare di negare l’evidenza. In ogni caso non era sua abitudine farlo. Si concentrò sull’importante compito di grattare via con l’unghia l’etichetta dalla bottiglia di pregiata birra belga triplo malto, mentre Bridget aspettava inutilmente una spiegazione che non sarebbe arrivata.

    «Com’è Parigi?» chiese alla fine, rendendosi conto che il silenzio stava diventando imbarazzante. «Dai disegni che mi hai mandato sembra davvero molto bella!» sorrise distrattamente.

    «Ha un fascino particolare, credo che potrebbe piacerti!»

    Thomas annuì. La splendida atmosfera che per pochissimo aveva aleggiato fra loro sembrava essere andata irrimediabilmente in frantumi. Quanto avrebbe desiderato poter fermare il tempo a quei primi, meravigliosi istanti nei quali si erano semplicemente abbracciati!

    «Devo proprio visitarla» si voltò per appoggiare la bottiglia vuota sul tavolino. «Forse a febbraio.»

    Con un cenno ordinò alla cameriera un’altra birra.

    «Ti sei finalmente deciso a prendere qualche settimana di riposo?» Bridget riprese a torturare con la forchetta ciò che restava della sua fetta di torta.

    «No. Sai che le ferie non fanno per me!» accennò appena un fugace sorriso. «Lascio l’Fbi» fece quell’annuncio con la massima naturalezza, quasi si trattasse di una sciocca osservazione sul tempo, apparentemente inconsapevole dell'effetto che esso avrebbe avuto sul resto del mondo.

    «Cosa? Mi stai prendendo in giro?» protestò incredula la donna. «Come sarebbe a dire che lasci l’Fbi? Tu sei nato per fare questo lavoro! È tutta la tua vita, non puoi andartene! Sai di essere il migliore!»

    Bridget si sentiva sbalordita e delusa. Era pronta ad affrontare tutto, a parte ciò che stava accadendo. Mai avrebbe pensato di sentire parole simili provenire dalla bocca dell’amico.

    «Prenderai tu il mio posto. In fondo ti ho insegnato tutto quello che sapevo, no? Sei pronta a succedermi, ora che per me è giunto il momento di ritirarmi. Per questo ti ho fatta richiamare a Quantico. C’è un assassino da catturare ed io non ho intenzione di fermarmi più del necessario.»

    Bridget pensò sprezzante che in quell’uomo freddo e riservato non sembrava esserci traccia dell’amico che per tanti anni le era stato accanto. Strano, giacché a detta di tutti erano proprio quelle le caratteristiche di Thomas che saltavano di più agli occhi!

    «E quanto sarebbe il necessario? Non è da te abbandonare un caso prima di averlo chiuso!»

    Bridget cercò di incrociare lo sguardo dell’amico, senza tuttavia riuscirci.

    «Dopo tanti anni di servizio e quasi un migliaio di casi ho imparato che non è mai il momento giusto per allontanarti da questo lavoro. C’è sempre qualcuno da fermare e qualcuno da salvare. L’unica persona che non hai mai il tempo di salvare è te stesso! Bridget, io sono stanco di questa vita. Basta con le menti turbate da chissà quali incubi, basta con gli omicidi!»

    L’unghia del pollice si muoveva convulsamente sulla superficie della bottiglia, nel tentativo di grattare via i residui di colla dal vetro. Se Bridget avesse potuto guardarlo negli occhi, non le sarebbe sfuggita la disperazione che vi dimorava. In pochi minuti si erano trasformati a tal punto, da non sembrare neppure gli stessi. Tipico di Thomas!  Un momento prima il suo sguardo era limpido e subito dopo diventava inquietante ed oscuro come quello di un basilisco.

    «Voglio farla finita con questo lavoro, che ti logora ogni giorno di più, che ti crea il vuoto intorno e nell’anima. A questo punto della mia vita credo di dover cambiare strada. Negli anni ho messo da parte una discreta fortuna. Posso tranquillamente vivere di rendita, anche senza ricorrere ai beni della mia famiglia. Nei prossimi mesi parteciperò a diversi convegni. È un impegno che, ahimè, ho preso da tempo e dal quale, anche volendo, non posso esimermi. Poi, però, acquisterò una barca a vela, una dozzina di libri e mi allontanerò il più possibile da questo luogo. In fondo non credo che sia troppo tardi per cambiare vita!»

