Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'ho fatto per te
L'ho fatto per te
L'ho fatto per te
E-book330 pagine4 ore

L'ho fatto per te

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Esiste il crimine perfetto? Samuel Moss dice di no, e ha appena finito di spiegarlo ai suoi studenti del corso di Criminologia dell’università di Lazillac, quando viene contattato dalla commissaria di polizia del paese. Jade Grivier, editrice e scrittrice di enorme successo ma vittima di un terribile blocco creativo, si è suicidata nella sua villa. La commissaria però non è convinta si tratti davvero di suicidio, e vuole chiedere proprio a Moss di indagare sul caso. Samuel è un uomo stravagante, dalle molteplici manie ossessive, ma è anche un detective geniale, e si accorge immediatamente che la tesi del suicidio non sta in piedi. Provarlo, però, sembra impossibile: non c’è un movente credibile e tutti gli indiziati hanno un alibi di ferro. È stato commesso davvero il crimine perfetto?
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2018
ISBN9788863938371
L'ho fatto per te

Correlato a L'ho fatto per te

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'ho fatto per te

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'ho fatto per te - Laurent Scalese

    1

    Villa del duca de Guise

    Morgane riaprì il libro di storia con un sospiro annoiato.

    L’adolescente faceva fatica a concentrarsi sulle materie che non la interessavano. Dopo aver pranzato assieme a Jade, la moglie di suo padre, era salita a ripassare in camera sua, al primo piano della villa. Buttata sul letto sfatto, con un pacchetto di caramelle gommose a portata di mano, si sforzava di imparare a memoria il capitolo sull’invenzione della cittadinanza nel mondo antico. Gli studenti di seconda del liceo Saint-Lazillac avrebbero avuto una verifica su questo tema il giorno seguente, e la signora Rhodes, professoressa di storia e geografia, aveva assicurato che sarebbe stata impegnativa. Morgane quella proprio non la poteva vedere. Secondo Luc, il ragazzo in classe sua che assomigliava al cantante Matt Pokora senza barba, e del quale era segretamente innamorata, se la Rhodes era sempre nervosa era perché «non scopava abbastanza». Cindy, la sua migliore amica, attribuiva invece l’irritabilità e il sadismo dell’arpia alla menopausa. Morgane, che non aveva mai sentito quella parola, l’aveva cercata su Google. All’inizio si era spaventata, ma poi si era detta che le mancavano ancora molti anni bellissimi prima di arrivarci. In seguito, si era sorpresa però a provare compassione per la povera Louise

    Rhodes. 

    Richiuse di nuovo il libro.

    Nonostante i suoi tentativi, non era proprio in vena di studiare. Se solo Jade non le avesse sequestrato l’iPod e il cellulare mentre faceva i compiti. Le piaceva vivere con le orecchie traboccanti di musica, inviare sms ai suoi amici, postare delle foto e dei video su Instagram e Snapchat. Se la prendeva con la moglie di suo padre quando le toglieva le cose che la rendevano felice, ma sapeva che lo faceva per il suo bene. Comunque, non rimaneva mai arrabbiata a lungo con Jade.

    Le voleva molto bene e la considerava come la sua vera madre.

    L’altra – così chiamava la donna che l’aveva messa al mondo quindici anni prima – aveva abbandonato il tetto coniugale quando lei aveva otto anni. Quel mostro di egoismo aveva lasciato il padre e lei per un amore di gioventù. Un tizio che si atteggiava da artista ma faceva una fatica pazzesca a vendere le sue croste, così astratte che non ci capiva niente nessuno. Le ultime notizie li davano a Londra, dove affittavano nel quartiere di Peckham un bilocale pulcioso al confine dell’insalubrità. Sbarcavano a malapena il lunario. Morgane non poteva non pensare che fosse stato il destino a punire Lucie – era questo il nome dell’altra. Tuttavia, i suoi problemi non la rallegravano. A dire il vero non provava né gioia né odio, solo indifferenza.

    In fin dei conti infatti, sia per il padre che per la figlia, il cambiamento era stato vantaggioso.

    Jade aveva portato loro una stabilità sia affettiva che finanziaria.

