Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Blu Espero
Blu Espero
Blu Espero
E-book499 pagine6 ore

Blu Espero

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (358 pagine) - Cosa è accaduto alla colonia terrestre su Venere, rimasta silenziosa per dieci anni? E perché ora chiedono di mandare nuovi coloni? L'avvincente romanzo vincitore del Premio Odissea 2021


È il 1977 quando i primi astronauti terrestri mettono piede su Venere. Scoprendo, con loro sorpresa, un mondo rigoglioso, ricco di vegetazione e perfettamente abitabile: con l'eccezione di misteriosi circoli all'interno dei quali la vita non è possibile. In pochi anni viene fondata la prima colonia, ma poi Venere diventa silenzioso: la colonia non comunica più e sulla Terra nessuno sa cosa sia successo. Finché non arriva, dopo dieci anni, una nuova trasmissione.

Luigi Rinaldi, maestro della suspense, costruisce un romanzo avventuroso, avvincente, nel quale ogni risposta genera altre domande, fino alla rivelazione finale.


Luigi Rinaldi è nato a Roma nel 1967. Docente di ruolo in Chimica nella scuola secondaria, ha lavorato in passato nel campo nei rifiuti industriali e delle bonifiche ambientali. Ancora oggi svolge attività di consulente in qualità di libero professionista. Scrive per hobby da alcuni anni per lo più racconti di fantascienza, genere di cui è molto appassionato. Nel 2006 è giunto terzo al Premio Alien con il racconto Sindrome 75 e, sempre nel 2006 è giusto finalista al Premio Galassia – Città di Piacenza. Nel 2010 ha vinto il Premio Robot con il racconto Hidden, con il quale è giunto finalista anche al Premio Italia 2011. Dal 2012 al 2018 è stato plurifinalista al Premio Rill (2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2018). Nel 2018 ha pubblicato l’antologia Oscuro prossimo venturo tramite l’editore Wild Boar. È presente con un suo racconto Prova di Recupero nell’antologia Altri Futuri (Delos Digital, 2019), curata da Carmine Treanni. Altri suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie quali NASF, Short Stories e, con Delos Books, in 365 racconti erotici per un anno, 365 racconti horror per un anno, 365 racconti sulla fine del mondo e Magazzini di Mondi. Ha scritto anche racconti non di genere che sono stati pubblicati in antologie della Giulio Perrone. Nella vita privata è sposato con Yumi, con la quale ha collaborato in alcuni lavori per conto della casa editrice giapponese Engine Room (è stato il “copywriter” italiano in un libro d’illustrazioni fotografiche su Venezia venduto in Giappone). Yumi stessa ha lavorato in ambito letterario: è stata traduttrice di numerose opere (dall’inglese al giapponese), tra le quali alcuni romanzi dello scrittore scozzese Scott Mariani. Luigi Rinaldi parla un discreto giapponese.

LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2021
ISBN9788825418743
Blu Espero

Leggi altro di Luigi Rinaldi

Correlato a Blu Espero

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Blu Espero

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Blu Espero - Luigi Rinaldi

    Capitolo 1

    1

    3 giugno 1977

    Janet Keyko Nagano staccò con rabbia la cinghia che la teneva legata alla poltrona e tirò la leva idraulica a servizio del portello dello Star Lander che si spalancò con un tonfo.

    Una luce soffusa, grigia, aliena, invase l’interno dell’abitacolo. Fuori pioveva a dirotto, il termometro da polso segnava 38 °C, il contatore Geiger non rilevava radiazioni.

    Il primo passo toccava a lei, era la comandante, ma non sarebbe stato certo come tutti l’avevano immaginato.

    Stava male. Stavano tutti male.

    Forse stavano morendo e non sapevano il perché.

    Fuori! – urlò.

    Si mosse e il suo stivale sinistro affondò in una pozza di fango.

    Il primo passo dell’Homo Sapiens su Venere.

    2

    Jane si sentiva come se le sue budella si fossero staccate dal resto del corpo. Per reprimere i continui conati di vomito cercò di concentrarsi su un pensiero specifico.

    Nella mente, allora, le apparve Tony, intento a leggere la lettera di una sola riga che gli aveva lasciato prima di partire di nascosto per il Centro.

    Vado su Venere. Rifatti una vita, ti prego.

    Quella fantasia autopunitiva fece il suo effetto e riuscì a controllarsi.

    L’astronauta francese Gérard Le Bon, invece, sceso subito dopo di lei, fece due passi nel fango e vomitò nel casco, accasciandosi a terra.

    Jane urlò subito un ordine.

    – Maria Pilar! Presto!

    La terza a uscire dallo Star Lander fu Maria Pilar Gomez, cosmonauta cubana, medico della Kosmicheskaya programma.

    Jane la vide guardarsi attorno sul ciglio del portello, quasi imbarazzata, per poi scendere a dar soccorso a Le Bon.

    – Non fargli togliere il casco!

    Maria Pilar Gomez le fece un cenno con la mano come per dire stai tranquilla, me ne occupo io, ma si vedeva dai suoi movimenti impacciati come stesse già soffrendo.

    – Avanti gli altri! Forza!

    Jane inspirò ed espirò. Non servì.

