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Autogrill: La straordinaria storia di Rocco Pantano
Autogrill: La straordinaria storia di Rocco Pantano
Autogrill: La straordinaria storia di Rocco Pantano
E-book299 pagine4 ore

Autogrill: La straordinaria storia di Rocco Pantano

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Info su questo ebook

Un romanzo che è, prima, un’antologia di racconti. Siamo negli anni ‘90 come nei ‘70 nella seconda metà dell’800. “Autogrill. La straordinaria storia di Rocco Pantano” si presenta come un intreccio di vite umane dai continui tuffi nel passato: la penna poliedrica di Michele Lamacchia riesce a condurre il lettore in maniera trasversale nella storia e nelle storie. Attorno a Rocco, gestore di un’anonima stazione di servizio in una località lucana immaginaria, si alternano, si confrontano e si scontrano, in una profonda tensione da risolvere, i personaggi più disparati. La voce di Lamacchia è irresistibile, in grado di far sorridere e, poco dopo, fare riflettere o far rabbrividire: “Autogrill” rappresenta una commedia umana che difficilmente dimenticheremo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2019
ISBN9788869600944
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    Anteprima del libro

    Autogrill - Michele Lamacchia

    MICHELE

    LAMACCHIA

    AUTOGRILL

    LA STRAORDINARIA STORIA

    DI ROCCO PANTANO

    www.altrimediaedizioni.com

    facebook.com/altrimediaedizioni

    @Altrimediaediz

    Titolo dell’opera:

    Autogrill

    © 2019 by Michele Lamacchia

    ISBN: 9788869600944

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Novembre 2019

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    «... le poche pagine che seguono

    traggono tutta la loro forza dal fatto

    che la storia è interamente vera,

    poiché io l’ho immaginata

    da un capo all’altro»

    (Boris Vian)

    A Diego.

    Non smettere mai di sognare.

    Quella che state per leggere è una storia. Alcuni dei fatti descritti sono stati adattati per essere meglio integrati nel testo, altri sono verosimili. Molti di essi implicitano delle ricerche storiche e delle interviste; dei sopralluoghi e degli studi, altri. Certi avvenimenti non saranno approfonditi o perché non funzionali alla storia, o perché non ne sappiamo a sufficienza o perché qualcuno ha deciso che venissero riportati esattamente con quel numero di parole.

    Le opinioni espresse dal narratore e dai personaggi di questa storia non rispecchiano necessariamente quelle dell’autore né dell’Editore di questo libro e le situazioni rappresentate non sono assolutamente espressione della reale qualità delle categorie citate (per esempio lucani, ultras del calcio, donne, personaggi della TV, cani a tre zampe, cattolici, imprenditori veneti, carabinieri e guardie giurate, personaggi delle istituzioni a tutti i livelli, impiegati del comune, papi e personaggi storici). Vale a dire, se tra le categorie citate ci fosse qualcuno i cui attributi possano risultare aderenti a quelli espressi dai loro omologhi descritti in questo libro, ciò non vuol dire affatto che Noi pensiamo che tutti quelli includibili in quella stessa categoria abbiano le stesse qualità.

    È la vita. È la varietà. In ogni caso, si rispetti la libertà dell’autore in quanto tale di poter raccontare una storia che possa anche contemplare l’espressione di atteggiamenti irritanti quali, tra gli altri, qualunquismo, misoginia, sessismo, omofobia, cinismo e blasfemia.

    QUEL GIORNO

    Estate 1994

    «Fermo!» una voce secca e nervosa urlò con una decisione più forte della forza stessa del tempo. Veniva dai campi, dalla strada in fiamme, era sbucata attraverso il fumo nero.

    Tutti si voltarono a fissare le dita dure e ossute che tenevano salda la pistola mentre la piccola nuvola bianca si allontanava dissolvendosi in un ricciolo. L’eco del primo colpo sparato riecheggiava ancora da una parte all’altra della vallata.

    «Bravo sei stato, un fantasma…» disse. «E guarda che fine hai fatto», aveva capito e si guardò appena intorno: una compagnia di sbandati, perdenti e parassiti. Tutti che gravitavano intorno a lui che (chissà) probabilmente aveva deciso di portare avanti la bizzarria di famiglia: quella assurda messa in scena della Rivoluzione.

    Tutto era sospeso in cima al Montedoro. La natura, dalla sua antica, geologica esperienza si prendeva gioco di quei minuscoli personaggi dalle microscopiche vite. Ogni tanto scuoteva il suolo, un poco vibrava le nubi e tuonava.