    «Cambiare vita? Tu?» Bridget sgranò gli occhi scuri. «Thomas, sei impazzito? Quante birre hai bevuto?»

    L’uomo sorrise mestamente.

    «Due.»

    «Non ti riconosco più. Si può sapere cosa ti è successo in questi ultimi tre anni?» la voce della donna si era fatta più acuta.

    «Nulla, è questo il punto! Ormai ho deciso, Bridget… Ti prego di rispettare le mie scelte. Adesso seguimi, ti presento il tuo nuovo compagno di viaggio.»

    Capitolo 2

    Per Bridget quella fu la seconda notte insonne di una lunga serie. L’incontro con Thomas le aveva lasciato l’amaro in bocca, deludendo le sue aspettative. Durante il lungo volo aereo del giorno prima, il copione del dialogo tra lei e l’amico aveva tenuta impegnata la sua mente per diverse ore. Su un palcoscenico immaginario Bridget aveva recitato infinite volte le sue battute. Sapeva di essersi preparata a dovere, di aver fatto il giusto numero di prove, eppure qualcosa era sfuggito al suo controllo. Un dettaglio apparentemente insignificante, ma sufficiente a mandare in frantumi la sua ambizione di uno spettacolo perfetto: non aveva considerato la possibilità che le cose non si svolgessero come da lei previsto. Un errore davvero banale da commettere. Fin da subito la realtà aveva preso le distanze dalla sua scenografia. Il luogo e il momento non erano quelli giusti, così come le battute di Thomas. Essendo trascorsi diversi anni, si aspettava un certo grado di imbarazzo tra di loro, ma non una simile freddezza. Per non parlare delle dimissioni dell’amico! Dentro di lei covava l’illusione di poter cancellare con un battito di ciglia quei tre anni. Aveva voluto credere con tutta se stessa che vi fossero convincenti motivi per il lungo silenzio di Thomas. In quello scenario, una semplice spiegazione avrebbe potuto mettere tutto a posto, ponendo fine una volta per tutte alle numerose congetture che negli anni la sua mente aveva dovuto elaborare.  Ma era l’ennesima speranza destinata a infrangersi contro lo scoglio della realtà.

    Ora, accanto alla sensazione che qualcosa d’importante le stesse sfuggendo, vi era anche la preoccupazione per le nuove rivelazioni di Thomas. Le sue dimissioni dall’Fbi? Erano un avvenimento talmente improbabile, da non essere mai stato preso in considerazione dalla sua mente. Andrew? Fino a poche ore prima non sapeva neppure della sua esistenza. E queste sarebbero state solo alcune delle novità alle quali avrebbe dovuto adattarsi nelle settimane successive. Certo, avrebbe pur sempre potuto prendere un altro aereo e ritornare a Parigi, dove sarebbe stata accolta a braccia aperte da quei colleghi che aveva gradualmente imparato a conoscere e ad apprezzare. Supponendo di essere una persona diversa… Sì, avrebbe potuto farlo! Ma non era nella natura di Bridget Young abbandonare la squadra nel bel mezzo di un’emergenza, soprattutto se pensava di potersi rendere utile.

    Bridget non scappava mai, vero?

    L’incontro con Thomas l’aveva costretta ad improvvisare, arte nella quale non era mai stata abile. In altre circostanze sarebbe stata una piacevole sfida, ma non in quell’occasione. C’erano troppe emozioni in gioco. Continuava a passare in rassegna i pochi elementi che aveva in mano ed aumentava in lei la consapevolezza di quanto stridessero l’uno contro l’altro. Tre anni di silenzio, la mancanza di un chiarimento ormai necessario, la freddezza dell’amico e poi quelle parole, pronunciate con noncuranza: mia piccola Bridget. Termini senz’altro affettuosi. Eppure…

    Si girava fra le lenzuola tiepide, accendeva e spegneva la luce, strapazzava il cuscino. I minuti trascorrevano con una lentezza esasperante, mentre le tenebre non si decidevano ad abbandonare l’orizzonte. La speranza che l’alba potesse portare un po’ di chiarezza in mezzo a tutta quella confusione la induceva ad attendere con impazienza il trillo della sveglia. Le sue gambe scalciavano le lenzuola. Madida di sudore, cercava nell’aria fresca della stanza un sollievo momentaneo da un disagio fisico solo apparente. Una panacea che funzionava solo per qualche minuto. Quindi subentravano spiacevoli brividi di freddo. Com’era possibile che il corpo le mandasse segnali così discordanti nel volgere di pochi istanti? Le mani si affrettavano a ricercare nel buio della stanza le lenzuola ancora tiepide e il ciclo si ripeteva all’infinito.

