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Morte del maschio Alfa: e altri racconti
Morte del maschio Alfa: e altri racconti
Morte del maschio Alfa: e altri racconti
E-book299 pagine4 ore

Morte del maschio Alfa: e altri racconti

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Info su questo ebook

In natura, l’individuo Alfa è il capo del branco, che non ammette antagonisti ma solo subordinati, ed è su questo binario che Leandro Pergola ha impostato la propria esistenza, ignorando però che tale modus vivendi lo condurrà a una  fine tragica. Il funzionario di polizia chiamato a indagare su quello che sembra un comune episodio criminoso si trova sempre più coinvolto in una serie di accadimenti concatenati fra loro, dove si susseguono vendette personali, verità tenute nascoste, poteri paralleli e complotti tesi a mettere a repentaglio la vita di centinaia di persone, il tutto sullo sfondo di una città livida e distante. In omaggio ai canoni classici del filone noir e fantastico, nulla sembra corrispondere nella realtà a ciò che appare, ed è questo il filo conduttore che collega i racconti della raccolta: si va dall’innamorata respinta e vendicativa al morto che rivive senza comprenderne la ragione, da chi suggella patti rischiosi per salvarsi la vita al giornalista che indaga su omicidi particolarmente efferati, alla giovane donna che tronca la propria relazione affettiva senza immaginarne le conseguenze.Situazioni improbabili, certo, ma che potrebbero irrompere improvvisamente nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2020
ISBN9788868104122
Morte del maschio Alfa: e altri racconti

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    Anteprima del libro

    Morte del maschio Alfa - Gabriele Giardini

    cover.jpg

    Gabriele Giardini

    MORTE DEL MASCHIO ALFA

    E ALTRI RACCONTI

    Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868104122

    Immagine di copertina su licenza

    Adobestock.com

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave, 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    Negozio on line www.librisumisura.it

    Gabriele Giardini

    MORTE

    DEL MASCHIO ALFA

    Romanzo e racconti

    INDICE

    PREFAZIONE

    MORTE DEL MASCHIO ALFA

    NOTTURNO

    LA MIGLIORE SCELTA POSSIBILE

    UN-DEAD

    AMA IL PROSSIMO TUO

    CACCIA AL VAMPIRO

    RINGRAZIAMENTI

    L’AUTORE

    CATALOGO DAMSTER

    A Cristina

    che ha sempre saputo tenere accesa la Luce

    PREFAZIONE

    Sono molti gli autori che provano a scrivere un noir, ma tessere le trame di una storia da brivido capace di toccare corde sottili, di portare il lettore per mano nella fabbrica dello scrittore, osservare e appuntare particolari che verranno richiamati  alla memoria, con l’intenzione di guidare alla risoluzione, non è facile.

    Da appassionata lettrice del genere, frequentemente rimango delusa da romanzi privi di sorpresa, noiosi e scontati già dalle prime pagine, dove la trama, l’intreccio narrativo pressochè inesistenti, vengono conditi da un linguaggio oramai desueto.

    I racconti di Gabriele Giardini, invece, tagliano come un bisturi  il velo della noia; hanno  un corpo narrativo intrigante, mai banale,   l’azione è narrata in una pagina e mezzo e il resto è bella scrittura dove il Male dilaga senza freni, mentre i personaggi, caratterizzati da ritratti psicologici profondi e descritti con dovizia  di particolari, sono riconoscibili anche grazie  alla scelta di un linguaggio  corretto e semplice.

    Leggerli è stato come intraprendere un viaggio, e quando sono arrivata alla meta la domanda che mi  martellava in testa era se potesse essere possibile sfuggire al proprio destino. Sono racconti potenti. Ho insistito, con l’amico Gabriele, affinché proponesse i suoi racconti a un editore: troppo suggestivi per rimanere chiusi in un cassetto. Dopo non poche resistenze da parte sua sono riuscita a convincerlo a farcene dono.

    Morte del maschio Alfa e altri racconti è un  romanzo dai toni noir a volte esoterici dove le atmosfere sognanti ci accompagnano in mondi, luoghi, tempi, azioni straordinarie, avvenimenti imprevisti dentro l’immobile vita di una  quotidianità qualunque potenzialmente riconducibile a ognuno di noi.

                                                                               Lorena Grattoni

    MORTE DEL MASCHIO ALFA

    Una spessa e fastidiosa coltre di nebbia avvolgeva l’ampio spiazzo antistante l’edificio, in una fredda serata di fine autunno.