    Sentiva male in ogni cellula del suo corpo: era un dolore indescrivibile, sordo, completo, mai provato prima e non associabile a un qualsiasi sintomo noto.

    Era come se il suo intero organismo stesse disgregandosi.

    Forse sono radiazioni dure pensò.

    Ma, al suo polso, il contatore Geiger continuava a non rilevare nulla di anomalo.

    Strinse i denti mentre gli altri tre componenti dell’equipaggio scendevano uno alla volta: il sovietico Anatolij Sacharov, la canadese Laura Preston e, per ultimo, l’inglese David Hilbert, il famoso scienziato Premio Nobel.

    Laura Preston aveva il casco imbrattato di vomito e tossiva. Finì subito a terra, distesa su un fianco, quasi in posizione fetale.

    Sacharov fece alcuni passi incerti, borbottando imprecazioni in russo. Hilbert, invece, avanzò di un paio di metri e prese a girare attorno a sé stesso, senza un motivo apparente.

    Era il più straziante primo sbarco nella storia dell’Umanità.

    Stavano morendo tutti, era evidente, e non sapevano nemmeno il perché.

    Un sacrificio inutile, persino poco elegante, a cui venti minuti dopo tutto il mondo avrebbe assistito in differita, con orrore.

    La pioggia, intanto, indifferente alle loro pene, continuava a cadere incessante. Era diventata quasi torrenziale, contraddicendo in pieno le previsioni che avevano dato tempo buono in tutta la regione dello sbarco.

    Il terreno, inoltre, vibrava come se ci fosse un terremoto.

    In questo contesto di confusione, Jane non riusciva a vedere dettagli distinti se non a pochi metri da lei mentre, più in là, nello spazio attorno al Circolo dove erano atterrati, percepiva solo un confuso muro di ombre.

    Ci mise più del dovuto per capire che quel muro di ombre altro non era che la Foresta. L’intricata e misteriosa Foresta primordiale di Venere.

    Prese a ripetere come un mantra lo stesso ordine, sforzandosi di apparire chiara e autorevole.

    – Non toglierlo! Non toglierlo!

    Si riferiva al casco spaziale, ovviamente. Per tutti, l’istinto era quello di liberarsene.

    Intercettò Hilbert, riconoscendolo in quel frangente solo per via della bandiera britannica sulla tuta.

    – Dave! Cosa facciamo? – gli chiese, sperando in un qualsiasi consiglio.

    Il geniale scienziato non si lamentava, pareva resistere al dolore più di tutti loro ma continuava a girare su stesso come una marionetta, senza dire nemmeno una parola.

    Intanto, le arrivarono via radio le urla di Laura Preston, ancora coricata a terra.

    – Moriremo tutti! Moriremo tutti!

    Jane si accorse che Maria Pilar Gomez e Sacharov si trovavano, ormai, nella stessa situazione della biologa canadese, mentre Le Bon si era seduto e col guanto faceva dei segni nel fango.

    Chiuse gli occhi. Li riaprì. Doveva fare qualcosa. Ma cosa?

    Pioveva, diluviava, tuonava, la terra tremava, erano scesi su Venere da appena cinque minuti e stavano morendo. Senza una ragione, senza una spiegazione.

    Senza una dignità.

    Hilbert era l’ultima speranza.

    – Dave! Hilbert! Parlami, accidenti!

    Ma lo scienziato non pareva nemmeno ascoltarla.

    Allora, in un’ultima di stilla di razionalità, la comandante diede l’ordine di ripiego.

    – Tornate nello Star Lander! Subito! Pilar! Prepara antibiotici e antivirali ad ampio spettro!

    Ma stavolta Hilbert reagì molto prima che la cosmonauta cubana muovesse un passo. Era come se, quasi all’improvviso, si fosse scosso da un torpore misterioso.

    – Lascia stare, Jane. Non servirebbe a niente.

    – Perché?

    – È il Circolo – aggiunse con un tono di voce straordinariamente calmo. – È senza ombra di dubbio il Circolo. Dobbiamo fare proprio il contrario, spostarci nella Foresta.

    Jane lo fissò dietro i vetri di due caschi. Lottò contro l’emicrania, sentiva la testa scoppiarle, e si afferrò a quel consiglio come a un salvagente nella tempesta.

    – Il Circolo?

    Il casco spaziale dell’inglese si inclinò in avanti.

    – Sì. Ecco perché qui non ci cresce niente. Capisci? È un deserto anomalo ma è qualcosa di mefitico che lo rende tale. Qualcosa che non teme barriere e che sta attaccando anche noi. Se restiamo qui o nello Space Lander, moriremo di certo. Dobbiamo raggiungere la Foresta, dove c’è vita. E dobbiamo farlo subito, finché ne abbiamo le forze.

    Jane annuì. In quelle condizioni avrebbe approvato ogni idea, anche la più strampalata. Ma Hilbert aveva sempre idee brillanti.

    – Forza! Avete sentito? Tutti nella Foresta!

    Gli altri, troppo alle prese col proprio inferno personale, ubbidirono senza discutere. Si mossero in gruppo, disegnando una catena umana.

    Ogni passo era un dolore lancinante, ogni cellula un grumo di dolore. Non c’era un nervo che non scottasse, non c’era budella che non volesse uscire da dove albergava.

