Sopra e sotto la polvere: Tutte le tracce del terremoto
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Anteprima del libro
Sopra e sotto la polvere - Alessandro Chiappanuvoli
Indice
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
Prefazione di Carola Susani
Libro primo. SOPRA
Epicentro
Buio
Dopo
Viveri
Loro
Campo
3e32
Fuoco
Caracoles
Zona rossa
Abitudine
Illecito
Tetti
Neve
Il Sindaco
Io
Un gioco
Libro secondo. SOTTO
Vittime
Che fai quando succede?
Vigili del fuoco
Protezione Civile
Stranieri
Comunicazione in emergenza
Comitati e movimenti
Resilienza
Carriole
Delocalizzazione
Lo stato della ricostruzione
Quale ricostruzione?
Psicologia dell’emergenza
Memoria e comunità
Politica
Grandi rischi
Sociale
Explicit: Mancanza
Bibliografia
esSaggi Pop
Sopra e sotto la polvere • Ebook
ISBN 978 88 988 378 78
Prima edizione ebook: maggio 2020
© 2019 effequ Sas
Sede legale: piazza Savonarola 11, Firenze
Sede operativa: Viuzzo dei Bruni 34, Firenze
www.effequ.it
Facebook: Effequ | Twitter: @effequ | Instagram: effequ_ed
A questo libro hanno lavorato:
Coordinamento, direzione, editing, grafiche interni, comunicazione
Silvia Costantino, Francesco Quatraro
Grafica di copertina
Simone Ferrini
La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l'autorizzazione scritta dell'editore è vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.
Alessandro Chiappanuvoli
SOPRA E SOTTO LA POLVERE
Tutte le tracce del terremoto
marchio-front«Lei è rimasta in vita per raccontarla» dissi io. «È sopravvissuta. Quello che non ci uccide ci rende più forti, giusto?» Naturalmente, io non lo credo. La maggior parte delle cose che non ci uccidono lì per lì, ci uccidono più tardi.
Richard Ford
Finché si sta bene, non si esiste. Più esattamente: non si sa di esistere.
Emil M. Cioran
Prefazione
di Carola Susani
A dieci anni dal terremoto all’Aquila c’è polvere, molta di più che in qualsiasi posto io sia stata, tranne forse nel Belice quando ci misi piede nel 1969. Non è solo la polvere del terremoto, anche se per le strade probabilmente ce n’è ancora, è anche la polvere della ricostruzione, della messa in sicurezza, dei restauri, delle nuove costruzioni; le polveri si mischiano. L’Aquila è oggi una città in cui i crolli, i vuoti il silenzio convivono con una vitalità nuova e con la polvere. Così, parlando della polvere, parliamo del terremoto e di tutto quello che è successo poi. La polvere ci guida attraverso il trauma, oltre i crolli.
Ho incontrato Alessandro Chiappanuvoli a causa del nostro comune legame con il terremoto. Da piccola mi trovai in una baraccopoli nella Valle del Belice per via dell’impegno dei miei genitori architetti per la ricostruzione e lo sviluppo della valle: lavoravano nel Centro studi iniziative Valle Belice con Lorenzo Barbera che era stato collaboratore di Danilo Dolci. Così anch’io feci esperienza della condizione postraumatica, benché non avessi vissuto il trauma. Di terremoti ognuno ha il suo, ma ogni terremoto nell’enorme differenza somiglia all’altro, o almeno ogni terremoto italiano. Lo so che non è vero, il contesto diverso, l’epoca, la struttura produttiva rendono ogni terremoto inconfondibile, ma il fatto che al cuore di tutto ci sia la terra che trema e manca sotto i piedi, rende anche la gestione dell’emergenza e della ricostruzione confrontabili: com’è stato il mio terremoto? Com’è il tuo? Alessandro e io ci siamo incontrati raccontandoci ognuno il suo terremoto e continuiamo a raccontarceli.