    Sembravano esserci troppe risposte possibili alle domande che tormentavano la sua mente, accomunate da un’unica inquietante certezza: c’era qualcosa che le sfuggiva, una verità nascosta da svelare. Nonostante la consapevolezza di aver bisogno di un lungo sonno ristoratore, gli occhi di Bridget restavano inesorabilmente spalancati nel buio. Per un paio di volte era stata persino sul punto di alzarsi dal letto, vestirsi e uscire dalla stanza d’albergo, diretta verso il loft di Thomas, ma a quell’idea nuove domande le echeggiavano nella mente. Abitava ancora in quel luogo? C’era qualcuno con lui? Ormai non sapeva molto del suo vecchio amico. No, non poteva farlo! Doveva controllarsi. Aveva atteso tre anni, qualche ora in più non sarebbe certo stata una tragedia! Poteva? Davvero?

    Doveva.

    Fine del discorso.

    Ad un certo punto riuscì persino ad addormentarsi, ma il sonno leggero fu turbato da uno sogno ricorrente che da qualche tempo la perseguitava.

    Sono in piedi in un luogo sconosciuto. Davanti a me la banchina di un porto. Alle mie spalle alcuni passeggeri scendono da un traghetto grigio. Seguendo la folla, mi dirigo con passo deciso verso una scala di metallo. Uomini, donne, bambini si fanno sempre più numerosi, frapponendosi tra Thomas e me. Giunta in cima alla ripida scalinata, il mio braccio urta uno sconosciuto. La sua virile figura solletica la mia memoria, ma non riesco ad afferrarne l’identità. Lo conosco? L’uomo lascia cadere una biglia di vetro, azzurra come un limpido cielo estivo, che rotola giù per le scale fino a scomparire nell’acqua grigia. Il rumore del vetro che colpisce ripetutamente il metallo è assordante. 

    Svolto a sinistra, intorno ad un basso edificio di cemento con una scritta rossa sulla facciata. Biglietteria. Ha ampie vetrate ad altezza d’uomo. All’interno non sembra esserci nessuno. Stranamente non sento l’esigenza di guardarmi indietro, pur sapendo che Thomas è alle mie spalle. Ogni cosa intorno a me è grigia, cupa. Fa freddo e sta per piovere.

    All’improvviso il panorama muta drasticamente. Le bancarelle di un lunapark mi circondano come se volessero soffocarmi. Le loro luci variopinte, che tentano invano di illuminare il cielo plumbeo, mi additano accusandomi di un ignoto peccato. Una giostra ruota davanti a me, emettendo una musica familiare. La musica del carillon che mia madre mi regalò quando compiei nove anni.

    Mamma…

    Un lampo trafigge le mie sinapsi. Dov’è Thomas? Mi rendo conto che non è più dietro di me. La cosa non mi stupisce, una parte di me lo sa da tempo. Mi guardo intorno spaventata. Provo a chiamarlo, ma l’aria non vuole uscire dai polmoni. Le labbra sembrano sigillate da una forza misteriosa, che ha trasformato in pietra i muscoli del mio corpo. Non potendo fare altro, resto ferma in mezzo alla strada.

    Thomas…

    Thomas, dove sei?

    Amico mio, dove sei?

    Nel mio cuore cresce un terribile presentimento, con la forza di una pianta parassita che soffoca tutto ciò che le sta intorno.

    Il cuore inizia a battermi forte nel petto. Devo muovermi! Devo salvarlo! Lentamente il sangue ricomincia a circolare nelle mie gambe. A contatto con quel tepore vitale, il ghiaccio che mi obbliga a restare immobile scricchiola, s’incrina, si scioglie.  Un passo, due, tre… Posso di nuovo muovermi. La scala di metallo che ho già percorso non è molto lontana.