    – Non ce la faccio! – fece la Preston.

    Jane la spronò.

    – Muoviti! Forza!

    Dopo un tempo interminabile che sembrò durare secoli, ostacolati dal peso delle tute spaziali e dal fango, giunsero al confine del Circolo, dove cresceva una rigogliosa vegetazione. Non avevano avuto tempo e modo di constatare quanto la Foresta fosse primordiale, aliena e selvaggia: il frutto dell’evoluzione di un pianeta gemello alla Terra dove le cose, tuttavia, erano andate in un modo diverso. Un lento e antico cammino di miliardi di anni, mai ostacolato da eventi per davvero distruttivi.

    E quando varcarono quel confine, per niente simbolico, fu il sollievo, l’orgasmo.

    Fu la Vita.

    Il dolore, quella cachessia generale che li aveva oppressi, sparì all’istante, un piede appena fuori dal Circolo.

    Laura Preston fu l’ultima ad arrivare nella Foresta e ad accorgersene.

    – Mio Dio!

    L’astronauta canadese scoppiò a ridere e a piangere allo stesso tempo. Tirò via il gancio pressurizzato e si tolse il casco, aspirando l’aria del pianeta, quasi in estasi, mormorando qualcosa di incomprensibile.

    Jane, ancora stordita, si accorse troppo tardi del viso nudo della compagna, ancora sporco di vomito, che esprimeva gioia ed estasi.

    – Che hai fatto? Idiota! – esclamò.

    Il primo Homo Sapiens ad aspirare l’aria del pianeta Venere era stata Laura Preston, venti minuti dopo l’atterraggio. Secondo la procedura l’evento sarebbe dovuto avvenire non prima di tre giorni, dopo una serie di analisi di laboratorio, confortate da Terra.

    La biologa si pulì il viso con la pioggia e la fissò con il più innocente degli sguardi.

    – È profumata. Calda. È la Vita! È Dio!

    Jane sospirò. Poi, fece un cenno ai suoi compagni che capirono subito le sue intenzioni.

    Hilbert cercò di opporsi.

    – Non è conforme. Se nell’aria c’è un terpenoide tossico, saremo tutti spacciati.

    Lei alzò le spalle.

    – Non farebbe molta differenza. La procedura, fin qui, non ci è servita a molto. Nel caso, faremo da cavie per chi verrà dopo di noi. Preparatevi a tutto, anche a morire.

    Titubanti, fissarono a turno Laura Preston. Sembrava stesse bene ma non voleva dire nulla.

    Tuttavia, uno dietro l’altro si tolsero il casco, assaporando a fondo, per la prima volta, gli odori sconosciuti di un pianeta alieno.

    – L’aria sa di zucchero filato – disse Le Bon.

    – È vero.

    Rimasero senza parlare per diversi minuti quasi per riflettere sul senso della Vita. Davanti a loro, in pieno Circolo, lo Star Lander fendeva l’oscurità con le sue luci lampeggianti rosse che si riflettevano nelle numerose pozzanghere.

    Sacharov buttò subito giù tre ipotesi, tutte insieme:

    – Radiazioni? Microonde? Magnetismo?

    Hilbert scosse la testa.

    – Nessuna delle tre. Avremmo rilevato tutto.

    – Magari gli strumenti non funzionano.

    – Funzionano.

    Jane fissò il Circolo come se vi danzassero miriadi di streghe invisibili.

    3

    Un’ora dopo, l’oscurità era aumentata, forse per l’approssimarsi della notte venusiana, un po’ più lunga di quella terrestre. Erano senza riferimenti oggettivi, avevano lasciato nello Star Lander tutte le strumentazioni portatili.

    Inoltre, le radio dei loro caschi non captavano alcun segnale dallo spazio. A quell’ora l’Orbiter doveva essere passato proprio sopra lo zenit mentre lo Star Bus 1, che li aveva condotti lì, aveva già lasciato Venere e iniziato il suo viaggio di ritorno lungo diciannove mesi verso la Terra, pronto a darsi il cambio con lo Star Bus 2.

    Jane contemplava i suoi compagni. Laura Preston si guardava attorno, sorridendo a ogni piccola nuova scoperta. Le Bon e Hilbert parlavano in francese sulle misteriose proprietà mefitiche del Circolo, facendo esperimenti su sé stessi, allungando e ritraendo le braccia oltre il confine. Maria Pilar Sanchez esaminava la gola di Sacharov.

    La donna pensava ancora a Tony, al di là del tempo e dello spazio. Era certa che lui non l’avrebbe mai perdonata. E del resto nemmeno lo voleva. Per certi versi era un dolore quasi piacevole.

    Sono solo una masochista del cazzo.

    Laura Preston interruppe le sue autocommiserazioni.

    – È come se la Natura ci avesse accolti nel suo grembo – disse.

    La biologa canadese si mostrava la più entusiasta del gruppo e aveva cominciato a fare discorsi eccentrici.

    Sembrava essersi votata improvvisamente a una spiritualità naturalistica là dove erano tutti materialisti, marxisti o entrambe le cose. Teneva le mani aperte alla pioggia come per ringraziare qualche divinità, in un modo che appariva agli occhi di Jane infantile e irritante.