Chiappanuvoli è un sociologo e uno scrittore, questa sua doppia postura è evidente in ogni cosa scriva. È uno sociologo nel campo d’indagine che sceglie, nell’ampiezza delle ricerche, nelle domande che si fa, nell’attenzione speciale alle dinamiche comunitarie. Nella letteratura, declinata in un modo particolare, ha trovato la via per far emergere le reazioni interiori all’evento traumatico e le relazioni sciolte e create dall’evento. Il terremoto o meglio il post-terremoto è anche un’incubatrice. Sei anni fa, quando ci conoscemmo, Alessandro lavorava già a questo libro. Un libro che raccoglieva una certa quantità di racconti più numerosi frammenti a legarli fra loro. Il libro cresceva, si espandeva, e non sembrava avere nessuna intenzione di finire, nessuna possibilità di trovare un punto fermo. Come la Mappa dell’Impero di Borges aveva come orizzonte la scala 1:1, l’ambizione di raccontare tutto e ciascuno, non addensando le storie per esempi, ma raccontando tutte le storie, una dopo l’altra fino a un punto di fuga al di là del visibile, là dove tutte le storie saranno state finalmente raccontate, tutte le esperienze infine restituite. Credo che sia questa la ragione per cui è difficile leggendo questo libro decidere se sia letteratura oppure no. La letteratura, e l’autofiction non meno che la fiction pura, attribuisce alle storie narrate un potere emblematico, si racconta la storia di uno con l’ambizione di rivelare o anche solo di indicare la condizione comune. Qui al contrario ogni storia è quella storia che si compie solo accanto alle altre. Tutte insieme hanno il potere di dire. L’esperienza del crollo della propria casa sotto le scosse sussultorie e ondulatorie, l’esperienza della sete d’aria, del trovare l’uscita, dell’essere salvati o del salvare, l’esperienza dello spaesamento nel ritrovarsi in una casa nuova, l’esperienza della comunità che l’emergenza produce e della crisi della comunità, della resistenza contro le forme istituzionali di controllo, della speranza della costruzione a partire dalla reazione alla condizione nuova di forme nuove e migliori di relazione, la storia della riconquista di un senso di comunità attraverso la domesticazione della città distrutta. L’Aquila è una città distrutta tenuta a balia e riaccesa fuoco dopo fuoco dalla cura dei suoi non più abitanti, ma potremmo dire amanti, innamorati. Una quantità di storie e di voci si accumulano nel libro, ma nell’occhio del ciclone, al centro stesso dell’esperienza del terremoto, c’è un’esperienza, una spinta di vitalità vissuta proprio nel cuore dell’incertezza, del trauma, della precarietà dello stare al mondo. È un libro che cresce, si moltiplica, getta spore, giunge a noi, a partire da quella spinta. La letteratura è stata per Chiappanuvoli lo strumento per restituire quell’esperienza altrimenti silenziosa.
Ai racconti si aggiunge un apparato di saggi che con un altro linguaggio e con la stessa ambizione impossibile di dire tutto, di essere esaustivo, racconta le questioni che si affollano attorno a un terremoto: i numeri dei morti, degli sfollati, il calcolo del rischio, la prevenzione, la Protezione Civile e così via. I saggi, ricchi, documentati, precisi, fanno di questo libro un oggetto nuovo, quasi un manuale, che con ogni mezzo circonda e cerca di afferrare l’imprendibile e mentre lo fa ci fornisce una quantità di informazioni utili, di prospettive, di risposte e di domande. È un libro-spinta: per quanto ricco sia, riempie e non satura, fa l’effetto di una spinta a indagare ancora.
Carola Susani
Libro primo
SOPRA
Epicentro | Vittime
Sentì prima i bicchieri tintinnare nella dispensa, poi un boato sordo, e una violenza risalire da terra, squassare le fondamenta, insinuarsi nelle pareti, divergere nei solai, sollevare le piastrelle del pavimento. Quella violenza le entrò dentro dai calcagni, le attraversò le gambe e le vertebre, le fece drizzare i peli rossicci del collo. Da mesi si sentivano, a intermittenza, violenze simili, ma quella fu più forte. Bebba si ritrovò aggrappata al piano da lavoro con le falangi che mordevano il marmo finto di fòrmica. Lasciò scivolare le ciabatte sul pavimento, si rannicchiò, chiuse gli occhi.