    L’uomo attraversò il portone che dava accesso al cortile interno e si fermò tra i veicoli parcheggiati, respirando l’aria pungente, assorto nei propri pensieri. Figure indistinte sbucavano a intermittenza dalla caligine, illuminate a fatica dai lampioni, per poi perdersi subito dopo. Sembrava che tutto, attorno, fosse come sospeso, solidificato.

    «Dottore...» Il commissario si volse verso il poliziotto in divisa che lo aveva raggiunto.

    «Dottore, non ci sono segnalazioni, tutto tranquillo. Se non ha più bisogno io smonterei.»

    Il commissario non rispose, limitandosi a rivolgere un breve cenno di assenso all’interlocutore, il quale si allontanò, infilandosi in una porta laterale. Emise un sospiro profondo, si strinse nel soprabito e s’incamminò verso il mondo esterno.

    Un’altra maledetta giornata da lasciarsi alle spalle.

    §§§§

    Leandro Pergola si rimirò nello specchio, compiacendosi del proprio fisico asciutto e muscoloso. Si sentiva insoddisfatto, annoiato, nonostante non ci fosse una reale motivazione a giustificare un simile stato d’animo: si rammentò che doveva finire di preparare l’esame di procedura, una palla pazzesca, ma non poteva rimandarlo oltre, non aveva nessuna voglia di mettersi a discutere di questo con suo padre. Non che l’esito lo preoccupasse più di tanto: se si è figli dell’avvocato titolare del più noto e affermato studio legale della città, le prove scritte e orali di Giurisprudenza costituiscono una mera formalità. Nessun titolare di cattedra o assistente della Facoltà si sarebbe mai permesso di restituirgli il libretto senza un voto, preferibilmente alto, dentro.

    Del resto, la laurea era l’unica condizione che il genitore gli aveva posto fin dai primi anni del liceo. La prospettiva di fare carriera all’interno dello studio paterno non lo attirava più di tanto, ma significava anche la graduale acquisizione di prestigio e potere, e questo costituiva per lui un traguardo irrinunciabile. Il desiderio di emergere e dominare lo aveva accompagnato sin da quando era bambino, abituato a frequentare scuole e ambienti esclusivi, certamente preclusi alla maggioranza dei suoi coetanei; non tollerava di essere impedito od ostacolato nei suoi propositi, non disdegnando di ricorrere anche allo scontro fisico pur di realizzare ciò che si prefiggeva. A tale scopo, a undici anni aveva convinto la madre a iscriverlo a un corso di arti marziali, e nel volgere di un paio d’anni aveva acquisito capacità tali da permettergli di confrontarsi senza timore con chiunque; non si riteneva un attaccabrighe, ma era cattivo, questo sì, e non esitava a usare le maniere forti per affermare la sua posizione di capobranco all’interno della sua cerchia di conoscenze, che si trattasse di studio, gioco o affetti.

    La giovane donna, completamente nuda, entrò in bagno, distogliendolo dai suoi pensieri; le lasciò accarezzargli la schiena, poi la distolse da sé, infastidito, andando a recuperare i propri vestiti. Odette tirava di cocaina che era una delizia, e questo non gli piaceva, anche se doveva ammettere che da fatta la ragazza scopava in maniera impagabile: al di là di questo, la trovava insulsa, e comunque lui non faceva uso di droghe né se ne sentiva attratto.

    «Vedo Ghigo fra un’ora – una voce impastata lo raggiunse – ci raggiungi per un aperitivo?»

    Lui non rispose, non ne valeva la pena. Probabilmente la troia si sarebbe concessa un’ulteriore svago in serata, ma non gliene importava nulla, desiderava solo andarsene il prima possibile.

    «Ci si vede» bofonchiò, e uscì.

    Mentre si dirigeva verso casa, pensò a come trascorrere la serata; desiderava distrarsi, manuali e codici avrebbero atteso la mattinata successiva. Estrasse dalla tasca il cellulare e digitò un tasto della memoria.

    «Ciao Amore, come stai?» una voce mielosa lo accolse dall’altra parte della comunicazione.

    «Stasera vado all’Hyperion, ti va?» rispose lui, con tono impersonale.

    «Certo che sì! A che ora passi?»

    «Non riesco, ho delle cose da sbrigare, ti raggiungo lì. Un bacio.»