    Moog, il persiano che Morgane aveva ricevuto a Natale, le sonnecchiava vicino con gli occhi socchiusi. La ragazzina lo accarezzò e il gatto iniziò a fare le fusa. Poi Morgane si alzò e si avvicinò al bow-window incorniciato da spesse tende di velluto. Si appoggiò con la fronte al vetro e contemplò il cielo. Il sole giocava a nascondino con le nuvole, era previsto un acquazzone a fine giornata. Quando non ascoltava la radio o le canzoni dei suoi manga preferiti, Morgane adorava il suono della pioggia. Un’ondata di tristezza la assalì, di quelle che la sommergevano di tanto in tanto senza che sapesse il perché. Quante volte le avevano detto che era del tutto normale, che l’adolescenza era l’età della malinconia, della noia, della ribellione? In fondo si stava cercando, e aveva fretta di trovarsi, tanto che i suoi genitori temevano crescesse troppo in fretta, bruciando le tappe. Infatti, non esitavano a parlarle di quei bambini che fanno dei bambini.

    Il gatto, svegliatosi, si stiracchiò pigramente e saltò giù dal letto e uscì dalla stanza. Qualche secondo più tardi, come si aspettava, sentì il cigolio caratteristico della porta sul retro che dava sul giardino all’inglese. Durante il giorno Morgane la teneva aperta con una zeppa di legno per permettere a Moog di uscire quando voleva. La sera, dopo essersi assicurata che il gatto fosse rientrato, la chiudeva e metteva il catenaccio. Se per caso se ne dimenticava, Jade la richiamava all’ordine.

    Lo stridio di una sedia spostata al pianterreno la distolse dai suoi pensieri. Jade doveva essere nel suo studio, occupata a rileggere un passo del prossimo romanzo. Quasi sessantenne, quella donnina era una stacanovista. Ogni giorno si imponeva una disciplina di ferro. Dedicava la mattina alla scrittura e il pomeriggio alle correzioni. Una cosa non variava mai: fino a che non aveva scritto le sue sei pagine quotidiane, non abbandonava la poltrona. Morgane ammirava la sua capacità di stare tutto il giorno chiusa in casa e di sopportare la solitudine. Era senz’altro il prezzo da pagare per riuscire a pubblicare un libro all’anno ed essere sulla lista dei best seller. Lei non aveva mai letto nessun romanzo di Jade e aveva degli ottimi motivi per non farlo. Le saghe storiche strappalacrime erano una roba da vecchie. Bastava guardare le lettrici che facevano la fila ai saloni del libro per farsi fare una dedica dalla grande Jade Grivier.

    Una sottile corrente d’aria entrò dalla porta socchiusa della sua camera, sulla quale era appeso un poster di James 

    Dean, una foto in bianco e nero scattata durante le riprese del Gigante. Questa scelta aveva sorpreso in primo luogo i genitori, poiché loro figlia normalmente non andava matta per le cose da vecchi. Fino a prova contraria, non aveva mai visto nessun film di Dean e non conosceva praticamente nulla della sua vita. Come al solito, erano rimasti disorientati. Ma non era tanto il bel faccione della star quanto il suo motto, scritto sotto la foto, che affascinava Morgane e risuonava intensamente dentro di lei. 

    Sogna come se dovessi vivere per sempre.

    Vivi come se dovessi morire oggi.

    Morgane sperava che Dean avesse avuto il tempo di applicare questa regola alla sua vita prima di ammazzarsi al volante della sua Porsche. Mentre tornava alla contemplazione del cielo, un rumore tanto violento quanto inatteso fece trasalire Morgane.

    Conosceva quel rumore. Una mattina, aveva fatto l’errore di accompagnare suo padre al poligono di tiro di Lazillac.

    Era la detonazione di un’arma da fuoco.

    Qualcuno aveva sparato in casa Grivier.

    «Jade!» urlò. 

    Non ottenne nessuna risposta.

    Sconvolta, si scagliò fuori dalla stanza e si precipitò giù per le scale scendendo quattro gradini per volta. Nella fretta rischiò di cadere. In extremis, riuscì ad afferrare il corrimano e ci sbatté il fianco. La paura ebbe la meglio sul dolore e continuò a scendere. Arrivata in fondo alle scale, corse quanto più veloce poteva verso lo studio della matrigna.

    «Jade!» urlò un’altra volta, senza fiato.

    L’adolescente si fermò davanti alla porta e, con le dita che tremavano, girò la maniglia.