Porca troia, fu il suo primo pensiero. Porca troia, porca troia!
Un’immagine s’impresse nella sua mente, statica ma pulsante: due mani intrecciate. Svanì subito nel buio delle palpebre; l’alone colorato che apparve fu quasi più straniante. Fece un respiro profondo e i pensieri tornarono a scorrere lenti, poi più veloci, finché fu curioso trovarsi a immaginare un vestito bianco. Lei non era il tipo che si sofferma troppo a ragionare sui passi da fare per raggiungere i propri obiettivi, era istintiva, caotica. E proprio il caos che aveva dentro era la sua forza, le persone ne restavano ammaliate e lei lo sapeva.
Raccolse il canovaccio da terra. La sigaretta da fumare dopo aver rassettato era caduta dal posacenere ed era rotolata sul tavolo. L’accese e strinse i pugni, sentì le unghie affondare nei palmi. Viveva da sola in un piccolo appartamento nel centro storico e quella sera si era preparata senza motivo una cena speciale. Erano quasi le undici quando la violenza la inchiodò alla fòrmica. Dopo qualche minuto trillò il cellulare e sul display lesse Mamy.
Ascoltò la voce di sua madre guardandosi attorno. Ogni cosa era al suo posto, la cucina però sembrava più piccola. Provò un senso di vertigine e dovette sedersi. Bebba e sua madre parlavano, ma le frasi fluivano negli apparecchi senza convinzione; non sapevano come rassicurarsi.
«Forse è meglio che vengo giù da voi» le sfuggì di bocca, con una voce gutturale che la sorprese.
Il pensiero di stringersi a quanto aveva di più caro l’avvolse come una coperta spessa di quelle di una volta. Al paese, nella casa di campagna dove i suoi si erano trasferiti per cercare un po’ di tranquillità, si sarebbe sentita protetta, con i genitori, le sue sorelline, e magari anche insieme a lui.
«Va bene per voi se faccio venire Andrea?» domandò quasi sottovoce.
«Ma certo, sì» rispose la madre.
Bebba aveva paura. Al paese, si disse, almeno sarebbe riuscita a dormire.
Appena udì il rumore dell’auto farsi largo nel vicolo e poi spegnersi sotto la sua finestra, deglutì con forza per schiarirsi la gola; fu come ingoiare un pugno di sabbia. Sulle prime al telefono Andrea era stato un po’ restìo, ma poi si era lasciato convincere: non l’avrebbe lasciata da sola quella notte, doveva soltanto finire ciò che stava facendo. Il campanello suonò e lei si alzò per andargli incontro.
Nonostante la loro relazione fosse ormai nota, quando Bebba arrivò alla rampa di scale che dava sull’ingresso, trovò Andrea impalato fuori dalla porta. Continuava a strofinare le suole sullo zerbino mentre i genitori lo invitavano a entrare; era imbarazzato a presentarsi a quell’ora di notte. Lei si accovacciò sui gradini e con le dita formò un rettangolo, come stesse scattando una foto: quel quadretto, la geometria spigolosa nella postura dei suoi e il sorriso nervoso di Andrea che tanto contrastava col suo essere gioviale e spontaneo, era perfetto. Dietro le righe del pigiama qualcosa si mosse: era contenta.
Indugiarono qualche minuto nell’ingresso. La conversazione scivolò subito verso la loro inattesa paura. Cortesia, un pizzico di preoccupazione ed euforia si mescolavano nell’aria. Il padre, appoggiato sullo stipite della porta di cucina, faceva dondolare la gamba flessa. La madre continuava a spostarsi nella stanza, infine si avvicinò alle scale e accarezzò il polpaccio di Bebba, che sorrise. Andrea rimase davanti alla porta con indosso il giubbotto e lo zaino a tracolla.
«È per stare tranquilli».
«Sì, solo per stare tranquilli».
