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L'ora delle chimere
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E-book360 pagine5 ore

L'ora delle chimere

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Un passato curioso, un particolare dono e vent’anni per ritrovare un amore. Una storia densa di avventure che esalta il valore della diversità.
di Massimo Maso
Draco, tiratore scelto del contingente italiano in Afghanistan, nel corso della sua ultima missione ripercorre, in un susseguirsi di flashback, la vita trascorsa. Il suo vero nome è Ettore Greco. Egli è stato segnato, fin da bambino, da un evento straordinario, del quale ricorda poco, quasi si trattasse di un sogno. Un essere alato lo ha strappato alla morte certa, lasciandogli un dono. Raggiunta l’adolescenza, scopre che, durante la resistenza, anche nonno Anthon ha affrontato un evento simile. Nonno e nipote sono reciprocamente legati da affetto e stima. Un incidente li separerà. Ettore è intelligente, dotato di grande manualità, ma di natura fortemente ribelle. Il suo carattere lo porterà a cacciarsi nei guai e, al contempo, a incontrare personaggi curiosi, fuori del comune, spesso borderline, ma caratterizzati da una forte umanità. Fra questi Cesare, detto “il comandante”, direttore di un istituto perso fra le montagne. Lì dentro il confuso cammino di Ettore incrocerà quello di Federica, soprannominata l’Alchimista, anche lei custode di un passato curioso e di un particolare dono. Si innamoreranno, ma la presenza di Achille, giovanile conoscenza di Ettore, comprometterà la loro storia, fino a separarli. Ci vorranno vent’anni e infinite peripezie prima che Ettore riesca ad “aprire le sue ali”, come si era raccomandato il nonno, e ritrovare il capo di una storia d’amore lasciata a metà, ma mai sbiadita. Tutto ricomincerà laddove “il tempo si mangia la coda”. Una storia che esalta il valore della diversità.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2019
ISBN9788833283821
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    Anteprima del libro

    L'ora delle chimere - Massimo Maso

    (anonimo)

    1.

    Afghanistan - Valle del Kritt, pianoro del Bashtag,

    9 maggio 2011, lunedì, ore 18:30

    Il sole che tramontava fra le gole del Kritt non era un sole qualunque, come si potrebbe vedere in una qualsiasi altra parte del mondo, ma una grande sfera di corallo, vibrante. Scendeva veloce sul profilo nero dell’orizzonte e sembrava aumentare a dismisura. Spandeva il suo sudario di bronzo sulla terra nuda e arida con rapidità inaudita. Dall’inferno rovente alla notte algida era questione di minuti. Lo sapevano bene le tre lunghe ombre che affrettavano il passo verso il bivacco di Kohlian, un quadrato di mattoni accatastati che un tempo si innalzavano in forma di torre. Lì, sotto quei mattoni, stava l’unico pozzo sicuro dell’alto Bashtag. Tre ombre, tre uomini, soli nel nulla polveroso del pianoro. Il primo correva agile come un animale selvatico, leggero nei suoi abiti antichi. Conosceva quel nulla e il suo buio. Gli altri due arrancavano come muli, oberati dai loro basti moderni. Senza il primo a guidarli, l’acqua non sarebbe bastata a salvarli. Nessun fuoco, nessun riparo, nessuna voce. Solo occhi insicuri che scrutavano e un pasto frugale, consumato con voracità. Poi il sonno ristoratore, sotto fredde stelle. L’uomo che viveva in quei luoghi, vestito di abiti antichi, vegliava il primo sonno leggero dei compagni. Come in ogni altra parte del mondo e in ogni tempo, laddove il buio pesa come una sentenza di morte, i sonni leggeri non sognano. Sono palpebre chiuse per forza, che ricordano e rivivono ciò che temono di non rivedere più. Sarebbe toccata ancora a lui l’ultima guardia, prima dell’aurora, quando la notte si stempera e si fa piombo.

    ***

    Lidi Ravennati, colonia marina Stella Maris – agosto 1984

    La notte si stempera e si fa piombo, come acqua versata a filo su una macchia d’inchiostro.

