Addio: Per sempre
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Anteprima del libro
Addio - Carta Giuliana
GIULIANA CARTA
ADDIO PER SEMPRE
AmicoLibro
GIULIANA CARTA
ADDIO PER SEMPRE
PROPRIETà LETTERARIA RISERVATA
L’OPERA è FRUTTO DELL’INGEGNO DELL’AUTORE
© 2020 AmicoLibro
Vico II S. Barbara, 4
09012 Capoterra (CA)
www.amicolibro.eu
info@amicolibro.eu
Prima Edizione
marzo 2020
Prefazione
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Prologo
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Capitolo I
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Capitolo II
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Capitolo III
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Capitolo IV
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Capitolo V
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Capitolo VI
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Capitolo VII
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Capitolo VIII
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Capitolo IX
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Capitolo X
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Capitolo XI
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Capitolo XII
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Capitolo XIII
Non ci sono segreti che il tempo non riveli
Jean Racine
Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai molte maschere e pochi volti.
Luigi Pirandello
Ai miei figliocci
Eleonora, Simone
e Camilla
Prefazione
In una mattina d’inverno, a Carloforte, scompare l’insegnante Fiammetta Carboni, lasciando un sibillino messaggio Addio per sempre
.
La donna, quarantasettenne, con un figlio disabile, ha un lungo trascorso di problemi psichici, fra cui un ricovero per anoressia, quando era giovanissima.
La sua vita scorreva fra il nuovo compagno Sergio, l’ex marito Fulvio e il figlio Mauro, assistito dalle due badanti Marianna ed Eliana.
Cosa si nasconde dietro questa misteriosa sparizione? Un rapimento o peggio ancora un omicidio?
Nell’affascinante Isola di San Pietro si dipana l’intricata trama di Addio per sempre
, il nuovo giallo di Giuliana Carta, che come nei precedenti lavori L’ultima corsa
e Vacanze ad Arbatax
ripropone il collaudato duo della psichiatra Stella Ferranti e l’affascinante investigatore privato Riccardo Conte, questa volta coadiuvati dall’assistente sociale Daniela Solla.
Riusciranno i nostri a capire dove si è nascosta Fiammetta? A sapere se è ancora viva?
Lo scopriremo leggendo questo giallo, come sempre avvincente e ben scritto, dove alla trama più propriamente investigativa, si affianca una digressione rosa
, dove una giovane commessa di Carbonia, Dora Monti, incanterà il cuore di Ricky, ormai da tempo single.
Una lettura piacevole, fra tensione e romanticismo, adatta a tutti, con un linguaggio scorrevole e lunghe descrizioni che ci fanno immergere piacevolmente nel romanzo.
Roberto Sanna
Prologo
Venerdì 13
"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
questa morte che ci accompagna dal mattino alla
sera, insonne, sorda, come
un vecchio rimorso o un vizio assurdo".
Cesare Pavese
Era successo.
Leonardo Rombi era morto.
Per chi, come Stella, aveva patito a causa dello smisurato egoismo dell’uomo, la notizia era cascata dal cielo simile a una secchiata d’acqua gelida lanciata dalla terrazza in una mattina di gennaio. Talmente inattesa da far dubitare che la morte del capo dipartimento fosse frutto delle forze della natura, talmente improvvisa che la sorpresa, che si dipingeva sulle labbra e sugli sguardi di chi veniva a conoscenza del fatto, superava di gran lunga ogni altra emozione.
Perché la morte, si sa, suscita sempre una fiammella e, che sia una sensazione bella o brutta, non è mai la stessa che si era ipotizzato di provare.
Così, quando in quella mattina di novembre giunse la notizia della scomparsa del Rombi, tutti i dipendenti provarono una punta di amarezza, e nessuno di loro pensò a tirare un sospiro di sollievo.
Chi per il rimorso di non avergli mai detto qualcosa di importante, chi per un motivo o chi per l’altro, ma tutti covarono nel loro cuore un po’ di amaro dolore. E mentre negli occhi di qualcuno si affacciava una lacrima, nell’animo di qualche altro si apriva la voragine del vuoto.
Clara, che diede la notizia vestita non a caso interamente di nero - dai minuti orecchini alle scarpe decisamente fuori moda che calzava - dritta e rigida come se fosse pronta a sfilare in passerella, fece parte della prima schiera.
Stella, invece, della seconda. E mentre nel suo cuore si dischiudevano i lembi della ferita, un’insopprimibile inquietudine la spinse ad avvicinarsi all’austera segretaria, nervosamente, e a chiederle con impazienza come fosse morto il capo dipartimento.