Era da poco passata la mezzanotte quando Bebba trascinò Andrea nella camera che i genitori tenevano per gli ospiti. Chiuse la porta e provò a sciogliere la tensione in un abbraccio. Appena si staccarono, incrociò lo sguardo di lui e sorrise. Le sue labbra erano tese.
«Avevo paura» sospirò voltandosi.
«Sei una scema» disse lui e l’abbracciò di nuovo da dietro. «Ma hai fatto bene».
Andrea si accostò al letto e con due piccole pacche fece segno a Bebba di sedersi. Poi si sfilò il giubbotto, fece volare le scarpe in un angolo e tirò fuori dallo zaino la sua cartellina delle foto.
Lei prese dal comodino il pacchetto di sigarette e si stese sul letto a pancia in giù con le gambe sospese per aria. Ne fumarono una a metà. Nelle spirali azzurre del fumo si raccontarono le loro giornate, il lavoro, la corsa di Andrea per arrivare in tempo in via Patini a ritirare le stampe, il menù della cena speciale, l’emozione diversa per lo stesso spavento provato.
«Domani notte scade quell’asta su Ebay» fece lui «e devo andare assolutamente a ricaricare la Postepay: il prezzo del 28 fisso, porca puttana, si è alzato ancora».
«Se vuoi ti accompagno» disse Bebba.
Andrea fece scivolare il contenuto della cartellina sul letto e le si sdraiò a fianco. Cominciarono a sfogliare le stampe. Erano lucenti, immacolate. Ogni tanto rimanevano a fissarne una con un senso di meraviglia ormai familiare, complice.
Tenevano tra le mani una foto scattata solo un paio di giorni prima che ritraeva in bianco e nero un uovo posato su un mucchio di chiodi e lui le aveva appena detto In un certo senso è la precarietà di tutti, no?
quando una seconda, violenta paura li colse, proprio nel momento in cui lei, con un pizzico d’invidia, era sul punto di ammettere che quella foto era tra le più belle che avesse mai scattato. Il letto sobbalzò verticalmente facendo battere l’antica testiera al muro. I loro corpi si urtarono, spalle, fianchi, gambe. La casa intera sembrò scrocchiare.
Prima che la foto finisse di cadere a terra volteggiando, Bebba si era già avvinghiata al collo di Andrea. Cercò di fermare il suo sguardo in quello di lui ma non ci riuscì, così serrò gli occhi e continuò a stringerlo per raccogliere tra le mani quanta più carne possibile. Andrea poté solo cingerle la schiena con tutta la delicatezza possibile, come fosse una bolla di sapone. Quando si riaprirono, negli occhi verdi di Bebba vide scintillare una goccia di sgomento.
«Ssst! Ssst! Ssst! Calma» frusciò tra le labbra cercando di ostentare una sicurezza che non credeva di avere. «È passato. È passato, calma».
Sentirono bussare.
«Tutto a posto?» gridò il padre di Bebba spalancando la porta.
L’uomo, visibilmente scosso, vide i due ragazzi abbracciati e distolse lo sguardo; fece un sorriso imbarazzato.
«Che spavento, eh?» la domanda cadde nel vuoto. E aggiunse «Almeno io e tua madre non dobbiamo stare in pensiero anche per te. Vado dalle piccole, eh. Buonanotte».
Raccolsero le foto e tornarono a stendersi, questa volta a pancia in su: Andrea teneva Bebba accoccolata sul petto, la stringeva, le baciava le tempie, la cartilagine delle orecchie, la testa tra i capelli rossi. Parlarono senza badare troppo a cosa si dicevano, quasi fosse importante solo saturare lo spazio, come se solo sotto uno strato di parole potessero sentirsi al sicuro. Proposero di star svegli tutta la notte a chiacchierare, forse entrambi pensarono di fare l’amore, ma presto le palpebre si fecero pesanti, e le parole diminuirono insieme ai baci.
Le lenzuola erano dure. L’odore di pulito fresco si mescolava a quello forte di canfora. Era l’odore di casa, faceva pensare ai legami familiari uniti di corredo in corredo. Bebba si chiese se sarebbe stata una brava mamma, se anche lei sarebbe stata capace di trasmette il senso di quell’odore ai suoi figli, ma subito si sentì sciocca e si sforzò di pensare a un’altra cosa.
