Il Gesto Musicale: origini e culture
Di Luigi Morleo
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Anteprima del libro
Il Gesto Musicale - Luigi Morleo
BIBLIOGRAFIA
Introduzione
Un gesto, qualsiasi esso sia, è un movimento del corpo che esprime la comunicazione. La storia ci insegna come il gesto si sia evoluto in conseguenza alle necessità di sopravvivenza. Il libro che vi accingete a leggere espone una comparazione tra il movimento-il gesto-il comportamento dell’uomo e gli strumenti a percussione, il loro periodo stimato e il luogo in cui gli stessi sono stati ritrovati. In questo modo si mettono in luce le reali differenze e le non differenze susseguitesi in luoghi ed epoche diversi. È significativo apprendere come l’evoluzione appartiene ad una strategia universale dell’uomo priva di differenze tra gruppi di uomini isolati ma, al contrario, tesa a produrre strumenti simili.
Il processo storico dell’etnomusicologia
ci aiuta a capire come la disciplina musicologica sia diventata, insieme a quella antropologica, un’esperienza importante per il riconoscimento della figura del musicista.
Di conseguenza il capitolo pensiero etnomusicologico
riassume come gli studiosi siano arrivati, secondo un percorso gerarchico-cronologico, alle tesi e alla comprensione delle possibilità umane. Parallelamente ad altre discipline, come la sociologia e la psicologia, si costruisce una panoramica completa che converge in una conoscenza universale della nascita del gesto musicale.
Il gesto percussivo
diventa una tappa obbligata per qualsiasi percorso musicale poiché il gesto primordiale è percussivo, sia che esso sia prodotto dal solo corpo umano o che esso sia prodotto con l’ausilio di un mezzo, rimane comunque un gesto percussivo che esprime e si riconosce.
Le percussioni e le loro origini
è un capitolo che affronta le prime forme di suono organizzato, scoperte e introdotte in contesti specifici e mai casuali.
L’improvvisazione
è l’unica strategia usata da tutte le culture di tutte le epoche: organizza, esprime, confronta, afferma in ogni campo artistico la complessa e univoca creazione.
L’ultimo capitolo culture, comportamenti e simboli
abbraccia tutte quelle tradizioni dei singoli cinque continenti (Asia, America, Europa, Africa, Oceania) con l’aggiunta di una prima parte dedicata al Medio-Oriente, la civiltà più antica e più complessa, attraverso le quali ci riconosciamo come esseri viventi facenti parte di un gruppo.
Sicuramente non posso sperare di raggiungere gli interessi di ciascun lettore ma spero almeno che questo libro possa risultare uno strumento chiarificatore per i percussionisti, che possa servire alla crescita dei musicisti e che renda più chiara la comprensione della musica.
PROCESSO STORICO DELL’ETNOMUSICOLOGIA
Gli oggetti e i metodi di cui dispone l’etnomusicologia sono tanti e diversi tra loro, per cui una definizione che tenti di spiegare la vera natura di questa disciplina potrebbe orientarsi verso una scienza che studia le musiche delle comunità culturali del mondo intero, cercando di escludere il complesso musicale cosiddetto colto
. L’etnomusicologia è un ramo della musicologia come anche dell’antropologia e dell’etnologia e si avvale, spesso, di ulteriori discipline per coadiuvare il proprio studio come: l’archeologia, la paleontologia, la sociologia, la psicologia cognitiva, la coreologia, la linguistica e l’acustica. L’intervento etnomusicologico diventa molto complesso e di non facile universalità, per non parlare dell’impegno fisico durante le ricerche sul campo e delle continue soluzioni diplomatiche, di volta in volta necessarie, nelle relazioni con le altre culture. Se volessimo prendere in esame i primi scritti da cui partire per la costruzione di un processo storico etnomusicologico potremmo interpretare le sacre scritture ed i poemi dei Greci. Tra i primi storici che affrontarono lo studio della musica dei Greci, degli Ebrei e degli Egiziani antichi ricordiamo padre Martini (1757-81) in una Storia della musica
in tre volumi. La nascita della disciplina, tuttavia, è possibile individuarla negli interrogativi e nelle osservazioni degli studi di Jean-Jacques Rousseau (1768) in Dictionnaire de musique
, di padre J.J-M. Amiot (1779) in Mémoire sur la musique des chinois
e di Guillaume Villoteau (1809) in De l’état actuel de la musique en Egypte