    – Guardate! – urlò.

    A circa cinque metri verso l’interno, indicò una specie di gigantesca orchidea verde e azzurra posta sul tronco di una enorme felce davanti alla quale la vegetazione si diradava.

    – È stupenda! È come se la Natura di Venere ci desse il benvenuto.

    Si mosse per raggiungerla, ma Hilbert la bloccò.

    Jane assistette alla scena con curiosità. Vide prima l’espressione severa di Hilbert, poi quella sorpresa di Laura Preston, infine il fiore: nonostante il grigiore, il suo colore era intenso e attraente.

    Lo scienziato inglese prese un sasso da terra e lo lanciò sotto la felce, con precisione.

    Una cosa immonda, filiforme, nera, uscì da un qualche buco colpendo l’ogiva al volo e disperdendo un liquido denso e bianco in aria.

    Le esclamazioni di sorpresa si sovrapposero e si voltarono tutti verso Hilbert per pretendere spiegazioni su quello che avevano appena visto.

    – La conformazione di quel luogo non sembra casuale e il fiore pare stia lì a far da esca. Probabilmente si tratta di una simbiosi di qualche tipo.

    Maria Pilar Gomez mormorò:

    – Quella cosa era lunga più di un metro…

    Hilbert fece segno di no con la testa.

    – Con tutto l’ossigeno che c’è qui, un metro è una stima in difetto. Forse è un’appendice di un organismo ben più grande.

    Laura Preston tremava, con gli occhi spalancati ancora fissi verso la felce.

    Anche Jane rabbrividì e si avvicinò ad Anatolij Sacharov per trarre conforto. Era bello, prestante, intelligente, non lo avrebbe mai amato, o forse sì, chissà, e comunque non avrebbe avuto alcuna importanza. Avrebbe concepito il suo primo figlio con lui. E poi, dopo, ne avrebbe concepito un altro. Questo si era deciso, questo avevano accettato e questo sarebbe avvenuto.

    – Jane – le chiese Sacharov, in un inglese dal forte accento russo. – Che facciamo adesso?

    Tutti si strinsero attorno alla comandante. La donna socchiuse gli occhi e rispose:

    – Costruiremo Utopia qui, nella Foresta, e non nel Circolo come da specifiche. Avremo modo, col tempo, di scacciare dal nostro spazio vitale quella e altre cose – indicò l’orchidea.

    Fecero tutti un cenno di consenso e allora Jane proseguì.

    – Ma nell’immediato abbiamo un altro problema. Le nostre radio continuano a non captare nulla, nemmeno il segnale di rilancio dell’Orbiter. Come mai?

    – Forse è la tempesta – disse Sacharov indicando lo Star Lander.

    – Può essere – ammise Le Bon. – Ma perché non l’abbiamo prevista?

    Hilbert si grattò la testa, fissando con interesse la Foresta, attorno a lui.

    – Sappiamo ancora poco della meteorologia venusiana… Dobbiamo aggiungere alla Teoria del Caos nuove variabili nascoste… C’è molto lavoro da fare…

    – Comunque, tempesta o non tempesta, che facciamo? – chiese Maria Pilar Gomez. – Rimaniamo proprio qui? Se fossero radiazioni nascoste quelle che ci hanno quasi ammazzato potrebbe essere ancora pericoloso. O ci spostiamo un po’ all’interno per cercare un luogo più adatto e riparato? Certo, ci sono quelle cose…

    Laura Preston non partecipava alla discussione. Era ancora scossa dall’evento dell’orchidea e, strettasi a Le Bon, il suo futuro compagno, volgeva lo sguardo verso l’interlocutore di turno.

    Jane prese la parola.

    – Direi che, per ora, non abbiamo alternative. Rimarremo qui, almeno per stanotte. Prenderemo le tende dallo Star Lander, del cibo, i kit di sopravvivenza, le armi e ci accamperemo, bonificando questi pochi metri quadri, palmo a palmo. Poi, recinteremo il tutto con le barriere elettriche e da domani studieremo il modo su come ampliarci per far spazio alla Prima Onda. Ma ora, dobbiamo prepararci ad affrontare un Calvario, qualunque ne sia la causa. Dobbiamo farlo prima che cali il buio totale.

    Poi li fissò a uno a uno e aggiunse:

    – Se qualcuno ha qualche idea migliore, la tiri fuori. Sono aperta al dialogo.

    Le Bon le chiese:

    – Io sono d’accordo con te. Ma quanto pensi ci vorrà per arrivare allo Star Lander, prendere il tutto e tornare indietro?

    Jane fece una valutazione.

    – In due gruppi da tre, se corriamo senza l’intralcio delle tute, mezz’ora.

    Sacharov cominciò a spogliarsi.

    – Facciamolo.

    4

    Corsero verso lo Space Lander, sguazzando dentro il fango. Ogni passo era un delirio di dolore, ogni metro un’agonia.

    Jane riuscì a indovinare solo al secondo tentativo la giusta procedura per staccare la slitta dal Modulo. Purtroppo era impossibile far muovere le ruote nel fango, quindi presero tutto a mano.

    Quando tornarono nella Foresta erano quasi svenuti.