    Una sfumatura impercettibile che solo una lunga attesa può cogliere. Dal piombo all’indaco, fino al colore livido che precede ogni forma di luce. L’ieri e l’oggi si confondono, come sonno e sogno, impastati nel torpore del momento più fragile e magico del giorno. Nell’istante che racchiude l’eco sordo della creazione, l’universo si offre agli occhi come il disegno di un bambino, in tutta la sua semplicità, senza spessori e senza margini.

    In quel preciso momento, senza ombre, Ettore aspettava, con le braccia incrociate sopra la cornice della finestra. Si sporse e guardò giù. Il giorno precedente, da sotto, pareva più facile, ma non c’era tempo per i ripensamenti. Troppo corta la corda, poca forza nelle braccia, troppa fatica risalirla. Indietro non si poteva tornare. Un tonfo a piè pari spezzò il silenzio. Un lieve lamento e gli occhi che scrutavano in ogni dove nell’aria colma di attesa dell’alba, il cuore in gola. Il coraggio di un bambino ha lo stesso colore della paura, trattenuta a fatica assieme al fiato. Pochi secondi consumati come una preghiera confusa. Poi, in lontananza, l’abbaiare di un cane. Le mani raccattarono l’indispensabile e subito le gambe risposero all’istintivo bisogno di correre, di scappare via dal sonno ormai sottile che filtrava dalle persiane ancora chiuse. Erano gambe veloci e asciutte, quelle del coraggio, forse un po’ ridicole per via delle ginocchia ancora crude e quadrate, tappezzate di croste e graffi. I piedi, sproporzionati rispetto al resto del corpo, erano agili e insensibili alle punte dei sassi e alle spine dei cardi; nessun muro e nessuna regola potevano fermarli. Così come nessun muro e nessuna regola potevano impedirgli di rispettare una promessa sigillata da un bacio. Un bacio leggero e fresco, appena posato sulla guancia da un impertinente visetto cosparso di lentiggini e contornato da bionde trecce.

    «Davvero costruirai quel grande castello?»

    «Sì, certo. Te l’ho promesso.»

    «Anche l’altra volta, ma poi Achille l’ha buttato giù a calci.»

    «Per questo devo arrivare alla spiaggia prima che tutta la colonia si svegli. Quando arriverà Achille tu l’avrai già visto finito. Poi sia quel che sia!»

    «E l’appello? Cosa accadrà quando non risponderai all’appello? Ti cercheranno. Se non ti troveranno la direttrice chiederà di te, e lo chiederà anche a me. Io non so dire le bugie. Divento subito rossa.»

    «E tu non dirle. Non dire niente e basta.»

    «Dovrai correre veloce.»

    «Lo so. Se solo avessi le ali ai piedi!»

    «Ali? Tutto qui? Te le regalo io!»

    Ecco che forma ha l’amore dolce e fluido dei bambini: due mani strette attorno a una sensazione nuova e sconosciuta e due cuori da riempire di magia. Con la sua Bic mordicchiata, Elena disegnò due ali sulla pelle dell’amico, dalla caviglia al ginocchio. Con quelle ali Ettore non avrebbe conosciuto fatica, né ostacoli. Ettore. Nessun soprannome o diminutivo. Solo la signora Erminia, la direttrice della colonia marina Stella Maris, si permetteva di chiamarlo Greco, che poi era il suo cognome, per distinguerlo dal suo omonimo compagno di camerata, simile a lui per peso e corporatura. Quel gioco di nomi lo aveva condotto, suo malgrado, a rivaleggiare con un altro coetaneo, tale Achille Moro. Un ragazzone, questo Achille, ben piazzato e prepotente, coi capelli a spazzola, che aveva a che fare con Ettore solo perché il padre era dipendente dell’Enel e collega d’ufficio di Aurelia, la madre del nostro focoso eroe. I due ragazzi erano radicalmente opposti non solo sul piano fisco. Achille amava il calcio e lo praticava, Ettore lo odiava. Il primo aveva il cipiglio del capo e condizionava la condotta rumorosa di un manipolo di ragazzi a lui assoggettati, il secondo era, per indole, solitario e riflessivo, e mal sopportava di condividere con altri tempo e passioni. Achille tirava sassi con la dritta, Ettore era mancino. In poche parole, fra i due giovani non correva buon sangue. Ad acuire l’epidermica antipatia contribuì non poco la direttrice dell’istituto, la quale – sottovalutando gli animi – un giorno maturò la brillante idea di mettere in scena uno spettacolino teatrale ispirato alle omeriche vicende dell’Iliade. A suo parere i due ragazzi avevano i numeri giusti per impersonare sul palco i rispettivi omonimi eroi e lei, con poca fatica, avrebbe fatto un figurone con i genitori e i dirigenti Enel al momento di congedare il secondo turno estivo. Il gioco avrebbe anche potuto reggere se il destino non avesse calato una carta matta. Per vestire i panni della bella Elena fu scelta una ragazzina da poco arrivata alla colonia. Fatalità volle che la giovane, anche se battezzata con il nome di Caterina, in casa e fra i conoscenti fosse di solito chiamata Elena per compiacere una zia, zitella e danarosa. Agli occhi della signora Erminia parve un segno del destino.