    Jade stava seduta davanti a Morgane, di profilo, sulla poltrona girevole di velluto verde comprata a peso d’oro da un antiquario di Rueil-Malmaison perché era d’epoca napoleonica, un periodo storico che la appassionava. Era perfettamente immobile, con la testa riversa indietro. Un rivolo di sangue le colava dalla tempia lungo la guancia. Il proiettile era uscito dal lato opposto, proiettando dei pezzi di cervello sulla parete vetrata che lasciava entrare la luce a fiotti e offriva una vista panoramica del giardino. Il suo braccio penzolava quasi fino a terra. Sotto alla mano, sul parquet cerato, era caduta l’arma che aveva utilizzato per porre fine ai suoi giorni.

    Gli occhi di Morgane si riempirono di lacrime.

    Sua madre era morta.

    Il mondo le crollò addosso.

    Terrorizzata, si mise a urlare. 

    2

    Facoltà di criminologia e di diritto penale di Lazillac

    Ogni martedì pomeriggio gli studenti affollavano l’ingresso dell’aula in cui si teneva la lezione di criminologia, senza dubbio il corso più seguito e apprezzato della facoltà. Gli studenti, in maggioranza ragazzi, arrivavano sempre con un quarto d’ora di anticipo. Con il consueto trambusto, entravano nell’aula, prendevano velocemente posto sui centotrenta banchi disposti a semicerchio in file ad altezza crescente, e tiravano fuori dagli zaini computer portatili e tablet.

    Poi calava il silenzio.

    Attendevano l’arrivo del maestro di cerimonie.

    Quel giorno non faceva eccezione.

    La loro impazienza era tale che nessuno si accorse del giovane di circa venticinque anni seduto a lato in prima fila. Aveva i capelli scompigliati e scandagliava la sala con lo sguardo, come se stesse cercando qualcuno. Mentre si asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto, entrò nell’aula una coppia. I due parlavano e ridevano con aria complice. Quando li vide, il giovane impallidì. Lasciò cadere il fazzoletto, infilò la mano nella sacca di tela ai suoi piedi e, senza dare nell’occhio, ne estrasse una pistola. Mentre gli innamorati stavano per mettersi a un banco libero, si alzò di scatto. Senza preavviso, puntò l’arma al ragazzo, mirò al cuore e premette il grilletto.

    Si udì il boato dello sparo.

    Stupore e orrore si affacciarono l’uno dopo l’altro sul viso della vittima. Si toccò il petto, lì dove si stava allargando una macchia di sangue. 

    Infine, si accasciò al suolo.

    «No!» urlò la compagna.

    Inizialmente paralizzati dallo sgomento, gli studenti cedettero al panico. La maggior parte si precipitò verso l’uscita spintonando. Grida di terrore risuonarono nell’aula. Solo in tre ebbero la presenza di spirito e il coraggio di lanciarsi sull’omicida. Dopo averlo placcato a terra, gli strapparono la pistola dalle mani.

    Gli altri compagni di classe, sconvolti, non andarono molto lontano. Appena arrivati vicino all’uscita, le porte si aprirono e dei poliziotti in uniforme sbarrarono loro la strada. Uno di questi, più anziano degli altri, si fece strada tra la folla. Arrivato in mezzo all’aula si issò con fatica sulla pedana della cattedra, prese il microfono, schiacciò sul pulsante e, rivolgendosi a tutti con una voce stentorea per coprire il frastuono, gridò: «Calmatevi per favore!».

    Non ci fu nessuna reazione. Il microfono non funzionava. Lo rimise a posto con stizza e tirò fuori dalla tasca del pantalone un fischietto. Fischiò con tutte le sue forze, la faccia gli divenne rossa e le guance gli si gonfiarono come quelle di un trombettiere.

    La folla si zittì e si immobilizzò.

    Nel silenzio, un rumore attirò l’attenzione di tutti.

    Da qualche parte una porta stava dondolando sui suoi cardini.