    Leandro si rimise il telefono in tasca. Romina era carina, disponibile, probabilmente innamorata. Ma sapeva essere anche terribilmente appiccicosa, e ciò lo indisponeva; meglio vedersi all’interno del locale, meglio ancora se con altri comuni conoscenti. Se gli fosse poi tornata voglia di fare sesso, Romina non avrebbe certamente sollevato obiezioni. Lei o un’altra, non ci sarebbero certo stati problemi.

    Premette l’acceleratore, scaricando a terra i cavalli del Maserati, e si diresse verso il vialone che portava a casa.

    §§§§

    Quando Leandro fece il suo ingresso all’Hyperion, un elegante locale frequentato in massima parte da giovani della medio-alta borghesia cittadina, era di pessimo umore. Non c’erano particolari ragioni a motivare questo stato d’animo, e ciò contribuiva a fare aumentare la sua insofferenza; aveva provato a combattere il proprio disagio facendo esercizio fisico e poi dedicandosi alla trascrizione svogliata di alcuni appunti, ma senza risultato. Incrociando la madre lungo uno dei corridoi comunicanti con il corpo centrale della villa, ne aveva anche ignorato con ostentata maleducazione la richiesta di fermarsi per la cena. Combattuto fra il desiderio di vedere gente e quello di restarsene solo, si era deciso a uscire poco prima di mezzanotte, più per combattere la noia che per reale convincimento.

    All’interno della discoteca rivolse un saluto distratto a un paio di conoscenti, aggirandosi fra le persone presenti come per perlustrare il territorio, e decise di fermarsi al bancone del bar, dove la ragazza addetta al servizio non lo degnò di uno sguardo, impegnata com’era a parlottare con altri clienti che sembravano dedicarle un corteggiamento serrato. Nel tentativo di richiamare l’attenzione di quest’ultima, non si accorse della donna che lo raggiunse, investendolo con tono risentito:

    «Finalmente sei arrivato! Ti stavo aspettando da una vita!»

    Leandro si volse, infastidito: «Romina, guarda che non è il momento.»

    «Non mi saluti nemmeno, potresti comportarti un po’ meglio, non credi?» proseguì lei

    «Ciao, allora. Soddisfatta? Non mi rompere le palle.»

    La donna sembrò accusare la risposta, e un’espressione triste le velò il viso.

    «Perché mi tratti così? Pensavo che non saresti più venuto, che avessi cambiato idea.»

    Lui la guardò per un istante: indossava una camicetta dalla scollatura vertiginosa, minigonna, calze velate e tacco da quindici. In altre circostanze l’avrebbe trovata appetitosa, magari interrogandosi se avesse cambiato profumo o se indossasse o meno biancheria intima, ma in quel momento affrontare una discussione era l’ultima cosa che desiderava, specialmente considerato che della persona che gli stava davanti gl’importava tutto sommato poco o nulla.

    «Lasciami stare, ti ho già detto che non è serata. Ci sentiamo.»

    Le luci soffuse gli impedirono di vedere se, sotto il trucco, il volto della ragazza avesse mutato colore.

    «Sei uno?stronzo!» deglutì lei, lanciandogli un’occhiata velenosa e allontanandosi verso il centro della pista da ballo.

    L’uomo sorrise fra sé, soddisfatto del sottile godimento procuratogli dalla reazione della donna; si sentiva un privilegiato nel maltrattare le persone deboli come Romina, che probabilmente sarebbe stata in silenzio per un giorno o due, per poi rendersi disponibile, e docile, al suo prossimo invito, cena, concerto o scopata che fosse. Un essere inconcludente, incapace di convincersi che non avrebbe mai potuto avere né il suo cuore né il suo rispetto.

    Con l’animo rinfrancato, cominciò a guardarsi intorno con maggiore attenzione: la ragazza del bar sembrava essersi liberata dalle attenzioni del gruppetto di avventori, ma ora il suo interesse era rivolto a cercare qualcuna con la quale dare un senso alla serata. Conoscendo buona parte delle donne presenti, e facendo affidamento sulle proprie doti, la cosa risultava estremamente fattibile.

    Cominciò ad aggirarsi fra i tavoli, sicuro di sé.

    Notò con piacere che Romina era sparita, per cui l’eventualità di ulteriori scenate era scongiurata. La sua attenzione fu attirata non tanto da una biondona fasciata in una tutina di lurex che faceva bella mostra di sé su un divanetto poco distante dalla pista da ballo, quanto da un uomo dalla carnagione olivastra, vestito in maniera dimessa, che cercava di attaccare discorso senza apprezzabili risultati.