    Si avvicinava ancora, uno sguardo di ghiaccio che congelò tutti intorno mentre il caldo si faceva sempre più insopportabile e l’aria si scuriva.

    «Hai finito di campare, Rocco», e chiuse in uno strepito: «Si compia la maledizione».

    In quell’unico momento, condensato in una realtà sospesa e gassosa, ognuno si giocava la propria redenzione. L’orrore tradotto nei gesti mai fatti, nelle frasi non dette. Ci si guardava intorno e ci si scrutava dentro. Un attimo prima della fine del mondo.

    1

    BENEDETTO E ROCCO

    Estate 1994. Il giorno prima

    Il telefono squillò forte, acido. Il gracchio peggiore in mezzo a tutte le cicale che si sentivano. Benedetto trattenne un secondo il fiato, si girò verso Rocco. Sapeva d’istinto dove stava: era seduto alla piccola panca, sotto la pensilina, le mani sulle ginocchia, le bretelle, i pantaloni slacciati. Stava là, infatti: l’unico punto fresco per chilometri, fintanto che il sole non cominciava veramente a tramontare. Il caldo squagliava.

    Strinse le labbra ma non si scompose. Mosse un poco la lingua dentro la bocca di carrube. Il ragazzo lo guardò: mo si alza e va dentro a rispondere. Si alzò, si allacciò i pantaloni e entrò a rispondere.

    Qualche volta, altre volte, aveva provato il giovane a farlo ma, dopo un poco che dall’altra parte non si sentiva niente, semmai il ragazzo insistesse o si mettesse in ansia, Rocco gli andava appresso e metteva giù, senza dire mezza parola. Benedetto non si doveva preoccupare. Non doveva spaventarsi o stare in pensiero. E allora non ci provava nemmeno più.

    Benedetto ha, dice Rocco, questa cosa che se si agita, si agita e poi cade a terra, come indemoniato, con la schiuma alla bocca, trema tutto. Grida cose sconclusionate. Lancia oggetti. Che è successo qualche volta, più di una volta, quando era piccolo: può sbattere la testa, tagliarsi, ingoiarsi la lingua. Fare male a qualcuno o farsi male lui. E allora, per il suo bene, deve stare tranquillo. Lui non si ricorda niente, è vero. Ma dice che è il fenomeno: quando poi si riprende non si ricorda mai niente.

    Rocco lo proteggeva. Sempre, da quando era piccolo e lo ha salvato dal crollo della chiesa.

    In pratica ci fu il terremoto. 1980. Lui era piccolino, non può saperlo molto bene e così ha lasciato che fosse il racconto a conservare il ricordo: il prete tirò dentro più persone possibili. Per fare del bene. Ma il tetto crollò e sono morti tutti. Tutto il paese! Pure tutta la famiglia di Benedetto, è chiaro. Lui però si è salvato perché lo ha fermato Rocco e lo ha portato via.

    «Picci’», gli disse, «vieni qua! Non vedi che balla la croce?»

    Alzò gli occhi, ricordava questa cosa: la croce ballava! Non fece in tempo a capire niente. Nessuno fece in tempo a capire niente. Il paese intero, Balvano, sparì.

    Entrò, la porta scricchiolò. Fece il giro del bancone e andò verso il telefono. Dall’altra parte ci doveva essere qualcuno di forte e arrabbiato: la nervatura arrivava tutta nel trillo. Si toccò il bottone nero del lutto appuntato sul petto, con l’altra mano prese la cornetta guardando fuori nel quadrato di vetro. Il ragazzo distolse lo sguardo.

    «Pro’», gli uscì una voce cruda e acre, impastata, dacché non aveva parlato con nessuno tutto il giorno. Neanche con Benedetto parlava granché. Non parlava dal mattino, da quando era venuto Carmelo, il muto.

    Carmelo. Poi vi conto.

    Questa, però, non è una storia triste, o paurosa: è solo una storia, una storia di fatti vecchi e nuovi, una storia di cose che succedono, di coperchi che si scoperchiano. Anzi, considerate che quassù, dove non succede mai niente di niente di nie’, quello che è successo poi (e tutto quanto insieme) è stato come il cinema.

    Intanto. Guardava fuori, la campagna gialla, grano tagliato e terra, terra. Questa collina, che declive sulla valle del Cursi da una parte e sull’orrido del Maceno dall’altra, fin dall’antichità era chiamata il monte d’oro per la sua ricchezza. Il grano, dice la storia. Ma io dico anche il sole, la pace che ci sta. Il terremoto che qua non arriverà mai. Rocco dice che è per la terra, un pezzo solido, antico, di granito.