    Le teste si alzarono verso i gradini che dividevano in due le file di banchi. Un uomo era entrato dalla porta a doppio battente in cima agli scalini. Fino a un minuto prima, quella porta era bloccata: diversi giovani avevano cercato inutilmente di fuggire da lì. L’uomo aveva una quarantina d’anni, dei capelli bruni portati corti lievemente brizzolati sui lati, un viso energico e al tempo stesso dolce, illuminato da occhi blu. I suoi vestiti casual e alla moda lo facevano sembrare più giovane. Portava una giacca ben modellata sopra una maglietta girocollo, dei jeans a sigaretta e delle Converse.

    Rimase fermo un momento a guardare l’aula con noncuranza.

    Poi scese le scale.

    Tutti lo osservavano. Ancora traumatizzati dalla scena alla quale avevano appena assistito, gli studenti provarono un misto tra sollievo e stupore nel riconoscere il loro professore. Per nulla sorpresi di vederlo, gli agenti lo salutarono come si saluta un superiore, sfiorando con le dita i cappelli.

    Oltre a essere insegnante all’università, Samuel Moss era un comandante della squadra crimini violenti di Lazillac.

    Si fermò all’altezza del banco sul quale si era seduto l’assassino.

    «Ecco esattamente quello che non bisogna fare per ammazzare qualcuno» esordì con voce forte e sicura, la voce di un professore che tiene una lezione.

    Si accovacciò sotto al banco fino a non essere più visibile. Dopo qualche istante si risollevò e brandì tra pollice e indice un fazzoletto.

    «Primo errore, l’omicida si è asciugato la fronte con questo fazzoletto. Abbiamo il suo sudore e quindi il suo dna.»

    Trattenne una smorfia. Evidentemente non sopportava il contatto con il fazzoletto bagnato. Un bagliore di incredulità attraversò gli sguardi degli studenti quando si avvicinò al cestino più vicino e vi buttò il fazzoletto. L’esperto poliziotto, specializzato in criminologia, aveva davvero appena inquinato una prova e l’aveva buttata nella spazzatura? Mantenuto faccia a terra dal trio che lo aveva immobilizzato, l’assassino non si dimenava più. Moss si avvicinò e si piegò per raccogliere la pistola che un giovane aveva allontanato con il piede.

    La mostrò alla classe girando il palmo in diverse direzioni perché tutti potessero vederla.

    «Secondo errore, non ha preso la precauzione di mettere dei guanti, il calcio è ricoperto di impronte.»

    «Tra cui le sue» intervenne una studentessa.

    Moss poteva sempre fare affidamento su Marie Drax per interromperlo e cercare il pelo nell’uovo. L’attraente ventiquattrenne sembrava essersi fissata lo scopo di dimostrare di saperla più lunga delle persone più grandi di lei. Il poliziotto non resistette alla tentazione di destabilizzarla, anche se per una volta aveva detto ad alta voce quello che gli altri stavano pensando in silenzio.

    «La sua capacità di osservazione si aguzza a ogni lezione, signorina Drax!»

    L’interessata arrossì, imbarazzata. In un altro momento la battuta avrebbe divertito i suoi compagni di classe che avrebbero sorriso o addirittura riso. Questa volta non sapevano come reagire. Tra l’omicidio commesso sotto i loro occhi e il comportamento quantomeno insolito di Moss, provavano una strana sensazione di irrealtà.

    «Terzo errore, ma non il meno importante…»

    Il comandante si interruppe per starnutire.

    «Scusate» disse con espressione imbarazzata. 

    Aggrottò la fronte in segno di riflessione.

    «Era rimasto al terzo errore» intervenne un giovane alla sua sinistra.

    Quando perdeva il filo, Alain Boullier si precipitava al suo soccorso. Vent’anni appena compiuti, un viso da bambino incorniciato da una criniera di boccoli, lo studente spilungone dava spesso l’impressione di avere la testa tra le nuvole. Invece era proprio il contrario. Durante le lezioni assorbiva tutte le spiegazioni del professore e si ricordava ognuna delle sue frasi parola per parola. Con una memoria del genere, non aveva bisogno di prendere appunti. Oltre ad avere un dono per ricordare le cose, lo aveva anche per capirle, e si era quindi meritato l’etichetta di genio. La maggior parte degli studenti e dei professori si sentiva a disagio in sua presenza, senz’altro perché coscienti di non essere all’altezza. Moss apprezzava invece le sue doti. Gli piaceva parlarci e imparava molto da lui.

    «Terzo errore, ha agito a viso scoperto davanti a dei testimoni» proseguì.