Clara si asciugò gli occhi e rispose con estremo garbo.
Il suo capo non era morto a causa di un tumore che sopraffaceva da mesi le sue cellule senza che nessuno ne fosse al corrente. E nemmeno per l’improvviso abbattersi su di lui di un infarto miocardico, un ictus o un’embolia polmonare. E neanche per la rottura di un aneurisma toracico o addominale.
Niente di tutto ciò.
Rombi non era morto neppure per un incidente verificatosi mentre viaggiava sul suo macchinone da sessantamila euro e dalla carrozzeria fiammante color verde oceano.
No, proprio no!
Era successo che la sera prima l’uomo aveva iniziato ad avvertire, come sempre all’approssimarsi dell’autunno, i dolori prodotti dalla senescenza delle cartilagini, che si acuivano quando nell’aria si diffondeva un clima umido. La mattina, molto presto, si era svegliato con una lombalgia che gli faceva preannunciare una giornata governata da movimenti tutt’altro che agevoli, e proprio quel giorno aveva almeno tre riunioni a cui prender parte.
Così aveva assunto una compressa di Dicloreum da centocinquanta milligrammi, come spesso faceva in queste situazioni. Solo che questa volta, accadde ciò che proprio non si aspettava. Mentre si lavava i denti davanti allo specchio, con la camicia sbottonata sul collo e la cravatta abbandonata sul comò della camera da letto adiacente, fu colto da una vertigine improvvisa, così forte che dovette aggrapparsi al bordo del lavabo nel timore di cadere. In un attimo sentì che la bocca e le labbra si gonfiavano, il cuore accelerava e il mondo cominciava a girargli attorno come una magica giostra.
Si sentì soffocare, come se all’improvviso l’aria attorno a lui venisse risucchiata da un buco nero e non ce ne fosse a sufficienza per le sue narici. Una paura immensa s’impadronì di lui, mentre avvertiva in lontananza la voce di Rosa che lo chiamava, e nel contempo chiedeva aiuto… ma fu solo un attimo.
Il pesante corpo del sessantenne cadde sul pavimento del bagno, tra le mattonelle fredde e il soffice tappeto color azzurro cielo. Cadde rovinosamente; un tonfo pesante e lugubre che non faceva presagire nulla di buono si udì di rimando.
Rosa Rombi sbigottita corse verso il corpo inerme del marito, poi ci ripensò e indietreggiò verso il telefono, ma a metà strada si bloccò perché le parve che il marito la stesse chiamando con un lamento. Invece no, non la stava chiamando. E allora corse di nuovo verso il telefono.
E chiamò il 118.
E il 118 arrivò.
Arrivò e trovò Rombi già bello che morto, ucciso da una stupida pastiglia di antinfiammatorio, di quelle che si consumano a pacchi ogni giorno.
Tutto ciò venne raccontato da Clara davanti agli occhi sorpresi e addolorati degli ascoltatori, con annessa la precisazione che l’autopsia avrebbe approfondito le cause del decesso.
Ma fino a che l’autopsia non si fosse svolta, per la cronaca Leonardo Rombi era morto venerdì 13 ottobre dell’anno 2017 per uno shock anafilattico, generato dall’assunzione di Diclofenac – principio attivo del buon vecchio Dicloreum - che nessuno sarebbe stato in grado di prevedere.
Così avvenne che il vecchio Leonardo Rombi tornò al Creatore e, con lui, Dio solo sapeva quali sordidi segreti…
Capitolo I
Ottobre 2017
Penserai… che la vita è ingiusta e piangerai…
Modà
Quella sera Dora Monti stava rientrando a casa dalla palestra, luogo nel quale si recava due volte la settimana, e quel giorno era giovedì, con almeno un quarto d’ora di anticipo rispetto al solito.
Ciò dipendeva dall’aver terminato sei minuti prima del tempo e dalla decisione, una volta raggiunto lo spogliatoio, di saltare la doccia per lavarsi a casa propria.
Così Dora aveva rapidamente infilato la giacca della tuta fucsia, in tono con le scarpe da tennis, dalla doppia riga bianca tracciata lungo le maniche, e sopra aveva indossato un giubbottino leggero, a vento, dallo sfondo bianco e la fantasia floreale, di spessore ideale visto che si era oramai alla fine di ottobre.