Andrea, umettandosi le labbra intrise di nicotina, cominciò a rilassarsi sotto gli strati di coperte. Si girò su un fianco e provò a lasciare che i respiri si facessero profondi, che si sciogliessero i nervi lungo la schiena, che i pensieri si perdessero. L’obiettivo, domani compro l’obiettivo, fu il suo ultimo pensiero.
Le sponde del letto di legno scuro e massiccio davano un che di regale al loro riposo. I vecchi materassi in lana, uniti a formare una doppia piazza, sprofondavano facendo convergere il peso dei corpi verso il centro. Lei non era più abituata, non dormiva su un materasso così da quando, piccola, andava a stare per qualche giorno da sua nonna in quella stessa casa. Si sentì avvolgere dalla nostalgia ed ebbe l’impulso di toccare Andrea. Stese il braccio sotto le coperte ma prima di raggiungerlo lui fece un piccolo scatto, uno spasmo notturno. Bebba ritrasse la mano e sorrise, i denti nel buio però non si videro.
Trascorsero minuti in cui non riuscì a prendere sonno. Il riscaldamento era ormai spento e ogni respiro pareva più freddo. Le tempie pulsavano, poteva ascoltare nel cuscino i battiti del proprio cuore: per un attimo ne fu quasi catturata ma poi, lentamente, un senso d’impotenza la invase. Provò a girarsi, i movimenti però le risultavano faticosi. Avrebbe voluto alzarsi ma non lo fece – la sua era solo paura, si disse.
In casa c’era silenzio, da fuori non un rumore di auto, non un guaito di cane. Nella stanza soltanto il respiro di Andrea, calmo. Bebba aprì gli occhi e avvertì un lieve bruciore. Attraverso i fori della tapparella filtrava una flebile luce arancione che lasciava indistinte le ombre nella stanza. Fissò il display della radiosveglia. Immersi nel buio, i segmenti blu di tungsteno tremolavano impercettibilmente; nel torpore, sembravano scomporsi e ricomporsi a ogni battito di palpebre. Erano le 02.24.
Si prese le gambe stringendole al petto. Si sforzò di pensare a cose felici, di imprimerle nella mente, come Polaroid da sventolare finché il soggetto non diventa nitido. Si voltò di nuovo e di nuovo aprì gli occhi; appena le pupille si abituarono al buio riconobbe la sagoma di Andrea nell’oscurità. Cercò d’intuirne i confini precisi percorrendo le variazioni di nero. Le costò fatica. Si morse il labbro, avrebbe voluto piangere ma non trovava un motivo vero per farlo. Trattenne il fiato e quando non poté trattenerlo oltre fece un lento e profondo sospiro. Allungò il braccio sotto le coperte e sfiorò la maglietta di Andrea, una vecchia maglietta dei System of a Down. Piano piano gli scivolò accanto e appoggiò delicatamente il seno alla sua schiena. Per un attimo immaginò loro due immersi nella luce chiara e artificiale di un set fotografico giocare a mettersi in posa, a slanciarsi e ad avvinghiarsi, come se i loro corpi fossero un unico soggetto. Poi sollevò appena la testa e gli sussurrò poche parole all’orecchio, lui inspirò un po’ più profondamente ma non si svegliò. Si sentì stupida, sorrise. Con la coda dell’occhio scorse di nuovo la radiosveglia: le 02.43. Mise un braccio sotto la testa e decise di restar ferma ad aspettare il sonno.
Alle 03.32 ogni elemento della casa cominciò a scricchiolare, poi a scuotersi, poi a contorcersi e a spezzarsi. Le fondamenta sobbalzarono con violenza e la violenza si trasmise al letto che iniziò a saltare. Un rumore potente coprì ogni altro suono, il latrato di una bestia. Quando Bebba spalancò gli occhi il buio era squarciato da piccole fenditure di luce impazzita. Si sentì indifesa, qualcosa di pesantissimo le cadde sopra e così avvolta, per un momento, le sembrò quasi di essere al sicuro. Chiuse i pugni e riconobbe la stoffa della maglietta di Andrea. Un’altra immagine s’impose ai suoi pensieri: lo sfondo bianco, un vestito a fiori, petali rossi sparsi ovunque, dei flash di lei seduta a terra con lui che le volteggiava attorno strizzando l’occhio dietro la macchina fotografica. Poi il boato cessò.