    Quest’inverno ci sono state scosse in tutta la regione: si è sentito forte a Potenza e fino a Napoli, a Bari. È crollata una palazzina a Pontrello, che sta qua di fronte. Ma qui non si è sentito niente.

    Si schiarì la gola e gridò: «Occa’!» gli uscì un verso chiaro che ristabilì l’ordine. Chiuse il telefono, masticando la lingua e qualche residuo di carrube. Ciaciaciaciaciacia, le cicale tornarono a essere l’unico suono udibile e lui ritornò a sedersi alla panchetta sotto la pensilina, mozzicando un’altra carruba.

    Che cosa era Occa’? Nessuno lo sapeva. Ogni tanto gli usciva, come il barrito del re leone. Ogni volta ci si aspettava una bestemmia, un’incazzatura. E invece Occa’. La catarsi. In genere stava attento a non farsi sentire da chi stava di là, nella monotonia ripetente delle telefonate anonime e silenziose. Quel giorno evidentemente era in stato di grazia e urlò nella cornetta. Non si capiva, dopo, se sorrideva o se. Guardava lontano, come i saraceni sulle torri di guardia.

    Il telefono squillava sempre, tutti i giorni, e dall’altra parte nessuno che rispondeva. Immagino che questa cosa, scava, scava, lo innervosisse da morire. Come la goccia sulla roccia. Tutti i giorni, da novembre, dal 23 novembre. E sempre alla stessa ora, alle 19:34. Precise. L’ora del crollo della chiesa. L’ora della terra che trema.

    La terra. Spesse volte erano venuti dei geologici per fare dei rilievi, proprio sulla terra del Montedoro, dove stiamo. Tutte le volte Rocco li ha cacciati. Diceva che volevano mandarli via! Prendersi tutto! Rocco era forte, sapeva come si facevano certe cose. Bastava dicesse che era proprietà privata.

    «Ma cosa? La montagna? La stazione di servizio? La terra? Il container? Qua? Il recinto?» e se non avessero avuto un mandato, una carta scritta, allora niente: deve vincere il principio!

    Quest’anno Benedetto, abbandonate da tempo le scuole, avrebbe voluto scrivere un libro. Un libro che sarebbe stato la dichiarazione al mondo della grandezza di un uomo umile e giusto, forte, coraggioso. Il suo ringraziamento ufficiale a lui: la straordinaria storia di Rocco Pantano. Avrebbe voluto farlo, scriverlo lì al distributore, in tutto il tempo vuoto tra un trattore e un camion, tra il niente e il nulla. Raccontare tutto di lui, ciò che sapeva e che si ricordava. Cose che la gente avrebbe dovuto conoscere, come si studiano le biografie di Garibaldi, Mandela e Kennedy. Ma poi un giorno ha capito, invece, che non sapeva proprio, proprio niente.

    Quel giorno.

    2

    Santo e Rino

    Estate 1994. Quel giorno

    «Mesto Rocco», chiese Santo, «ma voi ci credete nel Duemila?» come se si trattasse di un demonio, di una forza magmatica soprannaturale.

    Ogni tanto qualcuno saliva al Montedoro e si fermava a cazzarare. C’erano le birre fresche nel frigo e qualche altra cosa tipo taralli, caramelle e cingomme sul banco e, solo alla mattina o dopo pranzo, la macchina del caffè in pressione.

    Mesto Rocco Pantano era uomo di vita e profonde conoscenze. Per l’umanità nei dintorni era una specie di sapiente saggio: un intellettuale, si direbbe. Un intellettuale fuori dai circuiti, uno che sa interpretare i fenomeni e li rende lucidi e comprensibili alle persone della valle. Uno a cui chiedere le cose. Uno, mesto Rocco, che ascoltava la radio, leggeva i giornali, i libri, faceva le ricerche, faceva.

    Tra le persone che venivano spesso su c’erano pure questi signori cafoni di Carino scalo. Venivano e si stavano le ore sane. La nullafacenza. Santo Mezzacapa era uno dagli occhi di faina, stretti e piccoli, con le palpebre sempre come chiuse, come a guardare come fregare il prossimo, come procacciarsi qualcosa, qualsiasi cosa. I capelli spettinati e le basette lunghe. Un giorno lo vedevi a fare il ferro, un altro a truccare una macchina, un giorno a portare frigoriferi vecchi, un altro vendeva scarpe imitazione Tod’s in stock o felpe Fruit of the Loom.