    La Gomez li visitò, per fortuna si ripresero in pochi istanti. Quella cachessia, da qualunque fattore dipendesse, sembrava essere temporanea e non lasciare danni permanenti, almeno nel breve periodo.

    Stavano facendo da cavie per loro stessi.

    – Non possono essere radiazioni – fece Jane, dopo aver ripreso fiato.

    – Corretto. Ma non è neppure biologico. E nemmeno chimico – aggiunse Hilbert. – Quindi, è per forza fisico. Forse è un qualche tipo di magnetismo direzionale, o una radiofrequenza che non riusciamo a captare.

    – Ma non abbiamo mai rilevato niente di tutto ciò.

    – Non abbiamo rilevato bene. Ma scoprirò di che si tratta.

    Jane lo fissò. Hilbert era un genio e in quel suo sguardo c’era tutta la sua determinazione. Era certa che ci sarebbe riuscito.

    – Adesso c’è poco da discutere. Dobbiamo portare qui il resto della roba. Ci vorranno almeno altri tre viaggi. Preparatevi. Secondo gruppo.

    5

    Ci vollero altri quattro viaggi.

    Dopo due ore, al buio, erano riusciti a montare le tre tende per la notte, una accanto all’altra, proteggendole da una rete elettrificata a medio voltaggio.

    Si erano divisi nelle tre coppie prestabilite: Sacharov e Jane, Hilbert e Maria Pilar Gomez, Le Bon e Laura Preston.

    Erano come degli Adamo ed Eva in un pacchetto offerta da tre.

    Così terminò il primo giorno dell’Uomo su Venere. Molto diverso da quanto era stato programmato, senza ancora la possibilità di contattare la Terra.

    Rannicchiata al petto di Sacharov, Jane pensava al futuro e al passato, trascurando il presente.

    Aveva un mondo nuovo, dove stabilire regole nuove per una società migliore, scevra dalle violenze e dall’ignoranza. Sarebbe nato, lì su quel pianeta, l’Uomo Nuovo. Era quello che aveva sempre desiderato.

    Certo, c’era il passato, ovvero Tony, che si frapponeva a quei pensieri.

    Ma lei era lì e ormai importava solo questo.

    Avrebbe superato le difficoltà, una dopo l’altra. Avrebbe fondato Utopia, concepito dei figli con l’uomo che era ora al suo fianco.

    Avrebbe fatto il suo dovere, fino in fondo.

    Non aveva alcun dubbio in proposito.

    Capitolo 2

    1

    12 gennaio 2001

    La barba lunga e gli occhi arrossati stavano a dimostrare quanto il Direttore avesse dormito poco in quegli ultimi giorni.

    Per qualche strano motivo, Tony, invece, non era stupito da quelle novità incredibili. Piuttosto, si sentiva confuso.

    – Me lo puoi far risentire un’altra volta?

    Il Direttore inforcò gli occhiali e, maneggiando il mouse, mandò in esecuzione il file audio.

    Attenzione, uno due tre. Qui parla il Dottor Gérard Le Bon dalla Repubblica di Utopia. Richiamiamo l’attenzione del Progetto, sulla Terra. Dichiariamo cessata l’emergenza promulgata il 15 Aprile 1990. Garantiamo la ripresa dell’immigrazione presso il nostro territorio limitata, per ora, a un solo lotto di quattro risorse idonee: ripetiamo, quattro risorse idonee, due maschi e due femmine. Attenzione, zero zero zero.

    Poi, nel tentativo maldestro di stoppare il file audio, il Direttore fece partire un forte suono stridulo.

    – Che cazzo…

    Tony si massaggiò le orecchie.

    – Si sono fatti persino una repubblica.

    Il Direttore pareva non averlo ascoltato: stava lì ad armeggiare ancora con il PC. Come sua abitudine, non voleva avere nessuno tra i piedi a fargli da badante.

    – Lo odio quest’affare.

    – L’odio deve essere reciproco. Ma il messaggio si ripete così?

    – Ogni due ore, ovviamente quando la finestra radio è soddisfacente. Gli esperti ritengono che sia attendibile. Che viene da lì, comunque, è assodato.

    Poi, si tolse di nuovo gli occhiali, in attesa di commenti.

    Tony arricciò le labbra.

    – Immagino che l’opinione pubblica non ne verrà informata.

    Il Direttore inarcò le sopracciglia, quasi fosse sorpreso della domanda.

    – Figurati. Quindi, sai bene cosa ti aspetta.

    – Uomini in nero davanti casa, telefono sotto controllo…

    – A meno che…

    Tony annuì. Non ci voleva una mente geniale per capire il motivo per il quale il Direttore l’avesse convocato lì, di sabato pomeriggio e con un elicottero del Progetto, per metterlo al corrente di un segreto di stato.

    Lo Star Bus 1 stava per ripassare vicino alla Terra: roba di giorni, ormai.

    – Vuoi proprio che vada lì per te, eh?

    Il Direttore lo fissò con aria interlocutoria.

    – Beh, Tony, non è che io ti possa obbligare, siamo ancora in democrazia, così dicono…

    – Ma il mio consenso sarebbe caldamente apprezzato.

    Il Direttore appoggiò le mani sulla scrivania.

    – Caldamente apprezzato. Sì.