La mattina seguente li trovarono ancora abbracciati.
Buio | Che fai quando succede?
Buio ovunque; talmente tanto buio che non riesco a capire se le mie palpebre siano aperte o chiuse. Se sia veglia questa o ancora sonno. O altro. Presto però, quasi impercettibile, un pulviscolo di puntini bianchi inizia a danzare sullo sfondo nero, dapprima sfocato poi sempre più nitido: le pupille iniziano a dilatarsi, c’è una qualche reazione dei bastoncelli, significa che il mio sistema nervoso simpatico è attivo. È un segnale positivo, i battiti cardiaci, la pressione arteriosa, la secrezione salivare, la dilatazione dei bronchi dipendono dal sistema nervoso. Interpretare le funzioni vitali è importante. Devo rimanere calma e questo è l’unico modo che mi viene in mente.
Sbatto involontariamente le palpebre. Con le ciglia sfioro qualcosa, ma non un oggetto. Forse è il pulviscolo che intravedo. Forse è solo una sensazione. Forse è solo dello sporco, sporco attaccato ai peli. Non capisco. La mascella si muove. I denti sono al loro posto, interi; battendoli sento scricchiolare del terriccio. Ne ho la bocca piena, il vestibolo, la cavità orale, il palato, il solco sottolinguale, non l’orofaringe per fortuna. Sposto la lingua e il pietrisco mi raschia. Si attivano le ghiandole salivari e peggiorano la situazione. Sento un sapore alcalino, mi disgusta. C’è, misto a quel sapore, anche un retrogusto di sangue: non devo lasciarmi impressionare. La mano sinistra mi preme sul seno. Qualcosa di freddo la blocca. Non posso ruotarla ma si apre. Le dita distese mi sfiorano il mento. La destra è lontana, sopra la testa. Ho il braccio allungato e non riesco a muoverlo. È sprofondato sotto un enorme peso. Se piego le dita, piccoli detriti s’infilano sotto le unghie; è insopportabile.
Contraggo il braccio e una fitta lancinante l’attraversa, percorre i centri nervosi, mediale radiale e cutaneo, oltrepassa i muscoli, brachiale, coracobrachiale, fino al bicipite. Da lì però devia, come saltando il midollo spinale, e mi entra diretta nell’orecchio, sfonda il timpano, invade il cervello e in un lampo altera le sinapsi, converge violentemente nella materia cerebrale e biforca la sua corsa nel talamo: attiva la corteccia somatosensoriale primaria, annichilisce il sistema limbico. Dovrebbe attivarsi la memoria, ma non c’è alcuna corrispondenza con i ricordi passati, quindi non ne deriva né un comportamento, né una variazione d’umore prevedibile: ho dolore e non so che fare. Sento freddo. Sto sdraiata su un fianco, le gambe leggermente piegate; l’epifisi distale dell’una compressa nel vasto mediale dell’altra. Non posso muoverle, anche il solo pensiero mi è impossibile. Un’immensità le schiaccia.
Devo sforzarmi per rimanere calma: mi accontento perciò di riuscire a contrarre i muscoli, di poter flettere un poco un piede, di piegare tutte le dita. Il dolore vivo delle vesciche mi consola, mi ricorda che questa mattina ero in montagna, stanca, felice. Il dolore però attiva anche immagini più vicine: i calzini appallottolati che rotolano a terra, la costa del libro sul comodino, la mia mano che spegne la luce, il freddo sotto le coperte così diverso da quello che provo ora, anestetizzante.