    Santo era l’inquietudine e aveva una passione più calorosa delle altre, insieme alla volontà di arrabattarsi: il Potenza calcio, ovvero lo Sport Club. La squadra nobile dai colori rosso e blu di cui è stato anche, per anni, convinto ultrà e frequentatore di stadi.

    Quel giorno (diceva) stava sostituendo il bombolaio di zona, insieme a Rinuccio il grosso. L’Ape aveva percorso la strada a due all’ora, portando alcune centinaia di chili di gas in bombole dondolanti. Venne lasciato al ristoro, dove c’era un minimo di ombra, tra il carrubo e il parcheggio del bar.

    «Secondo te», Rocco masticava aria, guardava attraverso i pensieri, «che cosa succederà nel Duemila?» gli chiese di risposta.

    Santo trattenne il fiato, preso alla sprovvista. Rinuccio, l’altro, il grosso, pensò di sorridere, facendo quello che capisce. Però guardava a terra, la polvere e i piedi nelle scarpe ex-di-vernice troppo strette. Benedetto, il ragazzo, invece, seguiva tutta la scena dal suo punto equidistante, prendendo appunti per il suo libro. Segnava dettagli, descriveva particolari, disegnava certe piccole cose.

    I piedi nelle scarpe strette, gli occhi piccoli da animale selvatico.

    «Secondo me», si rischiava di fare la figura dei cretini. E Santo si rispose stringendo gli occhi un poco di più, faina che non vuole essere fregata: «E secondo me qualche cosa deve succedere!» si leccò i denti davanti. «Alla televisione hanno detto le peggio cose!»

    Benedetto, il ragazzo, sul suo blocco nuovo, scrisse qualcosa come un appunto in fretta.

    «Per esempio. Facci sentire», chiese Rocco. Rocco che aveva insegnato a Benedetto a leggere e scrivere. Rocco che diceva le cose come stanno. Rocco che due anni prima a Matera aveva avvicinato De Mita, presidente del Consiglio, all’inaugurazione dell’anno accademico e gli aveva chiesto nei denti se si era arricchito con il terremoto.

    «Per esempio», disse Santo tutto d’un fiato, «che tutte le cose elettriche, tutte le cose elettroniche, le antenne, i motori, i semafori, i computer, i microfoni, gli orologi: tutto improvvisamente smetterà di funzionare. Si bloccherà».

    Chiuse la bocca a culo di gallina, di chi sa di averla sparata e grossa.

    «E come è possibile?» chiese Rocco accigliandosi un poco. «Su quali basi?»

    Santo mosse un poco la testa e cercò con gli occhi Rinuccio, a chiedergli soccorso. Quell’altro vibrò per un paio di secondi.

    «Sì, è vero, l’ho sentito anche io», con una mano tozza e grossa, senza polso attaccato, fece un gesto come a indicare tutto intorno «anche la radio, la benzina, la macchina del caffè!» e dopo tacque, volendo scappare via.

    Benedetto sul suo blocco disegnò in piccolo l’Ape del bombolaio con una grossa nuvola spumosa alle spalle. Guardò in alto e vide che non c’era nessuna nuvola in cielo, solo una tela azzurro-ghiaccio. Cercò di spiegare a se stesso perché avesse fatto quella massa bianca, come un pensiero ingombrante o una visione. Non trovò giustificazioni immediate, si limitò ad appuntare in grande Pensieri Inizio Fine.

    Rinuccio il grosso era un parassita che viveva del sussidio di disoccupazione. Non aveva mai fatto nulla di nulla nella sua vita, se non il servizio militare negli alpini, in Veneto. Non faceva esercizio fisico, nemmeno le scale, mangiava e beveva, beveva e mangiava. E dormiva. Si riteneva troppo debole per lavorare, troppo inaffidabile per trovarsi una donna. Si riteneva troppo stupido per capire e perciò non si sforzava nemmeno di chiedere, né di leggere o di studiare.

    Non si sforzava di cercare lavoro perché nessuno glielo avrebbe dato proprio in quanto stupido e debole e non abituato, non lo cercava perché altrimenti avrebbe perduto il sussidio, non cercava nemmeno una ragazza perché non aveva un lavoro e senza soldi non poteva portarla al cinema, o a mangiare fuori, o comprarle un anello o una borsa. E se invece voleva una donna avrebbe dovuto lavorare per non sfigurare e non poteva lavorare perché…

    Una fatica.