    Girò su se stesso in modo da posare lo sguardo su tutto il suo pubblico.

    «Una stanza piena di testimoni.»

    Arricciò il naso per contenere uno starnuto, poi si diresse verso la vittima. Il corpo era disteso ai piedi del semicerchio di banchi. Gli studenti e gli agenti fecero un passo indietro per lasciare passare Moss. La ragazza del defunto era inginocchiata vicino a lui. Il viso bagnato di lacrime, le spalle agitate da singhiozzi silenziosi, gli stringeva la mano. Dopo il colpo di pistola aveva lasciato cadere la sua borsa di cuoio, il cui contenuto era ora sparpagliato a terra.

    Il comandante si fermò a un metro dalla coppia.

    «Il movente apparente sembra la gelosia» decretò.

    Fece una pausa prima di proseguire: «Quanto, più o meno, per un crimine passionale?».

    Aveva posto la domanda senza rivolgerla a nessuno in particolare.

    «Quindici anni di prigione?» azzardò una voce maschile.

    «Esatto» approvò senza girarsi.

    Fece un segno con la testa alla ragazza di fronte a lui che smise subito di piangere e diede un colpetto sul braccio del morto. Quest’ultimo aprì gli occhi e rialzò il busto, come un vampiro nella bara che risorge dopo un sonno profondo. Vederlo tornare tra i vivi pietrificò gli studenti.

    Delle grida risuonarono nell’aula. 

    3

    Facoltà di criminologia e di diritto penale di Lazillac

    Moss alzò le mani per placare la classe. 

    «Niente panico, è una simulazione! Si tratta di una finta vittima…»

    Indicò il ragazzo trattenuto a terra e proseguì: «… e di un finto colpevole!».

    Scioccati, i tre ragazzi che avevano neutralizzato il tiratore allentarono simultaneamente la presa senza neanche rendersene conto. Il giovane barbuto ne approfittò per divincolarsi e raggiungere il comandante sulla scena del crimine fittizia. Quest’ultimo fece le presentazioni sorridendo.

    «Leslie, Alexandre ed Elie sono degli attori diplomati dell’accademia di Lazillac. Hanno talento, credo andranno lontano.»

    Mosso dal sollievo e dell’ammirazione, uno studente si mise ad applaudire, all’inizio senza fare rumore, poi più forte, e infine fragorosamente. Non ci volle molto perché tutti lo imitassero. Uno scroscio di applausi e fischi percorse l’aula. Quando l’ovazione si smorzò, il ragazzo tornato dall’aldilà aprì la cerniera della sua felpa e rivelò una tasca di plastica incollata sul petto all’altezza del cuore, lì dove era sembrato la pallottola lo avesse colpito. Un quarto d’ora prima dell’inizio della lezione, l’aveva attaccata con del nastro adesivo utilizzato dai tecnici cinematografici. Al momento dello sparo, gli era bastato schiacciarla per fare uscire il sangue finto che conteneva.

    Moss indicò la macchia sulla felpa dell’attore.

    «Sembra vero, no? È molto semplice da fare, basta del miele, del colorante alimentare rosso, dello sciroppo di fragole denso, del cacao in polvere e un po’ d’acqua.» 

    Aveva enumerato gli ingredienti con l’entusiasmo di uno chef che rivela la ricetta del suo piatto cavallo di battaglia. Come per provare che Moss non mentiva, il ragazzo affondò un dito nell’intruglio e se lo portò alla bocca come fosse una prelibatezza. Le reazioni furono immediate. Alcuni fecero delle smorfie di disgusto mentre altri si limitarono a distogliere lo sguardo.

    L’investigatore esibì nuovamente l’arma del delitto.

    «La pistola semiautomatica Bruni 92 è la replica della Beretta 92 FS. Calibro 9 mm PAK, spara solo a salve.»

    Dopo aver dato un’occhiata all’orologio, porse la Bruni a un agente in uniforme e batté le mani.

    «Va bene, la dimostrazione è finita. Il tempo passa e ho molte cose da dirvi!»

    Mentre gli attori uscivano sotto uno scroscio di applausi, Moss si rivolse al poliziotto che era salito sulla pedana.

    «Grazie, sergente.»