. Il primo lavoro etnomusicologico nasce con la pubblicazione di ‘La musica dei selvaggi dell’America del Nord’, una monografia degli indiani Seneca di New York del tedesco Theodor Baker (1882) e con l’articolo sull’analisi delle scale non armoniche di Alexander John Ellis (1884). Più tardi il lavoro dell’etnomusicologo diventa più efficace e più stabile attraverso il supporto meccanico della registrazione di Edison, come il caso di Walter Fewkes (1889), con le registrazioni degli indiani Zuni di Passamaquoddy, successivamente analizzate da Benjamin Ives Gilman (1891), e da Carl Stumpf (1902), dopo la realizzazione dell’archivio di musica non occidentale presso l’Istituto di psicologia dell’Università di Berlino. Sempre a Berlino nel 1902 Erich Moritz von Horbostel e Curt Sachs realizzano il primo lavoro di organologia, disciplina che rappresenta uno dei rami dell’etnomusicologia, sulla base degli studi condotti da Charles Mahillon, Fritz Groebner e Wilhelm Schmidt suddividendo gli strumenti nelle quattro sezioni che ancora oggi riconosciamo: idiofoni, membranofoni, cordofoni e aerofoni. Nel 1933 vari studiosi tedeschi, tra cui Sachs, Kolinski, Hornbostel affrontano i problemi della sinestesia e delle modalità intersensoriali che invadono la psicologia e la tecnica della Gestalt; più tardi, aggiuntosi anche Schneider, questi studiosi si trasferirono tutti negli Stati Uniti, e da lì l’interesse per lo studio, iniziato nel 1927, si espanse nelle culture indiane d’America. Con l’appoggio di George Herzog, attraverso le tecniche comparative, si studiarono gli indiani dei Pima e dei Papago, soprattutto si misero a confronto gli schemi ritmici sul tempo, l’accompagnamento, le melodie e la maniera di cantare. Lo studio di Herzog, sostenuto da George List, venne subito affiancato a quello di Frances Densmore che scrisse quindici volumi sulle tribù indiane nel corso degli anni tra il 1917 e il 1957 e, in contemporanea, sviluppato da Bruno Nettl in North American Indian Musical Style
del 1954. Da tale studio scaturisce tutto il successivo percorso di David McAllester che, nel suo saggio Enemy Way Music
del 1954, realizza il primo lavoro in cui vengono distinte le due discipline: la musicologia e l’etnomusicologia; la ricchezza di mezzi che gli Stati Uniti offriva fu il motivo principale che dette origine allo sviluppo dell’etnomusicologia che iniziava a fondersi e a completarsi con le altre discipline (antropologia, sociologia ed etnologia). Le ricerche proseguirono con Alan Lomax, in Folksong Style and Culture
del 1968 che, sotto l’influenza di Robert Murdock, definì le aree di studio del testo musicale in relazione all’organizzazione sociale, sintetizzando i lavori dei suoi predecessori. Contemporaneamente, mentre Mantle Hood fondava l’istituto di etnomusicologia dell’Università di California (UCLA), l’interesse della musica contadina in Europa prese il via in Russia con Milij Balakirev, e poi continuata in maniera più esplicita da Bartok, con Scritti sulla musica popolare
del 1948, e la grande tesi di Kodaly. Il lavoro di Bartok fu enorme, una raccolta in nove volumi di circa 10.000 melodie tra rumene, slovacche, turche, serbo-croate, ucraine, bulgare e ungheresi. Il lavoro di un’altro rumeno, Costantin Brailoiu, fu al centro dell’interesse dal 1931 al 1958, con il saggio Esquisse d’une méthode de folklore musicale
, con il quale si diffuse la disciplina anche in Francia e Svizzera, trattando l’etnomusicologia attraverso il totale pensiero sociologico e influenzando il pensiero etnomusicologico internazionale; Brailoiu istituì, inoltre, gli Archivi Internazionali di Musica Popolare a Ginevra, e lavorò al Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) di Parigi. In seguito, nel 1962, Sachs insieme a Mieczyslaw Kolinski diffusero la tecnica comparativa su schemi melodici, seguita successivamente da Marius Schneider (le origini della polifonia), Carlos Vega (musica Sudamericana) e Rose Brandel (Africa centrale); lo scopo era perfettamente comparativo e di conseguenza la disciplina prendeva il nome di musicologia comparata
. Intanto a Berlino nasce il primo gruppo di lavoro etnomusicologico con Carl Stumpf, Otto Abraham ed Erich Moritz von Horbostel nel 1975, con una predominanza sugli studi che interessavano i processi mentali coinvolti nella musica. Con l’americano Alan Merriam (1964), dopo la pubblicazione del libro Antropologia della musica
, l’etnomusicologia, in quanto studio musicologico della musica delle culture, diventa non più musicologico ma antropologico: così nasce l’antropologia della musica, proprio in parallelo ai comportamenti umani nei vari stadi evolutivi della personalità. Questa teoria di Merriam viene riletta, sotto un aspetto sociologico, da Hugo Zemp nel 1971 con Musique Dan - La musique dans la pensée et la vie sociale d’une société africaine
, per poi essere portata al massimo sviluppo da John Blacking nel 1973 con Come è musicale l’uomo?
. Lo studio scientifico, nel contesto dell’antropologia della musica non tarda ad arrivare, nel 1982, con una teoria sperimentale di Zemp dedicata ai Kaluli della Nuova Guinea. Oggi, l’etnomusicologia, è una disciplina reale tanto importante per la musica quanto chiarificatrice in relazione al comportamento generale dell’individuo. In un’epoca postmoderna, in cui le nuove tecnologie della comunicazione diventano il punto di riferimento, le frontiere fra le diverse culture diventano sempre più inesistenti con la consapevolezza che la società appare sempre più ibrida e il campo d’azione diventa una fusione