La schiena per tutta la sua ampiezza è ficcata dentro qualcosa di opprimente ma morbido. Aderisce. È il materasso, sento le molle. La costrizione è sul fianco: un enorme peso distribuito tra deltoide e grande muscolo del gluteo. Lo scarto tra me e la salvezza. La cintura scapolare è mostruosamente arcuata. Le costole, pressate in dentro come ganasce, vibrano scomposte a ogni respiro. La pleura è al limite della perforazione. Il battito cardiaco mi sembra però regolare. Punto le dita alla gola e provo a contare le pulsazioni per minuto, ma qui non esiste un minuto: smetto di contare a settantacinque e spero che il tempo passato possa rappresentarlo.
Non mi sto lasciando prendere dal panico; sono piuttosto calma. Devo continuare così. Il respiro è un po’ affannato. Corto. Inalo sia con la bocca al sapore di terra che con il naso, in parte tappato. L’ossigeno è di polvere e si accumula tutto nello stomaco, solo il ventre si gonfia e si sgonfia, non il petto. Provo a fare un respiro più profondo ma qualcosa mi entra in gola e mi strozza. Tossisco e un dolore acuto mi prende lo sterno. Sassolini mi rimbalzano su zigomi, guance, labbra. Il pulviscolo mi entra negli occhi, si posa sulle cornee. L’istintivo battito delle palpebre toglie gran parte dei frammenti, alcuni invece s’infilzano negli epiteli cornici: le lacrime arrivano subito a pulire. Faccio un altro tentativo di prendere aria, più calmo questa volta, profondo ma calibrato. S’incunea dentro i cavi aeriferi anche un vago sentore di gas. Un brivido stimola i muscoli erettori del pelo di tutto il corpo. Qualcosa di viscido mi scivola tra i capelli all’altezza della nuca. Qualcosa di denso. Fango. Sangue? L’adrenalina aumenta. Come i battiti e il respiro. Gelide goccioline di sudore mi spuntano dalla pelle. Devo pensare ad altro! Perché ho rifiutato 26 al preappello di Anatomia? La pressione sanguigna crolla. Ho un senso di nausea. La mente si appanna.
Riprendo coscienza. Niente è cambiato. Il buio è sempre buio, la vastità che mi schiacciava continua a schiacciarmi. Il braccio destro, compresso sotto l’orecchio che preme proprio sull’arteria brachiale, si è addormentato, è tutto un formicolio – un principio di parestesia. Con l’altro orecchio provo a cogliere qualche rumore, ogni possibile rumore, ma dello sporco deve esserci finito dentro perché anche solo del silenzio non percepisco che un rimbombo ovattato. Se mi concentro però, se mi sforzo di ascoltare, quello che mi circonda non è un vero silenzio. Una flebile eco si riverbera tra gli interstizi. Un soffio d’aria. E sento il rumore della terra cadere, piccole frane muoversi qua e là, vicine. Ma c’è dell’altro, credo. Cerco di concentrarmi, devo stare calma, ferma, trattengo il respiro. Non è un suono, è più una percezione. Una speranza. Al solo pensiero, i miei battiti che dall’arteria pulsano direttamente nel timpano destro aumentano, e con l’altro orecchio ostruito potrei confondermi. Non voglio illudermi. Non posso. È che sembra quasi una vibrazione, ma molto lontana, dilatata. Forse i passi di qualcuno che cammina sulle macerie. Forse qualcuno che già scava! Forse. Spero non sia solo un condizionamento. Devo rimanere lucida, questa è l’unica cosa certa. Un’improvvisa contrazione muscolare, però, mi attraversa la spina dorsale, come una scarica. Istantanea la sensazione di gelo. È solo uno spasmo mioclonico positivo. Solo uno spasmo. I pensieri si stanno confondendo con le emozioni e le emozioni si propagano per tutto il corpo e la risposta che il mio corpo rimanda è dolore. Non devo permetterlo. La paura non può avere il sopravvento.
Con la punta delle dita mi punzecchio la pelle del collo. Calma, concentrazione. Tempo, è solo questione di tempo. Anche se il tempo qui non esiste. Si è sgretolato, come tutto il resto. Avessi almeno un orologio. Ho la mia frequenza cardiaca però – settantacinque al