    Il secondo turno estivo si chiudeva l’ultimo sabato del mese di luglio. La direttrice aveva sei giorni di tempo per preparare il suo illuminato progetto. Occorreva darsi da fare. I giorni che seguirono furono intensi ed esasperanti e misero a dura prova la memoria degli attori in erba e la pazienza degli educatori. Manco a dirlo, i maggiori problemi si concentrarono sul terzetto protagonista: Ettore, Achille e Caterina. Il primo vantava buone capacità interpretative, ottimo quoziente mnemonico e intuito per i tempi, ma non digeriva l’idea di soccombere al gradasso Achille solo perché Omero aveva così stabilito. Il secondo aveva più geni in comune col Maciste cinematografico che con il vero Achille: recitava come un cane, menava fendenti anche quando non servivano e vantava una capacità mnemonica prossima a quella di un tacchino. Caterina – o meglio Elena – era certamente affine all’esile Ettore e mal sopportava la presenza ingombrante di Achille sul palco – a suo dire troppo piccolo per contenere un quasi dio di tale portata – che si muoveva come un facocero e pestava i piedi a tutti.

    La faccenda si complicò a due giorni esatti dal debutto, cioè quando, complice la direttrice che esigeva il totale rispetto del testo omerico, un pallido e titubante Ettore baciò per finta la bella Elena al cospetto del vecchio Priamo, peraltro magistralmente interpretato, con tanto di barba finta, dal più gracile e dinoccolato educatore della colonia, tale Elia. Elena – o Caterina che dir si voglia – arrossì. Dopo qualche istante di smarrimento rispose con un leggero sorriso e proseguì a recitare facendo finta di nulla, ma da quel punto in avanti tanto lei quanto il povero Ettore abbisognarono del suggeritore, perché sembrava che un dio dell’Olimpo avesse riempito le loro testoline di farfalle. Quel dettaglio non sfuggì ad Achille che, guarda caso, da quel preciso momento si scoprì invaghito della bella Elena, se non altro per fare dispetto all’avversario, contendergli la scena e rubargli il suo primo, effimero amore.

    Nottetempo, qualcuno notò Ettore che infilava un foglio piegato sotto l’uscio della camerata delle ragazze. Il giorno dopo qualcun altro confessò di averli visti mano nella mano dietro le quinte. Gli scagnozzi di Achille, invece, giurarono di averli visti baciarsi appassionatamente. Di certo la sera prima del debutto tutti udirono le grida della direttrice, fecero ala al mesto rientro dei tre nei rispettivi alloggi e spiarono la ragazza dell’infermeria incaricata di far visita ai due focosi maschietti.

    Il giorno della rappresentazione Ettore e Achille, al contrario di Elena, sfoggiarono un trucco così pesante da far invidia a un clown. Degli occhi pesti non sarebbero stati un bel biglietto da visita per i genitori convenuti né, tantomeno, per i dirigenti del circolo ricreativo dell’Enel. Malgrado l’inquietante dettaglio, la recita andò avanti secondo copione e ottenne consensi e applausi.