    E dopo alcuni secondi di silenzio, continuò:

    – Ti confesso, il tuo atteggiamento mi lascia perplesso. M’aspettavo che schizzassi dalla sedia e mi chiedessi – dov’è la tuta spaziale?. – E invece te ne stai lì, con la flemma tipica di un Lord inglese.

    Tony gli si avvicinò spingendosi avanti col busto.

    – Perché? Dovrei essere entusiasta di passare il resto dei miei giorni a vivere come un Tarzan in mezzo agli insettoni? Sempre ammesso sopravviva a sei mesi di coma indotto nello spazio, chiuso in una sfera di titanio e gadolinio…

    – … che tu hai contribuito a progettare.

    – Già, ma non significa niente.

    Il Direttore fece un gesto con le mani, come per dire – e allora?. –

    – Senti, sono più di vent’anni che ti conosco. Sei sempre stato un pilastro del Progetto. Grazie a te, abbiamo ottimizzato i costi e fornito ai coloni più mezzi di quanto potessero mai sperare. Sei un eccellente ingegnere. Ma tu…

    Lo indicò con il dito.

    – … tu hai avuto sempre un qualcosa in più rispetto agli altri. Qualcosa che ti spingeva a fare meglio dell’eccellenza. E tu lo sai cos’è questo qualcosa come lo so io. Non fare lo gnorri. Non sei il tipo che ha paura di sei mesi di coma indotto nello spazio o delle Pulci.

    Tony rifletté alcuni secondi, poi si alzò. Si avvicinò alla finestra. Da lì, si poteva vedere il panorama di Houston. Stavano accendendosi le prime luci della sera.

    Sentì alle sue spalle il click di un accendino.

    – Non ti fa bene – gli fece, senza voltarsi.

    Il Direttore era stato operato due volte.

    – Smettila di preoccuparti per me, mi commuovi.

    Tony sospirò. Tornò a sedersi, prese una delle sigarette del Direttore sulla scrivania e se l’accese.

    Stettero per qualche minuto a contemplare le spirali di fumo. Infine, Tony disse:

    – Sono venticinque anni che non la vedo. Non so nemmeno cosa potrei dirle…

    – Su questo non saprei proprio come aiutarti, non curo la posta del cuore sui rotocalchi rosa. Ma che tu sia il migliore da mandare lì, in questo momento, non ho alcun dubbio. Conosci il quadro del problema come pochi. Non sei sposato, non hai nessuno da lasciare. Forse sei un po’ vecchio… Meglio, avrai modo di prendere a calci nel culo quei mocciosi. Forse a cercarlo per tutto il mondo, qualcuno più qualificato di te da impacchettare e spedire lassù lo troveremmo pure, ma in dodici giorni è dura.

    – Ma c’è un Piano B…

    Il Direttore fece un cenno con la mano come per dire lascia stare.

    – Un Piano B che avrebbe bisogno almeno di un altro paio di giri di boa per avere una qualche possibilità di successo. E Venere, amico mio, è una risorsa immensa che non ci ha restituito ancora un dollaro di profitto. E gli azionisti sono incazzati neri. Questa cosa del Silenzio non gli è mai andata giù. Per non parlare dell’opinione pubblica che ci morde le chiappe ogni santo giorno…

    Tony spense la sigaretta.

    – Quelli dicono che vogliono quattro risorse. Chi vorreste mandare insieme a me?

    Il Direttore lo fissò diritto negli occhi.

    – Robertson.

    Tony scoppiò a ridere. Il Direttore rise con lui, fino alle lacrime.

    – Scusa. È che mi piacerebbe immaginarvi dormire uno accanto all’altro, come due angioletti…

    E riprese a ridere. Tony scosse la testa.

    – Piantala di cazzeggiare…

    Il Direttore si riprese, asciugandosi gli occhi col fazzoletto.

    – Va beh… Per questa missione, abbiamo chiesto aiuto ai Cinesi. Si sono dimostrati collaborativi, il che significa che sono ancora indietro con il loro piano autonomo. Stavolta vogliono avere voce in capitolo nella questione per cui ci hanno dato un loro ufficiale… Una donna.

    Tony inarcò le sopracciglia.

    – Spero almeno sia carina.

    Il Direttore inforcò di nuovo gli occhiali, schiacciò qualcosa sulla tastiera e spostò il monitor.

    Tony allungò il collo.

    – Mei Lin Chang. 26 anni, maggiore dell’Esercito del Popolo. Ha due lauree, una in matematica, una in fisica. Parla quattro lingue, tra cui l’inglese. È esperta in arti marziali, conosce ogni tipo di arma. E, quel che importa, ti ubbidirà ciecamente. Questi sono i patti.

    – A carina, è carina… Anzi, è proprio bella…

    – E forse, laggiù, diventerà la madre dei tuoi figli…

    Tony fece una smorfia.

    – Piantala. E gli altri?

    Il Direttore sospirò.

    – Li abbiamo presi dalla Comune…

    Tony si fece un’altra risata sincera. Era da tempo che non rideva così tanto.

    – Scherzi ancora, vero?

    Il Direttore scosse la testa.

    – No, stavolta no. In dodici giorni cosa credi potremmo fare? Un concorso nazionale? Mettere inserzioni sui giornali? Si tratta di un viaggio senza ritorno. O vuoi davvero che imbarchiamo Robertson insieme a te?