Infine aveva sollevato da terra la borsa da ginnastica color ciclamino e l’aveva appesa alla spalla destra, con un rapido movimento in su della clavicola. Sprofondando le mani dentro le tasche della giacca a vento aveva varcato la porta dello spogliatoio, augurandosi di non emanare un odore troppo forte di sudore, ripensando subito dopo al proprio pensiero ed emettendo una risatina soffocata per questo.
In realtà la risatina nasceva dal fatto che Dora era di buon umore; questo perché quella sera sarebbe uscita con Federico Raia, il giovanotto che frequentava più o meno da un mese senza che per questo si potesse dire che stessero insieme. O perlomeno, non lo si poteva ancora dire.
Uscì dalla porta a vetri della palestra e si incamminò, a piedi, verso casa. Un fascio di luce uscì dalla hall mentre la porta si apriva, e illuminò il fisico di Dora, le sue spalle toniche e le gambe lunghe e sottili avvolte dai leggins. Il viso era pallido e lentigginoso, i capelli castano scuro raccolti da una pinza a forma di margherita fissata in cima alla testa.
Dora camminava nella strada buia e pensava a Federico, ritenendo che fosse una delle cose più belle che le era capitata da quando i genitori, un anno e mezzo prima, avevano perso la vita in un incidente d’auto.
Ma non voleva ripensare a loro e alla macabra sorpresa che l’aveva attesa a casa quel giorno, con due poliziotti in divisa giunti a comunicare la tremenda notizia, usando il maggior tatto possibile. Ci aveva pensato e ripensato, sia di giorno sia di notte, e non si contavano le volte in cui si era rotolata, insonne, nel letto, chiedendosi perché fosse stata colpita da un destino così atroce, da un’ingiustizia così grande che le faceva sembrare di essere l’ultima degli sfigati sulla Terra. Figlia unica, senza parenti, senza più nemmeno un padre e una madre. Senza un fidanzato, per giunta. Sola che più sola non si poteva - e non si doveva - pensare.
Poi un giorno aveva conosciuto Federico, ed era stato come incontrare un angelo che col suo alone brillante rischiarava una strada divenuta suo malgrado buia e tortuosa. L’aveva conosciuto a una festa nella quale si annoiava mortalmente, e pareva annoiarsi anche lui.
Si erano trovati seduti l’uno a fianco dell’altra, sul divano, e quando un cameriere si era avvicinato per porgere a ciascuno il rispettivo cocktail ordinato, si erano resi conto che le bevande erano state invertite. Dora beveva la Piña Colada, e quella aveva ordinato, mentre Federico optava per il Mojito, e non il contrario. Non ci avevano messo molto, entrambi, ad accorgersi che il colore del liquido non era quello atteso. Così, effettuata lo scambio, avevano iniziato a parlare.
Si erano detti quanti anni avevano: ventinove quelli di Dora e trentadue quelli di Federico, e che lavoro facevano; Dora faceva la commessa in una profumeria, Federico era impiegato in un centro commerciale. Dora era figlia unica, Federico aveva tre fratelli maschi. Federico amava i cani, mentre Dora aveva un debole per i gatti. Entrambi erano appassionati di lettura e di cinema, in particolare di thriller; quest’ultimo dettaglio creò tra loro una specie di sodalizio.
Il giorno dopo si diedero appuntamento per andare a vedere assieme un film tratto da un romanzo di Stephen King, e cominciarono a sentirsi e a vedersi spesso, in parte per avere compagnia durante la rispettiva pausa pranzo, in parte per scambiarsi opinioni su film e romanzi, e talvolta per prestarsi libri che una volta finiti nelle mani dell’uno o dell’altra venivano fagocitati nel giro di una notte.
Per Dora si aprì un nuovo capitolo della sua vita. Sebbene ancora le dolesse la ferita lasciata nel cuore dalla morte violenta dei genitori, cominciò pian piano ad ascoltare sempre meno quel dolore e a essere sempre meno oppressa dalla solitudine.
Giunta nel suo appartamento di via Curiel, la ragazza infilò la chiave nella toppa e fece ingresso nel silenzio inquietante della casa in cui aveva sempre vissuto, e che da quando i genitori erano morti era sempre troppo vuoto, al punto che ormai da tempo carezzava l’idea di lasciarlo.
Si sfilò il giubbotto e lo appese all’attaccapanni collocato in un angolo del soggiorno, poi accese le luci delle applique che campeggiavano nella parete dell’atrio e raggiunse il bagno dalle mattonelle sul verde menta con dei deliziosi motivi floreali disseminati qua e là, ad intervalli regolari. Il cotone morbido della tuta che indossava scivolò piano sulla pelle chiara, e finì con l’ammucchiarsi sul pavimento, mentre strisciando i piedi uno sull’altro Dora sfilava anche le scarpe e le calze bianche. Poi furono gli slip a cadere morbidamente per terra, mentre la mano si posava sulla manopola e la ruotava in maniera tale da azionare il flusso dell’acqua calda.