    Un po’ per rabbia e un po’ per sfida, i due campioni omerici si esibirono al meglio delle loro capacità; per contro, tanta bravura ostentata imbarazzò Elena, la quale, ben conscia di essere il motivo di tanta rivalità, percepiva una tensione tirata sul filo del rasoio e pronta a deflagrare come una bomba a orologeria. I timori di Elena si concretizzarono a pochi istanti dalla fine del secondo atto, più precisamente nel momento in cui Achille sferrò il suo colpo mortale davanti alle mura di cartapesta di Ilio. L’invincibile eroe affondò deciso la lama di legno fra il braccio e il fianco di Ettore, ma il troiano non cadde.

    Il silenzio del pubblico si fece attesa e occhi sgranati. La direttrice sbiancò, il suggeritore si portò la mano alla fronte temendo il peggio e sul palco si udirono sussurri minacciosi.

    «Scemo! Va giù. Cosa aspetti?»

    «Non ci penso nemmeno.»

    «Come sarebbe a dire? Devi morire. Adesso!»

    Ettore non rispose subito. Cercò con gli occhi quelli della direttrice, la quale, nascosta dalle tende, gli mimava il taglio del collo se non fosse stato ai patti. Poi Ettore tornò a fissare il suo antagonista.

    «No. Per nulla!» confermò Ettore, liberandosi dalla spada di legno. Nella sala stupita si levò un certo brusio.

    «Che? Brutto str… Fammi questa porcata e ti pesto. Più di ieri. Va giù, che sei morto. O dopo lo sarai di più.»

    «Perché l’ha scritto Omero? Sai, io credo di essere un guerriero vero. Tu sei solo un mezzo dio, cioè né uomo, né dio. Dove mai si è visto uno che crepa perché lo feriscono a un tallone? E dovrei darla vinta a te? Non sei coraggioso, sei solo fortunato, prepotente e mezzosangue. Vedi di morire tu come si deve, piuttosto.»

    E nel pronunciare quelle parole abbatté la spada di legno sull’elmo di cartone di Achille, che finì disteso sul palco lamentandosi come un cane. In modo esagerato, vista la mole. In quel mentre Elena comparve sul palco con il viso fra le mani.

    «Che fai? Sai quante ne buschi?»

    Con la coda dell’occhio Ettore colse gli spasmi della signora Erminia che, furente, tentava di divincolarsi dalla presa di due educatori visibilmente preoccupati.

    «Che faccio? Non lo so. Cioè, so che ne buscherò a palate, ma tanto…»

    «E io? Cosa faccio io? Non ho più niente da dire.»

    «Beh, non so. Comunque, se ricordi, il testo finiva male anche per te. Io ho solo deciso che è roba da vecchi o da greci. Questa storia così non può andare, e se i greci hanno distrutto Troia io la ricostruisco!»

    «La ricostruisci! Dove? Quando?»

    «Sulla spiaggia. Domani.»

    «Con che cosa?»

    «Con la sabbia! So fare grandi cose con la sabbia. Non so com’era fatta la città di Ettore, ma domani costruirò un grande castello di sabbia e te lo regalerò. Sarà tuo.»

    Su quell’affermazione pronunciata col livore sulle guance Elena si lasciò scappare un grande sorriso e corse ad abbracciare il suo eroe.

    Intorno a loro, intanto, era scoppiato il putiferio. Chi fischiava, chi rideva, chi usciva sconsolato, chi chiedeva e non capiva. Qualcuno, convinto che si trattasse di una rivisitazione avanguardista del testo omerico, montò sulla sedia e urlò a gran voce il suo consenso. Mezz’ora dopo, sul palco restavano solo il silenzio e due spade di legno abbandonate sul pavimento.