    Aveva interrotto il cerchio anni prima, quando aveva lasciato una bella ragazza bruna di San Brancato che, lavorando per un ingrosso di frutta e verdura aveva anche uno stipendio decente che le permetteva di pagare tutto.

    Quando la lasciò non ebbe rimpianti, né rimorsi. Solo una tensione di caldo che lo abbandonò scemando piano piano e poi fu sereno e tranquillo: poteva tornare a non fare niente e non pensare a niente.

    Rinuccio, dal suo punto di vista, era solido. Sapeva che il mondo intero andava allo sfascio, alla deriva morale. Che i valori su cui si era formata la società, valori come la famiglia, la fede, la patria, stavano vacillando. E tutti erano complici. Tutti. Sarebbe arrivato un eroe, un nuovo Messia e avrebbe mondato tutta quella sporcizia.

    «Se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà!» prima o poi. Lo ripeteva spesso a se stesso.

    Santo era passato la mattina, lo andò a chiamare alla casa: «A te tengo», gli disse. Era quasi ora di pranzo ma Rino dormiva ancora.

    «Lo vuoi fare un lavoro?» gli chiese, quando quello si affacciò.

    «Ueh, Sa’. Mi sto alzando mo. Fammi prendere il caffè.»

    «E scendi, me’! Il caffè te lo pago io. A te ti faccio guadagnare una cosa di soldi.»

    «No, ma io», Rinuccio cominciò a vibrare, pensava nell’ordine Ma perché mi sono alzato stamattina?, Mai sia qualcuno mi vede mi offrirà altro lavoro, Il sussidio, Sto stanco, Mo dico che tengo da fare, Mo mi sto, così quello si scoccia e se ne va.

    Non finì il pensiero che Santo stava già dietro alla porta a bussare come i carabinieri.

    «Perché non aprivi, Ri’?» gli chiese indagatore.

    «No, è che non mi sto sentendo»,¹ gli disse sedendosi in pizzo al divano, con la mano in testa, Ma perché mi sono alzato stamattina?, odore di mutande non proprio fresche e sudore di sonno estivo. «Stavo pure facendo un sogno brutto…»

    «Eh, infatti», affermò Santo, infilandogli di forza le calze di cotone bianche e le scarpe ex-di-vernice nere. «Ho sentito dalla finestra aperta che gridavi.»

    «Ah», Rino diventò subito rosso, tremò le gambe e le braccia, pensava al sogno, un sogno agghiacciante che lo aveva fatto urlare, a situazioni da sistemare una volta per sempre.

    «Dov’è questo lavoro?» chiese.

    «Sopra a Montedoro, alla benzina di mesto Rocco.»

    Si fermò a pensare muovendo dita grasse su ginocchia nude dai peli radi, stringendo labbra, frenesia.

    «Fammi mettere un pantaloncino», lo indossò con tutte le scarpe.

    Rinuccio aveva delle certezze, poche certezze, poche sicurezze alle quali si appoggiava: Renato Zero il cantante, i film di Alberto Sordi e Tinto Brass (non insieme) e la devozione per la Madonna, per la quale recitava rosari tutte le sere con radio Maria. Radio Maria era sempre accesa, in camera sua. Sempre. Anche durante i film di Tinto Brass: una specie di sottofondo gentile.

    «La radio accesa!» lo avvertì Santo, uscendo.

    «Tu non ti preoccupare: sta la casa», chiuse pensili e cassetti in cucina, lasciò qualcosa, prese qualcosa, qualcosa di insolito e di virile, e lo seguì fuori dalla porta.

    L’Ape era un forno e in due non ci si stava.

    «Non è che scoppia qualcosa?» chiese Rinuccio. Santo rise e sgasò. Per strada lo rassicurò sul lavoro da fare. Non doveva fare niente di faticoso, solo segnalare una deviazione alle macchine che salivano sulla provinciale, semmai servisse. Rino sospirò, dondolando tra la portiera tenuta chiusa con un ferro filato e il gomito di quell’altro che alle curve gli entrava nel fegato.

    Sotto la pensilina, Rocco si pulì le mani strofinandole su uno spigolo.

    Benedetto posò la penna sul blocco, inspirò l’aria elettrificata, portatrice di sventure.

    «La macchina del caffè!» Rocco fece alcuni passi sotto la pensilina, un quadrato di lamiera senza alcuna insegna, senza brand.