    – Ma, sul serio… dalla Comune in Amazzonia! Sono diventati una specie di setta…

    – Credimi, abbiamo considerato tutte le possibilità alternative. Questa è la migliore. Tu, il maggiore Mei Lin Chang. I nostri campioni. E due ragazzi sani, giovani, volenterosi, entusiasti della Comune a far fumo e folclore.

    Tony sbatté le mani sul tavolo.

    – E io dovrei andare là portandomi dietro una coppia di svitati? Che pensi che possano combinare se c’è da lottare, se mi serve un aiuto vero… Rimedia un’altra coppia di cinesi. O di europei, di russi, di americani… Astronauti, cosmonauti, tecnici, soldati! Voglio gente competente con me non degli hippies!

    Il Direttore incrociò le braccia e lo fissò da sopra le lenti, alla maniera dei presbiti.

    – I sovietici hanno altro a cui pensare di questi tempi. Gli europei e i canadesi, con la burocrazia che si ritrovano, ci darebbero un uomo fra cento anni. I giapponesi non ne vogliono nemmeno sentir parlare. E i cinesi… Beh ci fidiamo di loro come loro si fidano di noi. Una risorsa è apprezzata, due sono troppe. Infine, gli americani… ci sei tu. Abbiamo pensato a tutte le opzioni, questa è la migliore. O la migliore tra le peggiori, a voler tagliare il capello in due.

    Tony si mise le mani sul volto e si stropicciò gli occhi.

    – Un salto nel vuoto. Magari sono tutti impazziti come un’orda di zombie. Appena atterrati, forse cominceranno pure a torturarci… E volete che vada là con una donna e due svitati.

    – Purtroppo queste le sono le condizioni di Utopia. Allo stato attuale, non sappiamo proprio cosa succederebbe nel forzare la mano. Non lo sappiamo oggi come non lo sapevamo ieri. Ma non potremmo forzare la mano nemmeno volendo. Credimi, la donna è veramente in gamba. E comunque, un altro asso nella manica l’avrete.

    – Quale?

    Il Direttore sorrise.

    – Te la ricordi una White Space Ball, piena di armi e ogni ben di Dio, da consegnare ai coloni e sparita, invece, nel nulla, nel 1986? Come ti incazzasti!–

    – Accidenti se me la ricordo. Abbiamo perso un carico d’oro…

    – Bene. I cinesi l’hanno individuata con le loro sonde e sono stati molto carini da condividere con noi l’informazione. Si trova oltre la Palude, ancora intatta, piuttosto vicino a Utopia in linea d’aria. Hai presente la mappa nella tua testa?

    – Conosco.

    – Soprattutto, una volta che l’avrai raggiunta, dal suo computer potresti riuscire ad hackerare il server della Radio Interplanetaria per riaccendere l’Orbiter e gli altri satelliti che i nostri amici venusiani hanno pensato bene di spegnere. Se ci riesci, al prossimo giro di boa potremmo essere in grado di mandarti, se servisse, persino un intero squadrone di marines

    La mente di Tony prese a correre.

    Capitolo 3

    1

    22 gennaio 2001

    Tony fu l’ultimo a entrare nel modulo.

    John Valverde, detto Val, e Gillette Sane, detta Gil, lo ignorarono, impegnati com’erano a prendersi in giro a vicenda.

    – Quanto sei scemo! – fece la ragazza ivoriana, sorridendo al compagno.

    Alla luce artificiale, i suoi denti, così come il bianco degli occhi, brillavano quasi di luce propria.

    Il ragazzo britannico, rannicchiato a mezz’aria in una posizione curiosa per via dell’assenza di gravità, le strizzò l’occhio.

    – Vuoi concedermi un ultimo ballo?

    La ragazza si schernì agitando la testa. Le corte treccine rasta si mossero come tentacoli.

    Poi, vedendo lo sguardo serio e impassibile del loro comandante appena entrato fece un segno con le dita, come per dire okay, la finisco di cazzeggiare.

    Ma Tony non era in vena di rimproveri. Aveva altro cui pensare.

    Fece un paio di capriole tenendosi le ginocchia con le braccia, calcolando con cura la traiettoria, come aveva imparato in anni di simulatore. Poi si arrestò, afferrandosi a un sostegno. Fissò prima la Terra, che spiccava come un’enorme palla blu dall’oblò, poi la giovane Mei Lin, che si teneva in disparte, intenta a leggere il libro rosso di Mao.

    I suoi capelli neri, tagliati cortissimi, sembravano argentati alla luce artificiale. Ogni tanto, interrompeva la lettura e riportava l’attenzione su quel che accadeva attorno a lei, disapprovando i lazzi di Gil e Val ma al tempo stesso sforzandosi nel far finta di niente.

    Tony indicò il monitor.

    – Novità?

    Gil, l’unica che si era ancorata alla poltrona, alzò le spalle, fissandolo con uno sguardo tipico di chi ha, per propensione, soggezione e diffidenza dell’autorità.

    – Non si è visto nessuno.

    – Se la prendono comoda – fece Val, cimentandosi a sua volta in una capriola nel tentativo di imitare Tony. – Oh! Accidenti!