    La reazione della signora Erminia non si fece attendere. Esplose in tutta la sua violenza, per fortuna solo verbale, alle otto in punto di sera. A subirla solo il povero Ettore. Elena, ritenuta involontaria e plagiata complice, fu destinata al ritiro in stanza, senza cena. Achille, che aveva simulato più dolore del dovuto e ci aveva marciato sopra, era tenuto in osservazione in infermeria. In quanto vittima di un’aggressione, era già stato assolto da ogni colpa. La signora Erminia si era persino scusata col padre, al telefono, promettendo giustizia. A patire la punizione restava solo lui: Ettore. Niente cena, niente colazione e branda senza materasso fino all’arrivo della corriera che l’avrebbe restituito ai familiari.

    La cosa peggiore fu il confino in stanza. Quella parte della punizione, di fatto, gli impediva di mantenere la promessa pronunziata alla sua amica. Violare quella consegna, però, equivaleva all’espulsione definitiva dal programma delle colonie per i rimanenti anni a venire. Promise a se stesso di ragionarci su, a lungo. Dopo tre minuti aveva già deciso che la colonia non faceva per lui, quindi che aveva da rimetterci? Sfidò per l’ultima volta le regole e trovò il modo di intrufolarsi nella camerata delle ragazze. In punta di piedi raggiunse il letto di Elena e vi si rannicchiò accanto, dalla parte opposta della porta. E lì, sussurrando, sigillarono il patto.

    «Davvero costruirai quel grande castello?»

    «Sì, certo. Te l’ho promesso.»

    Dalle sei del mattino e per due lunghe ore quelle poche parole risuonarono nella sua testa come una lunga eco senza fine. Scavò, ammucchiò, setacciò, pressò, rastremò come se avesse dieci mani. Alla fine, esausto, si sedette a gambe aperte davanti al suo capolavoro. Era davvero un bel castello! Il più bello che quella spiaggia avesse mai visto.

    Il suo riposo, però, durò poco. Una lunga ombra minacciosa lo strappò alla luce del sole. Si volse di scatto e l’inquietante sagoma della direttrice lo inchiodò lì dov’era. Due o tre passi dietro di lei c’era tutta la colonia. Alla sua sinistra il perfido Achille, alla sua destra la bionda Elena.

    «Già qui! Com’è possibile? Che ci fate qui?» gridò sorpreso.

    «Tu, piuttosto, che ci fai qui, che eri in punizione? E da solo, in riva al mare, fuori dal recinto!» replicò stizzita la donna, puntandogli addosso l’indice come fosse un’arma.

    Da quel momento in poi fu un susseguirsi rapido e confuso di accuse e scuse, di mani che afferravano, di braccia che si divincolavano, di ordini e grida, di suppliche e minacce, di occhi umidi e di sguardi cattivi. Alla fine Ettore si convinse a gettare la spugna. In fin dei conti era comunque riuscito nel suo intento e aveva mantenuto la promessa. Mentre i ragazzi della colonia erano impegnati ad ammirare il suo capolavoro, lui, esausto, a conclusione della sua epica impresa, si volse a raccogliere la gratitudine dell’amica. L’abbracciò con lo sguardo e si sentì venire meno. Achille ed Elena si tenevano per mano.

    «Lo sapevi che non so mentire», si giustificò lei, facendo dondolare le loro mani intrecciate «E poi lui mi ha convinto che era giusto così.»

    «Ma… io ho mantenuto la promessa e l’ho fatto per te!» balbettò il povero ragazzo.

    «Sì, ma hai cancellato le mie ali. Dove sono le mie ali?»

    Già. Le ali. Acqua e sabbia avevano sfregato le sue gambe e cancellato il disegno.

    «Guarda!» aggiunse Elena, facendo un passo avanti e allungando una mano. «Achille mi ha regalato questo. Non è bello?»

    Gli mostrò un anello di plastica argentata con una grossa sfera rossa e trasparente incollata sopra, anche quella di plastica. Elena si era venduta per un giocattolo.