    Cinquant’anni passati da un pezzo, con il collo che gli spariva in mezzo alle spalle, Rufus Burban era basso ma aveva la corporatura vigorosa di un pugile peso medio, ed era sempre pronto a collaborare con il suo superiore. Moss usciva dai sentieri battuti, era impossibile da incasellare; seguendolo, si aveva la garanzia di vivere un’esperienza unica e istruttiva. Non tutti i colleghi di Burban la pensavano come lui. I metodi di Moss offendevano molti di loro. Si aggrappavano alle vecchie regole e alle vecchie abitudini, per chiusura mentale, per comodità, per interesse, o semplicemente per paura della novità e del cambiamento. Non vedevano – o non volevano vedere – che il sistema giudiziario si stava indebolendo, e che la sua unica salvezza era nelle mani di uomini come Moss. A suo modo, il comandante stava ponendo le basi della giustizia di domani.

    Burban era fiero di partecipare a questa avventura.

    «Comandi, capo» disse saltando dalla pedana.

    Si assicurò che nessuno stesse ascoltando e bisbigliò con tono complice: «Ci chiami quando ha bisogno di qualcosa, almeno si cambia un po’, non sempre la strada e le multe. E poi, ci piace tanto lavorare con lei».

    Moss sorrise. «E a me con voi. Facciamo come al solito.»

    Quello che sottintendeva era che la capa, la commissaria distrettuale Duteil, non avrebbe dovuto essere informata dell’intervento degli agenti.

    L’altro gli rispose facendogli l’occhiolino. «Non c’è problema.»

    Il sergente radunò la sua squadra. Mentre i poliziotti lasciavano compattamente l’aula, i ragazzi tornarono al loro posto. C’erano momenti per i giochi educativi – così Moss chiamava gli esperimenti ai quali sottoponeva gli studenti – e momenti per il lavoro. Attese che tutti fossero seduti per salire sulla pedana e sedersi con disinvoltura sul bordo della cattedra, come un professore che sta per mettersi a chiacchierare informalmente con uno studente. Tutti sapevano che non avrebbe detto nulla fino a quando non ci sarebbe stato silenzio. Non usava mai il microfono, né il resto del materiale sofisticato che l’aula aveva a disposizione, a cominciare da pc e proiettore. 

    Quando i rumori cessarono, prese la parola: «Da quando l’uomo è apparso sulla terra, le ragioni che lo spingono a uccidere sono rimaste immutate. L’odio, la gelosia, la cupidigia, la follia passeggera, la crudeltà, l’incapacità di distinguere il bene dal male. Il mio mestiere mi ha insegnato che ci sono due categorie di omicidio. L’omicidio premeditato e l’omicidio impulsivo. Il primo è molto più interessante. La premeditazione implica una preparazione mentale e fisica, poiché lo scopo è quello di non commettere errori. Questo ci porta al nostro tema di oggi: il crimine perfetto. Il crimine che sembra impossibile da risolvere o, meglio ancora, quello che non viene notato, che non si sospetta nemmeno possa essere un crimine».

    Saltò giù dalla cattedra e ci girò attorno.

    «Alcuni pensano che esista, altri che si tratti di un mito.»

    Si piazzò davanti alla lavagna nera a pannelli scorrevoli e scrisse in grande con il gessetto, in modo che tutti riuscissero a leggere:

    Esiste il crimine perfetto?

    «Io ho il mio parere. Mi piacerebbe sapere il vostro.»

    Aveva parlato con un tono al tempo stesso divertito e di sfida. Non dovette attendere a lungo prima che uno studente si lanciasse, nella fattispecie Stéphane Cristoli. Biondo ossigenato con un pizzetto che tendeva al grigio sporco, Cristoli aveva, a causa di un ego sovradimensionato, il bisogno morboso di attirare l’attenzione su di sé. Dopo averci avuto a che fare per un anno e mezzo, il comandante gli riconosceva una qualità: sapeva far decollare i dibattiti.

    «Per me esiste. Se uno è organizzato e pensa a tutto dovrebbe riuscire a sfuggire alla polizia.»

    «E che mi dici del principio di Locard?» obiettò Lionel Mizzon, la sua bestia nera, uno dei pochi che osavano contraddirlo in pubblico. «Un assassino, anche se pensa a tutto, lascia sempre delle tracce del suo passaggio.»

    «Solo che può lasciare

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1