    «Dio, si sono messi a fare entrare proprio tutti in questo cazzo di posto!» si sorprese a mormorare a voce alta. Stentava a credere che a un tipo del genere fosse ammesso di entrare in un locale che aveva sempre ritenuto esclusivo, almeno fino a quel momento.

    Il tizio in questione, che dai tratti somatici giudicò essere un medio-orientale, o ancor peggio uno zingaro, continuava nel suo assalto alla fortezza, incurante del fatto che la ragazza ne ignorasse gli sforzi; quando vide la mano di lui scivolare lungo la coscia della donna, Leandro non potè più trattenersi.

    Si diresse verso l’uomo e lo afferrò per un braccio, mentre la biondona approfittava dell’inattesa opportunità per allontanarsi. «Forse è il caso che qualcuno ti insegni l’educazione» sibilò.

    L’altro lo guardò sorpreso, cercando di divincolarsi senza riuscirvi: «Cosa vuoi da me? Non ti conosco!»

    L’accento della voce tradiva un’origine straniera, come Pergola aveva previsto; l’inaspettata situazione gli stava facendo salire l’adrenalina, forse stava trovando una maniera divertente di finire la serata. Facendo leva con il braccio, sollevò letteralmente di peso l’interlocutore: nessuno fra gli astanti sembrò accorgersi di nulla.

    «Senti, sgorbio, se ti prendo a calci magari impari a comportarti con le signore come si deve.»

    L’altro continuò a contorcersi, pur non apparendo intimidito: «Pensavo che la donna fosse sola. Lasciami.»

    «Non ci penso nemmeno: anzi, sai cosa facciamo? Ti porto un attimo fuori, così ti dico il resto» disse Leandro, trascinandolo verso una delle uscite di servizio. Il malcapitato, oltretutto più basso di una ventina di centimetri, non potè opporsi più di tanto.

    I due uscirono su un lato poco frequentato del parcheggio, delimitato poco più avanti da un muretto adiacente alla linea ferroviaria.

    «Non so chi cazzo sei e che cosa ci fai qui stasera» esordì il giovane, allentando la stretta «ma di sicuro è l’ultima volta che ti fai vedere da queste parti» e colpì l’altro alla spalla, come per sottolineare l’assunto.

    «Io non voglio guai! Torna a divertirti e lasciami andare!»

    Il tono risoluto dell’uomo ebbe l’effetto di un drappo rosso sventolato davanti a un toro infuriato: irritato dalla mancata sottomissione dell’avversario, Leandro gli sferrò un poderoso ceffone, mandandolo a finire lungo steso per terra. Vediamo come reagisce pensò fra sé, pregustando il sapore della violenza gratuita. Fece l’atto di avvicinarglisi, quando udì una voce risuonare alle sue spalle:

    «Cosa succede?»

    Il nuovo venuto era un uomo sulla quarantina, avvolto in una giacca a vento dall’aspetto molto vissuto.

    «Cosa sta succedendo?» ripetè l’uomo, accompagnando la domanda con un ampio gesto della mano, ma stavolta rivolgendosi alla persona rimasta supina sul selciato.

    «Niente che ti interessi» lo affrontò spavaldo il giovane «fatti gli affari tuoi.»

    Ignorandolo, l’uomo continuò a rivolgersi a quello che sembrava essere un suo conoscente: «Alzati, dobbiamo andare, è tardi.»

    «Lui resta dov’è, amico. Sparisci, prima che qualcuno si faccia male.»

    «Su, vieni via» continuò lo sconosciuto, dirigendosi verso l’uomo a terra e tendendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi.

    Leandro non sopportò di essere ulteriormente ignorato e lo strattonò, afferrandolo per il vestito: «Ma che cazzo vuoi!? Lascialo dov’è, stronzo!»

    Inaspettatamente l’altro reagì, allungando una mano verso di lui per colpirlo: i riflessi allenati del giovane gli permisero di parare il colpo con facilità e di contrattaccare, indirizzando una violenta ginocchiata al tronco dell’avversario, che emise un grugnito sordo, e arretrò. Leandro assestò altri due colpi in perfetto stile, uno con l’avambraccio e l’altro con un calcio, che, nonostante fosse in parte attutito dai vestiti, ebbe l’effetto di strappare all’uomo un mugolìo di dolore.