    Povero Ettore! Tradito per un gingillo da due soldi, probabilmente la sorpresa di un uovo pasquale. Ammutolì e si lasciò trascinare via dalla presa ferrea della direttrice. In quel mentre vide i compagni che rompevano il cerchio che avevano formato intorno al castello, come ad aprire un varco. Achille prese la rincorsa e si lanciò verso quel varco, correndo come un forsennato. Ettore intuì e si riprese. Scalciò e cercò in ogni modo di divincolarsi per impedire che il rivale portasse a termine il suo atto criminoso. Troppo tardi. Un violento calcio da rigore disperato fece franare più della metà del castello. Gli altri ragazzi, in preda a euforia collettiva, portarono a termine la demolizione.

    Ettore sentì la rabbia risalirgli la schiena come una frustata gelida, incontenibile. Con un movimento deciso si liberò dalla stretta della direttrice. Fulmineo, si portò al cospetto di Achille e gli sferrò un pugno sul volto con tutta la forza che aveva. Il ragazzo, colto di sorpresa, cadde all’indietro. Perdeva sangue dal naso. Tanto. I compagni ammutolirono e indietreggiarono, la direttrice svenne, Elena urlò e si coprì gli occhi con le mani. Alla vista del sangue Ettore impietrì. La paura gli chiuse lo stomaco, il panico gli tolse il respiro. Che aveva fatto? Questione di istanti. Con un guizzo da lepre braccata prese il viottolo fra le dune che conduceva nel fitto della pineta. Subito due educatori si lanciarono al suo inseguimento. Inutilmente. Col cuore in gola e il nulla negli occhi Ettore era già perso nel verde acido della macchia estiva. Lo stridore delle cicale copriva il rumore della fuga.

    Quando calò il silenzio, il cielo si era ormai tinto di indaco. Decise allora di uscire dalla pineta. Ettore udì la risacca e corse verso l’acqua. La notte scese rapida, inaspettata. I suoi piedi piagati affondarono di nuovo nella sabbia. Nessuna stella, nemmeno la luna. Qualche lampo in lontananza illuminava il profilo minaccioso di un temporale estivo. Il tuono gli sconquassò lo stomaco e riprese a correre. Sabbia sotto i piedi, e poi pietra levigata, e poi pietra ruvida e pungente. Forse i massi della diga. Sentiva il mare, vedeva la schiuma, ma non sapeva dove dirigersi per ritrovare la sabbia. Poi un passo falso nel vuoto, all’improvviso. Un tonfo. Le orecchie piene di ovatta, gli occhi aperti nell’acqua scura e salata, che bruciava. Bruciava la pelle graffiata dalla pietra, e la gola che non trovava aria, e i polmoni che la ingoiavano. Finisce così? si chiese Ettore, dimenandosi come un gatto ribelle. Aria! Il tempo di una boccata, poi un cavallone lo ributtò sotto. Finisce così? si chiese ancora. Era disperato, snervato dalla fatica, sul punto di lasciarsi andare, di mollare. Tutto finisce così? Perché lottare allora? Il corpo abbandonato, molle, disossato, gli occhi chiusi. Una grande bolla d’aria, come un pugno violento, gli schiacciò il ventre. Cos’è? Un fotogramma luminoso e improvviso gli attraversò gli occhi. Ali! Come quelle che Elena aveva disegnato sulle sue gambe. Di angelo, di aquila, di drago… cosa importava? Di tutte le cose che poteva richiamare la sua memoria in quel tragico istante che lo separava dal buio infinito, perché proprio le ali? Ali, e lunghe dita artigliate che lo strappavano via dall’acqua come preda, come pesce destinato alle fauci di un gabbiano o di un gigantesco cormorano. Sentì forte la presa, ma non riusciva a vedere. Era nell’aria nera e nella pioggia. Volava nel buio, fra saette e tuoni assordanti, appeso, trattenuto dalle grandi ali. Il mare era laggiù, sotto di lui, sempre più in fondo. È così che finisce? Dove mi portano? Cosa sono ora? Piano piano i rumori si affievolirono, le forme si fecero ombre indistinte, i lampi divennero tenui bagliori. Gli occhi si chiusero, le membra divennero stracci al vento, la testa pesava. Silenzio. Vertigine. Vuoto. Un vuoto senza misura, che si tramutò in sogno. Qualcosa di fresco e profumato si posò sulla fronte arsa di sale. Pareva un bacio. Un refolo d’aria soffiò via la sabbia asciugata dal sole. Gli occhi si aprirono all’improvviso, infastiditi. Luce.