    «La benzina!» guardò le due colonne del distributore con i numeri fermi dal giorno prima. Qualche secondo a pensare, a escludere che ci possa essere connessione alcuna tra il circuito elettromeccanico della pompa e qualsiasi timer spaziale sincronizzato con l’anno Duemila.

    Un filo di levantino provava a muovere l’aria, raggrumata sulla cima del colle. Una bolla nella quale qualsiasi cosa vi entra rischia di farla esplodere.

    «Se ti si avvicina uno e ti dice: Attento, vedi quella crepa lassù, lassù, quel cornicione sta per staccarsi…, che fai? Lo guardi?» i due con un gesto del capo fecero intendere che sì, certo, può cadere. «No!» colpì, secco. «Occhio perché lui o un altro avrà già un metro di mano dentro la vostra borsa! E io non mi sono accorto di niente e per forza! Stavi vedendo il niente

    Guardò Benedetto. Benedetto che sapeva e non sapeva. Benedetto che non faceva mai domande perché con Rocco era superfluo: gli dava sempre tutte le risposte che cercava. Rocco che l’aveva salvato dalle acque. Cosa succederà, allora, allo scoccare del Duemila?

    «Non succederà nulla», disse nella sorpresa degli sguardi delusi, assetati di accadimenti. «Vi stanno preparando alla paura, alla chiusura nelle vostre idee, nelle vostre case. Al panico dei carrelli pieni di spesa», Rocco metteva insieme le cose e le faceva capire a chiunque. Aveva la stima, l’autorevolezza e l’ammirazione di tutti. E lui lo sapeva.

    «Che cosa successe nell’anno Mille? Niente! Eppure tutto il mondo si preparò al peggio: addirittura l’architettura delle case, delle chiese, delle città cambiò. Per la paura.»

    Benedetto inghiottì. Rinuccio rosso in faccia si gonfiò un altro poco. Respirava e si gonfiava, un fenomeno che forse solo lui o qualcuno del circo sapeva fare. Santo lo guardò scolarescamente.

    «E cosa successe nell’anno Zero?» e la domanda sembrava facile, ma nessuna domanda di Rocco era semplicemente se stessa. Rino aprì bocca, il buono della classe. Mesto Rocco gliela chiuse in due sillabe: «Nulla!»

    «Come?» reagì il grosso sottovoce, pupille dilatate. «Come nulla?» toccandosi la medaglietta sul petto. Rinuccio che, poche ore prima, stava sognando di scannare Rocco l’infedele.

    Nel piccolo bar, Rocco teneva una foto di qualche settimana prima: lui che avvicina il Papa, tra la folla. E all’orecchio gli bisbiglia la blasfema verità. Sono a tre centimetri. La faccia sgomenta del pontefice.

    Rocco l’ateo relativista. Rino gli stava sopra segnandogli la faccia con tocchi di mannaia dopo avergli squartato il petto a Serra di Croce: «In nomine domini!», urlò svegliandosi. Si udì in strada, quando Santo lo andò a cercare.

    Si gonfiò e vibrò un altro poco.

    «Vi fanno credere che ci sarà la catastrofe e che loro si prenderanno cura di voi. Con una mano vi accarezzano la testa Tranquillo non ti succederà niente!. Mentre con l’altra…» fece un gesto osceno allungando un pugno verso il basso. Santo rise come una tosse, scoprendo un punto scuro nel fondo della mascella dove gli mancava un dente. Smise strofinandosi il naso, guardava l’orologio al polso. Rino stringeva e allentava le labbra, una specie di tic.

    «Senza luce, senz’acqua, senza gas, senza radio, senza tivù. Il Medioevo, l’oscurantismo. Tutto immobile, la morte: la vostra paura più grande», riusciva a stare asciutto, lucido, mentre gli altri erano visibilmente sofferenti il caldo, l’attesa di cose che non capitavano. Il pensiero all’urgenza di piani da svolgere, rivelare, cooptare forze utili.

    Rinuccio guardava le punte delle sue scarpe strette, cercava di muovere le dita dentro. Labbra tic.

    «Vi hanno fatto credere che abbiamo bisogno di tutto e di tutti», in quel momento il rumore di un mezzo che si arrampicava sulla provinciale. Santo trasalì, guardò l’orologio sgomento, non era l’ora, si calmò, sogghignò isterico, guardò la strada.

    «Aprite gli occhi. Tutto quello che vi dicono e che crea delle ansie, delle preoccupazioni, dei pensieri: tutto

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