    In quel preciso istante, un terzo individuo, sbucato dall’oscurità, cinturò il giovane da dietro, immobilizzandolo. Colto di sorpresa, quest’ultimo cercò di divincolarsi, scalciando e colpendo all’indietro con la testa più volte per liberarsi dalla presa, ma i suoi tentativi andarono a vuoto: anzi, il suo aggressore, più alto di lui e parimenti allenato nella lotta corpo a corpo, non parve curarsi della sua reazione e aumentò la pressione della stretta.

    Solo all’ultimo istante Leandro percepì che l’uomo che gli si era parato davanti gli stava vibrando una coltellata, e si torse su se stesso, chiamando a raccolta tutte le sue energie: non potè evitare che la lama gli penetrasse nel fianco, mozzandogli il respiro. Impossibilitato a reagire, cercò disperatamente di riordinare le idee, convogliando le forze residue nell’inutile sforzo di liberarsi, ma un attimo dopo sentì una mano prenderlo per i capelli e alzargli la testa di scatto, quindi avvertì una carezza tagliente, quasi indolore, sulla giugulare.

    Il gigante trattenne il giovane ancora per qualche secondo, lasciandolo sussultare negli ultimi spasmi di vita, per poi lasciarlo scivolare a terra, ormai cadavere.

    L’uomo con la giacca a vento si pulì nei pantaloni il sottile coltello da scannatoio e ordinò: «Osman, aiuta il fratello Fekih ad alzarsi, abbiamo perso fin troppo tempo!»

    «Io non ho fatto nulla, lo giuro sul nome di Allah!» borbottò come per giustificarsi l’uomo chiamato Fekih, una volta aiutato a rimettersi in piedi.

    «Taci, non devi dare a me spiegazioni, e comunque non ora! Andiamocene, presto!» replicò l’altro, seccamente.

    I tre si allontanarono velocemente fra le macchine, lasciando il corpo di un giovane senza vita sull’asfalto bagnato dalla bruma.

    §§§§

    L’avvocato Arrigo Pergola è una persona di aspetto severo, inappuntabile sul lavoro; nipote di un notaio, si è laureato con un anno di anticipo e nel giro di pochi anni si è fatto strada come penalista di grido. Pur essendo restìo alle frequentazioni dei cosiddetti salotti buoni, conosce tutta la città che conta, funzionari, imprenditori, politici, clero, ed è da costoro stimatissimo e (nonostante nessuno osi affermarlo apertamente) anche temuto.

    Come ogni mattina in cui non partecipa a udienze, è nel suo ufficio personale, intento a esaminare e discutere con uno dei suoi collaboratori i dettagli di una causa assunta dallo studio; in questi frangenti, l’ufficio si trasforma in una sorta di bunker impenetrabile e a nessuno è concesso di interrompere le riunioni, né di persona né telefonicamente. La regola imposta dall’avvocato andava rispettata rigorosamente e non era raro che giovani collaboratori venissero allontanati per non averla incautamente osservata.

    Fu perciò comprensibile il disappunto del professionista quando sentì bussare alla porta. Questa si aprì, ancor prima che venisse comunicato un invito a entrare, e apparve una signora minuta, sulla cinquantina, pallida come un cadavere.

    «Grazia, sa benissimo che non desidero essere disturbato!» articolò Pergola senza scomporsi, mentre l’altra persona si metteva a scribacchiare su un blocco di appunti, presagio della tempesta imminente.

    «Avvocato… Mi perdoni se mi sono permessa, chiedono di lei…»

    Prima che il professionista potesse ribattere, dietro la segretaria fece la sua apparizione un uomo avvolto in un cappotto scuro, seguito da altre due persone. Pergola s’irrigidì. Non era abitudine del Capo di Gabinetto della Questura fargli visita; quanto agli accompagnatori, era evidente che si trattava di agenti in borghese, la qualifica ce l’avevano stampata in faccia. La donna approfittò dell’attimo di silenzio per scivolare via, richiudendo la porta alle spalle dei tre.

    «Guido, ci scusi, riprendiamo fra qualche minuto» disse con tono pacato al collaboratore, che si defilò borbottando un cenno di saluto. Poi, rivolto alla persona che gli stava davanti: «Alessio. A cosa devo il piacere? Prego, accomodati.» Aveva l’abitudine di risparmiarsi i formalismi di rito con chi conosceva personalmente, e Alessio Gandusio era uno di questi. Era palese che l’invito fosse rivolto unicamente al funzionario. I due agenti di scorta non colsero la sfumatura, o perlomeno non lo diedero a vedere.