    2.

    Afghanistan - Valle del Kritt, pianoro del Bashtag,

    10 maggio 2011, martedì, ore 5:15

    L’uomo tossì e sputò più volte.

    «Sabbia schifosa», esclamò.

    «Kamir te l’aveva detto, di non toglierti il fazzoletto. Nemmeno quando dormi.»

    «Non credevo. Questa polvere gialla è peggio della sabbia. Si incolla addosso, chiude i pori, riempie i polmoni. Che ore sono?»

    «Buon giorno, capitano. Sono le cinque e un quarto. Fra qualche minuto ci sarà luce. Dopo il turno sei crollato come un bambino. Dai, su, esci dal sacco a pelo e vediamo di organizzarci.»

    «Buon giorno un paio di… Non sono il tuo capitano», contestò l’ufficiale, cercando di nascondere una smorfia di dolore.

    «Lo sei stato e lo sarai ancora. Fra cinque giorni decadrà la restrizione e verrai reintegrato nel grado. Ti duole la caviglia, eh?»

    «Già. Le ragazzate uno le paga con gli anni. E poi trenta chilometri e mille metri di dislivello si fanno sentire», commentò Draco uscendo dal sarcofago e sollevandosi dal materassino. «E parlo di trenta chilometri sprecati su questa pietraia nuda e miserevole.»

    «Non lamentarti. Un legionario di Cesare macinava trentasei chilometri al giorno con un fardello di quasi quaranta chili di materiale. E doveva pure erigere il campo trincerato.»

    «I tempi sono cambiati; non sono un legionario e mi sono già di troppo i diciassette chili e mezzo dell’M82 e dei kit che mi porto appresso. Perché mi guardi così?» chiese stiracchiandosi, poi si alitò sulle mani per scaldarle.

    «Non so cos’hai sognato in queste due ore, ma non doveva essere nulla di bello», rispose Gerico, inginocchiato due metri più in là, davanti al bricco per il caffè posto sopra una cartuccia di fuoco chimico, che ardeva senza produrre una fiamma visibile.

    «Gridavi nel sonno, ti dimenavi, parlavi di ali…»

    «Ah… quel sogno. Lo faccio sempre quando sono troppo stanco. Che riserva d’acqua abbiamo?» chiese, passandosi una mano sulla guancia per controllare la ricrescita della barba.

    «Basta per il caffè e per il ritorno. La barba te la radi quando rientriamo alla base. D’accordo?»

    «Non dovrei essere io quello che impartisce gli ordini?»

    «Se davvero fossi stato di quella pasta, al tuo posto ora ci sarebbe un brufoloso sottotenente di prima nomina. Quelli della tua classe scalpitano per aggiungere una torretta alle tre stellette sul bavero e se ne stanno rintanati al sicuro. Guarda che lo sappiamo tutti che ti sei fatto punire per allontanare la promozione. Quella storia della zuffa fuori servizio col maresciallo Ragusa non ha mai convinto nessuno. Men che meno lui. Per questo te la sei cavata con tre mesi di sospensione del grado. La verità è che tu l’operatività ce l’hai nel sangue.»

    «Mi avresti preferito in pensione?»

    «Per niente. Mi piacciono i bastardi come te. Non riservano mai brutte sorprese. E guai a te se ti radi a secco. Sudore e polvere ti riducono la faccia come il culo di un babbuino. Non vorrai illuminare la notte e fare da bersaglio?»

    «Giusto. D’altra parte l’invito non prevede nemmeno la cravatta», ironizzò Draco, battendo la mimetica a mani aperte per togliersi di dosso quanta più polvere possibile.

    I due si accovacciarono uno di fronte all’altro con le schiene contro gli zaini, per mangiare un po’ di cioccolata e sorseggiare il caffè bollente. Di tanto in tanto si guardavano intorno, cercando qualcosa di vivo in mezzo a quel nulla giallo e polveroso che era il pianoro del Bashtag, remota frangia di quel territorio selvaggio e inospitale.