    Thomas è in pericolo, lo sento. Un palloncino rosso sfugge dalle mani di un bambino con corti capelli biondi come l’oro. Alzo lo sguardo verso il cielo, aspettandomi di vedere quell’oggetto diventare sempre più piccolo, mano a mano che si allontana. Violando una legge fondamentale della percezione, tuttavia, esso inghiotte un centimetro dopo l’altro ogni cosa, come una macchia di sangue che si espande sul pavimento grigio.

    Con una mano invisibile che mi attanaglia la gola e il cuore che mi tamburella vivace nel petto, riprendo la corsa verso il traghetto. Ansando, riesco a raggiungere Thomas appena in tempo. È davvero in pericolo! L’ombra proiettata dal misterioso terzo uomo lo sta divorando. Allungo una mano sotto la giacca scura macchiata da riflessi sanguigni ed estraggo la pistola. Non riesco a vedere nulla, ma sento la fredda carezza dell’acciaio sulla punta delle dita. Cerco di mirare all’ombra che mi sta dinnanzi, ma non capisco dove finisce la mia mano e dove inizia la Glock.

    All’improvviso una voce maschile inizia a chiamarmi. Sussulto. La sento nell’aria, la sento nella mente, la sento in ogni centimetro del corpo.

    Bridget, Bridget… Svegliati… Torna qui con noi… Bridget! Coraggio, Bridget…

    Una voce ferma e vellutata, che sa essere nello stesso tempo tranquilla ed inquietante.

    Proprio come era accaduto a Parigi poche settimane prima, spalancò gli occhi e scattò a sedere con la violenza di uno di quei giocattoli a molla in voga tanti anni prima. Il suo petto si sollevava ritmicamente, nel tentativo di riportare l’intero sistema alla normalità. Quel sogno era in grado di sconvolgerla, buttando all’aria ogni parvenza di equilibrio. Al suo risveglio provava sensazioni così penetranti da toglierle il fiato, che lasciavano un segno indelebile nella sua mente per il resto della giornata. Nonriusciva ad interpretare quel sogno agghiacciante. Ricordava perfettamente le sensazioni provate, ma non sapeva quale fosse il pericolo che minacciava l’esistenza dell’amico, né a chi appartenesse la bella voce maschile, profonda e calma, che la chiamava ripetutamente.

    Bridget sentiva che Thomas aveva bisogno del suo aiuto. Avvertiva l’urlo disperato che proveniva dal cuore sanguinante dell’amico, ma non sapeva come fare per tamponare la sua ferita. Il suo amico  era davvero in pericolo?

    Udendo il suono della sveglia, Bridget si alzò con un tale slancio da far cadere a terra le lenzuola candide. Cacciò con un gesto stizzito della mano ogni titubanza, nel timore che la naturale pigrizia mattutina potesse affievolire la sua determinazione.

    Esausta, confinò in un angolo buio dalla sua mente tutti i pensieri che l’avevano tenuta sveglia durante la notte. La luce del giorno, come al solito, l’aiutò a ridimensionare di molto le sue angosce. In fondo si trattava solo di un brutto sogno! Gettò sul letto il pigiama in seta blu e si rifugiò sotto il getto della doccia. Un rassicurante senso di benessere l’avvolse. Rabbrividì di piacere a contatto con l’acqua bollente, mentre le gocce scendevano voluttuose sulla sua pelle fresca, accarezzandola con la delicatezza di lunghe dita maschili.

    Passarono alcuni minuti prima che si decidesse ad abbandonare quella piccola parentesi ristoratrice. Avvolta in un asciugamano che profumava di bucato, si guardò allo specchio cercando di decidere se raccogliere i capelli o lasciarli sciolti. Quindi massaggiò sul corpo snello la crema al caprifoglio che le aveva regalato Michelle, un’amica conosciuta grazie al suo impiego a Parigi. L’aroma fiorito si fece strada nelle sue narici. Quel profumo le riportava alla mente circostanze piacevoli e luoghi del passato che aveva amato.

    Si liberò dell’asciugamano e con la pelle ancora umida camminò nuda per la stanza, come una ninfa coperta dalla fresca rugiada del mattino. Scelse un tubino di lana nera con la gonna al ginocchio, sobrio e femminile. Indossò velocemente la sottoveste di seta, le calze e un paio di décolletés nere.

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