    «Sangiorgio, tu e il collega aspettatemi fuori, per cortesia» comandò loro il Capo di Gabinetto, con tono grave, senza voltarsi. Attese un istante, poi continuò: «Arrigo?sono costernato. Ho ritenuto opportuno venire di persona.»

    «Cosa è successo? Non credo che ti sia scomodato per parlarmi del processo in corso in Corte d’Assise.»

    «Certamente no. Ti prego di comprendere,?è avvenuto un omicidio questa notte, presso una discoteca fuori porta.»

    Pergola si limitò a squadrare l’interlocutore, rimanendo impassibile: anni di professione lo avevano reso impermeabile a qualsiasi tipo di coinvolgimento emotivo.

    «Mi hanno informato un paio di ore fa… Tuo figlio…»

    L’avvocato sentì una fitta trapassarlo da parte a parte: «È successo qualcosa a Leandro?» la domanda era superflua e si pentì immediatamente di averla formulata, rimproverandosi il puerile tentativo di non riconoscere l’evidenza dei fatti.

    «Hanno trovato il corpo di tuo figlio nel parcheggio della discoteca Hyperion verso le due di questa mattina; dalle risultanze in nostro possesso il decesso risale approssimativamente a un’ora prima. Sicuramente un’aggressione, ma ci sono degli elementi discordanti che dobbiamo ancora verificare.»

    «Una rapina?»

    «È stata la prima ipotesi, ma aveva ancora il portafoglio addosso. Alcuni conoscenti che si trovavano nel locale ci hanno confermato di averlo visto entrare, ma non abbiamo ottenuto ulteriori riscontri.»

    «Nessuna testimonianza diretta, a quanto mi dici.» Pergola si sforzò di rimanere distaccato, pur avvertendo qualcosa di bollente che gli stava crescendo dentro.

    «Nessuno che abbia visto l’accadimento nel parcheggio... – poi, con tono imbarazzato – è estremamente gravoso per me, ti prego di credermi… posso assicurarti che faremo tutto il possibile per individuare il responsabile o i responsabili, te lo assicuro.»

    Per un istante l’autocontrollo dell’avvocato si sfaldò: «Duemila anni fa il latore di notizie come queste sarebbe stato gettato da una rupe. Ti prego di scusarmi, Alessio, ho apprezzato il gesto, considerami in debito.»

    L’altro incassò il sarcasmo senza palesare una reazione evidente: «Abbiamo affidato le indagini al nostro responsabile della Sezione Omicidi. Se lo ritieni opportuno, darò disposizioni affinché ti contatti direttamente qui in studio, per evitarti di venire in Questura.»

    Pergola abbozzò un vago cenno di assenso: «Il corpo di mio figlio è già presso la Medicina Legale, presumo.»

    «Certamente. Conosci anche tu la procedura. Contatterò il magistrato inquirente affinché venga disposto quanto prima il rilascio del nulla osta per la restituzione della salma alla famiglia. Ovviamente, una volta effettuato il riconoscimento.» Il tono dell’ultima frase era decisamente marcato.

    «Ovviamente. Sarò in obitorio per l’ora di pranzo, ma prima è opportuno che rientri a casa per dare a mia moglie la notizia nella maniera meno dolorosa possibile e so che non sarà né facile, né breve, per cui ti pregherei, se non hai altro da riferirmi, di lasciarmi solo a riordinare le idee. Ti ringrazio ancora della delicatezza, consideratemi a piena disposizione delle autorità per quanto possa necessitare.»

    Era evidente che l’avvocato riteneva il colloquio e l’incontro conclusi. L’interlocutore ritenne opportuno mantenere l’espressione contrita che aveva assunto dal momento del suo ingresso nella stanza, abbozzò un vago cenno di saluto e lo lasciò solo.

    «Grazia, per cortesia, disdica tutti gli appuntamenti per i prossimi due giorni. Se vi sono urgenze, sono reperibile al cellulare. Comunque conto di rientrare in studio verso sera» mormorò Pergola al citofono. La voce era pacata, ma avvertiva che stava facendo sempre più fatica a dominarsi; un dolore sordo gli stava esplodendo dentro, avrebbe voluto gridare per liberarsene,

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