    «Posso sapere a chi stai scrivendo?» chiese Gerico serrando le cinghie del suo zaino.

    «A nessuno.»

    «E cosa scrivi allora, se è lecito?»

    «Cose che non voglio dimenticare. Impressioni, dettagli, pensieri.»

    «Note di viaggio?»

    «Una specie.»

    «E quel fiore! Dove l’hai trovato?»

    «Sporgeva da una fessura nelle rocce. Bianco e viola. Da non crederci! Un fiore in questa pietraia. Secondo te Kamir saprebbe dirmi qualcosa?»

    «Forse qualcosa posso dirtela io. Non vorrei sbagliare, ma credo si tratti del giglio delle dune. È talmente leggero e delicato che lo chiamano seta del deserto. Sei stato fortunato. È raro, ed è tipico di questo paese. Per questa gente è un pegno di fedeltà assoluta. Lo usi come segnalibro?»

    «No. L’ho messo nel libro così si asciuga. Si secca e… Boh!»

    «Quindi è destinato a essere regalato, mi par di capire. Le leggerà mai qualcuno, quelle note?»

    «Eh, bella domanda. È quello che spero. Non dipende da me.»

    «Ho capito. Non ne vuoi parlare.»

    «Kamir?» chiese Draco, raccogliendo il necessario per mettersi in marcia.

    «Ha scavato la latrina dietro quella roccia, poi è andato avanti, un’ora fa. Risale il crinale a est e ci segna il cammino migliore. Ricordiamoci di chiuderla, la latrina. Non dobbiamo lasciare alcuna traccia dietro di noi.»

    «È partito col buio? Quell’uomo è una capra.»

    «È la migliore guida della zona. Non potevamo sperare in meglio. Dichiara di far parte del gruppo etnico dei Pashtun. Ci è nato, quassù.»

    «Quello che mi chiedo è come possa viverci, quassù. Forza, in marcia. L’obiettivo dista ancora una quindicina di chilometri.»

    Le tracce disseminate da Kamir erano insignificanti, ma chiare e precise agli occhi di due militari esperti. E Draco e Gerico erano esperti. Lo si poteva intuire anche dal distintivo a bassa visibilità che portavano sul braccio sinistro, che li catalogava come incursori di marina e paracadutisti, oppure dai nastrini sopra il taschino destro: sei missioni all’attivo per Gerico, dodici per Draco: un veterano. Sopra il taschino sinistro era applicato un altro stemma: un fucile avvolto da una saetta, stemma dell’Unità autonoma violatori, artificioso eufemismo coniato per coprire le missioni fantasma dei tiratori scelti. F.S. in codice NATO, ovvero free-sniper. Qualcosa di più di semplici cecchini.

    «Freddo di notte, caldo torrido di giorno. Un’ora fa polvere e rovi arsi, adesso pietre e conifere. Che razza di paese», borbottò Draco. «Hai i numeri per il recupero? Ora, luogo, coordinate...»

    «Tutti quelli che ci servono. Prima del silenzio radio ho ricevuto le coordinate. Tu ancora dormivi.»

    «Buono. Sono dei nostri?»

    «No. Ci danno un passaggio gli inglesi. Una delle loro libellule a quattro pale è di strada. Perché quella faccia?»

    «Non godono della mia simpatia… né loro, né gli americani. Prime donne.»

    «Coraggio. Ancora quindici giorni e saluteremo queste lande. Afgani, talebani, americani, inglesi… Saranno solo altre facce da dimenticare.»

    L’ufficiale annuì e si portò il binocolo agli occhi. Così facendo la manica gli risalì ben sopra il gomito e lasciò intravvedere il tatuaggio di cui andava particolarmente fiero.

    «Uhm, il tuo drago. Per questo ti chiamano Draco?»

    «Dovevo scegliere un nome in codice per le missioni. Mi è sembrato logico. È latino», precisò, regolando le ottiche.

    «Lo è anche la scritta, vero? Dubi… dubium…»

    «È latino anche questo», lo aiutò Draco

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