    Era andato troppo oltre con lo slancio e ora si trovava esattamente a testa in giù.

    Gil l’aiutò a mettersi diritto, facendolo ruotare senza sforzo alcuno.

    – Grazie, dolcezza.

    Il ragazzo britannico dava l’idea di essere assai impacciato in assenza di gravità.

    Non che sia un gran danno pensò Tony. Tra meno di 24 ore saremo tutti sullo Star Bus 1, chiusi in coma farmaceutico in una sfera di 10 metri di diametro.

    Gil prese a canzonare il ragazzo per via di un particolare.

    – Hai un buco nel calzino.

    La cosa fece sorridere anche l’impassibile Mei Lin. Di fatti, Val fece un’espressione molto buffa col viso quando se ne accorse.

    – Mi succede sempre.

    Tony sbuffò e si ancorò alla parete.

    Prese il quaderno dei suoi appunti e cominciò a sfogliarlo. C’era il sunto di dieci anni di supposizioni, paure, incertezze, ipotesi.

    Cos’era successo laggiù?

    Rivisse le emozioni che aveva provato, riformulando le domande senza risposta, a cominciare dall’inizio del mistero, il comunicato radio del 14 Aprile 1990, ripetuto, da allora, ogni due giorni utili grazie alla voce di una misteriosa ragazzina.

    Attenzione. Uno Due Tre. C’è una grave emergenza. Non siamo più in grado di accogliere nessuno fin da ora. Evitate di far partire l’Ottava Onda con lo Star Bus 2 o sarete responsabili della morte di tutti i migranti. Non inviate nemmeno approvvigionamenti. Tenetevi lontani. Questo annuncio sarà ripetuto ogni due giorni, fino a soluzione dell’emergenza stessa. Zero zero zero.

    E così era stato. Per dieci lunghi anni il messaggio si era ripetuto, sempre uguale, captato dalla Radio Interplanetaria di Utopia a ogni finestra efficace. E non c’era stato nessun altro contatto nonostante numerosi tentativi da parte della Terra. Il 15 Aprile 1990, appena un giorno dopo il primo comunicato, i satelliti in orbita attorno a Venere erano stati spenti di proposito, a uno a uno, compreso l’Orbiter. Utopia aveva cambiato la procedura d’accesso rendendo impossibile la riattivazione dalla Terra. Gli Starbus 1 e 2, che ogni 19 mesi, a turno, continuavano a passare in prossimità di Venere e le sonde cinesi non avevano tuttavia rilevato attività insolite nella zona del villaggio.

    Venere era diventata una scatola nera imbottita di congetture senza risposte. I gravi danni della Grande Tempesta del 1989 avevano forse lasciato il segno? C’era stata un’epidemia misteriosa? I raccolti erano andati a male? Un’invasione delle creature indigene li aveva presi di sorpresa? E perché, nemmeno gli approvvigionamenti? Insomma, cos’era successo lì?

    Dieci lunghi anni di Silenzio. Così l’avevano chiamato quel periodo: un mistero inestricabile, interrotto dal nuovo comunicato di poche settimane prima.

    Un bel salto nel buio, non c’è che dire.

    Immerso in quei pensieri, quasi non si accorse delle parole di Gil.

    – Tony, c’è il Direttore in collegamento.

    L’uomo annuì e chiuse il quaderno.

    2

    – … non ho molto altro da dirvi oltre al fatto che sarete tutti tenuti a rispettare le condizioni standard di immigrazione, come ogni altro colono. Un’ultima cosa: come vi avevo già informati, abbiamo deciso, per ora, di non rendere pubblica la vostra missione. Tuttavia, potremmo farlo in futuro. Se avete messaggi da comunicare ai vostri cari, li potrete registrare fin da ora. Il Progetto terrà comunque cura dell’amministrazione dei vostri beni, della gestione delle eventuali eredità e provvederà a sistemare tutti gli adempimenti burocratici che serviranno.

    Tony fissò i suoi compagni: adesso avevano tutti un’espressione seria sul volto. Anche Val e Gil sembravano aver perso la loro gioiosa esuberanza. Mei Lin, invece, era sempre stata una sfinge.

    Il motore delle loro motivazioni. Era quello che balenava nei loro occhi, qualunque cosa fosse. Era un segreto che ognuno si teneva ben celato nell’anima.

    Poi, fissò il Direttore, dall’altra parte del video e disse:

    – A nome di tutti, garantisco che faremo al meglio il nostro dovere.

    Il Direttore annuì.

    – Ne sono convinto. Che Dio vi aiuti.

    – Grazie, Direttore. Addio.

    Sullo schermo apparve il fruscio della statica.

    In quel momento Tony si sentì solo e avvertì tutto il peso della responsabilità.

    Capitolo 4

    1

    6 agosto 2001

    Quando la Space Ball entrò nell’atmosfera di Venere cominciò subito a illuminarsi al calor bianco mentre Tony, uscito dal coma indotto, si trovava ancora in uno stato di coscienza alterata.

    Contemplò le visiere dei compagni, attorno a lui. Era impossibile scorgerne i visi ma nella sua mente li immaginò deformati in smorfie grottesche, appartenenti non a esseri umani

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1