Entrò nella doccia, e si mise a ripassare, mentalmente, i lineamenti delicati di Federico. Il viso magro, il mento appuntito, le basette castano chiaro che si allungavano quasi fino al termine della mandibola. Il fisico asciutto, le dita lunghe e sottili, la pelle del torace liscia come quella di un ragazzino, almeno a quanto aveva potuto osservare attraverso lo scollo aperto delle magliette polo che indossava.
L’acqua bollente le scorreva sulla pelle producendo un lieve rossore, e all’interno della cabina cominciava a diffondersi un vapore sottile che copriva le pareti trasparenti di un sottile strato bianco.
Dora non aveva mai visto Federico nudo, né lui aveva mai visto nuda lei, in quanto fino a ora si erano parlati, chiamati, cercati, avevano camminato l’uno accanto all’altro, ma sempre nei panni di semplici amici. Il che non era strano, in fondo, perché si conoscevano solo da un mese.
Dora prese in mano il flacone di bagnoschiuma aromatizzato ai petali di iris da un angolo in basso della doccia, sollevò il tappo senza staccarlo del tutto e lo spremette in modo che il contenuto scivolasse sul palmo della sua mano, spalmandola poi sulla cute bagnata.
Le venne da pensare che era lei a giocarsi col pensiero la carta del ci conosciamo da così poco, per giustificare che ancora non erano andati a letto assieme. Se si soffermava a riflettere, le veniva in mente che aveva allacciato relazioni sentimentali in cui sette giorni erano stati più che sufficienti per infilarsi assieme sotto lo stesso lenzuolo, ma evitava in tutti i modi di soffermarsi su questo pensiero.
Mentre si insaponava i capelli osservò il profilo evanescente riflesso nella parete della cabina, e dedusse che poteva sentirsi pienamente soddisfatta dei risultati ottenuti in palestra. E, come spesso le capitava quando sapeva che quella sera avrebbe incontrato Federico, si domandava se quella sarebbe stata la sera giusta. La sera, cioè, in cui anche lui avrebbe goduto dei brillanti esiti dell’allenamento.
Uscì dalla doccia, si avvolse nell’accappatoio color pesca poi prese un asciugamano da viso e lo utilizzò per tamponarsi, prima, e per avvolgersi, poi, i capelli. Si piantò di fronte allo specchio e, sorridendo forzatamente, studiò quello che sua madre chiamava effetto sorriso
. Si chiese se anche Federico prima di uscire facesse prove e controprove allo specchio. Si domandò se anche lui tenesse il conto dei giorni trascorsi da quando si erano conosciuti, e se gli fosse sfuggito che il loro primo incontro risaliva esattamente a un mese prima.
Dal mobile collocato sotto il lavabo estrasse un asciugacapelli, lo collegò alla corrente, cercando di caricarsi il più possibile di ottimismo.
Avrebbero cenato assieme, quel giorno, o perlomeno il programma era quello, a parte il fatto che lui aveva dei libri di Stephen King da restituirle, ma sapeva che quella dei libri non era che una stupida scusa, per lui come per lei, allo stesso modo dell’argomento cinema. Si poteva amare la lettura, si potevano amare i film thriller e non per questo uscire con una persona che condivideva le stesse passioni. E se fino ad ora, da un mese a questa parte non era calato un tramonto su un giorno in cui uno dei due non avesse contattato, in qualche modo, l’altro, la verità poteva essere una sola, anzi due: che Dora piaceva a Federico, come Federico piaceva a Dora.
Un’ora dopo Federico Raia e Dora Monti erano seduti davanti a un tavolo squadrato dentro il locale di McDonald’s di recente aperto a Carbonia. Non era un posto romantico, certo, ma si poteva stare assieme, si poteva respirare la stessa aria che sapeva di fritto e di hamburger di pollo, sentendosi stupidamente innamorati come tanti stupidi adolescenti. E, soprattutto, era un posto fornito di sedie dalle spalliere e i fondi morbidi, e a Dora questo bastava, non era certo la tipa che ambisse a cenare in un ristorante di lusso, col rischio di non sapere bene come comportarsi.
No, Dora era un’anima semplice, come Federico, del resto,