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Quello che le canzoni non dicono: Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore
Quello che le canzoni non dicono: Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore
Quello che le canzoni non dicono: Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore
E-book570 pagine12 ore

Quello che le canzoni non dicono: Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore

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Info su questo ebook

Sapevi che Il ragazzo della via Gluck di Celentano venne subito bocciata dalle giurie di Sanremo? Che George Michael ha composto Careless Whisper in autobus andando al lavoro? Che il chitarrista dei Toto scommise che se Africa avesse avuto successo sarebbe corso nudo lungo Hollywood Boulevard? Che Over the rainbow rischiò di non essere inserita nel film Il Mago di Oz perché non piaceva ai produttori? Che Vacanze Romane dei Matia Bazar in parte nacque da un jingle scritto per Radio Deejay?

Quante storie e segreti si nascondono dietro alle nostre canzoni del cuore...

Storie strane, divertenti, tristi, a volte così incredibili da non sembrare vere, ma ognuna capace di gettare una nuova luce su una canzone, facendoci entrare per un momento nella mente dei suoi autori... a cosa pensavano, cosa facevano, cosa desideravano quando le hanno scritte? Un libro da leggere come una raccolta di racconti, racconti i cui protagonisti sono le canzoni. Quelle che hanno fatto la storia del rock, così come quelle nate solo per portare magari un po' di allegria o di romanticismo nelle nostre vite. Scoprire cosa si cela a volte dietro quei tre/quattro minuti di musica ce le farà forse amare ancora di più, e quando le ascolteremo non potremo non tornare con la mente alle storie qui raccontate.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2021
ISBN9791220334464
Quello che le canzoni non dicono: Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore

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    Anteprima del libro

    Quello che le canzoni non dicono - Davide Pezzi

    Indice

    Storie di canzoni di Marco Ferradini

    Le canzoni di Ivan Cattaneo

    Introduzione

    Ringraziamenti

    A

    B

    C

    D

    E

    F

    G

    H

    I

    J

    L

    M

    N

    O

    P

    Q

    R

    S

    T

    U

    V

    W

    Y

    Z

    Indice degli interpreti

    Davide Pezzi

    quello che le canzoni non dicono

    Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore
    Prefazioni
    di
    Marco Ferradini e Ivan Cattaneo

    Titolo | Quello che le canzoni non dicono. Storie e segreti dietro alle nostre canzoni del cuore

    Autore | Davide Pezzi

    ISBN | 9791220334464

    Prima edizione digitale: 2021

    © Tutti i diritti riservati all'Autore.

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Marco Ferradini

    Storie di canzoni

    Una volta c’erano i menestrelli che allietavano le corti dei potenti recitando poesie. Prima della radio e della TV le notizie si raccontavano anche così.

    C’erano canzoni che esaltavano le gesta e l’audacia dei cavalieri in battaglia e altre che parlavano d’amore.

    La poesia non aveva accompagnamento poi qualcuno ha pensato che le rime potevano essere supportate anche da uno strumento ed ecco la forza della canzone, testo più musica, una bomba!

    La musica aiuta la poesia ad essere ricordata perché risulta più facile se ad ogni parola corrispondono una serie di note che formano una melodia.

    Le canzoni sono folate di vento che appena si ascoltano svaniscono, sono inafferrabili, non le puoi toccare, ma nel momento in cui ti passano tra le orecchie sanno regalare e risvegliare emozioni nascoste, ti trasportano in altri luoghi immaginati o vissuti. Incredibile!

    Sono quadri appesi alle pareti della nostra memoria.

    La loro forza sta anche nella loro breve durata, non riescono a stancarti perché in quei tre minuti si svela tutto un mondo, c’è una trama, un crescendo di suspence, una esposizione dei fatti, una apoteosi nell’inciso e una conclusione. Il tutto in un breve lasso di tempo. E’ un libro in pillole, uno slogan, da portarsi in giro da ridire, da urlare, un modo di dire o di fare. Ormai da tempo tutto passa attraverso le canzoni, il discorso amoroso, la politica, il sociale, la lotta degli oppressi o la salvezza dell’ambiente possono essere veicolati dal messaggio contenuto in un brano.

    Fantastico vero? Quanta storia si nasconde dietro un brano. Cosa voleva dire chi l’ha scritto, cosa pensava, come viveva e in che contesto è nata quella musica? È quello che cerca di investigare questo libro

    Qualche volta hanno testi poco comprensibili o di ambigua interpretazione e altre invece dove è tutto chiaro. Però viene voglia di entrare a curiosare nella casa e nella testa di chi l’ha scritta per avere un’idea più completa del contesto, quasi a volere capire le ragioni e gli stimoli che hanno mosso l’autore. Chiedersi se quello che racconta l’ha vissuto oppure è solo fantasia. Anch’io che scrivo canzoni da una vita sono curioso di indagare, di sapere, di scoprire, e qualche volta per potermi a mia volta ispirare, perché no?!

    Dalle cose belle ovviamente, quelle che ci fanno sognare perché se un compito ce l’hanno queste benedette canzonette l’abbiamo capito in questo periodo di poca libertà e rassegnazione. Sono la finestra aperta sul panorama dell’anima che non finisce di stupirci e ammaliare per non smettere di pensare e a volte farci innamorare.

    Marco Ferradini

    Ivan Cattaneo

    Le canzoni

    Le canzoni sono come gli odori: senti un odore, un profumo e all’improvviso ti viene in mente un momento della tua vita!

    E come gli odori le canzoni aleggiano nell’aria, volano e si posano come farfalle sonore nelle orecchie ormai distratte della gente del 2000.

    Le canzoni sono la spina dorsale di una nazione, le belle canzoni resistono alla carta vetrata del tempo, che tutto appiana e consuma!

    Se canti Volare o Baciami bambina sulla bocca, tutti subito se le ricordano, eppure risalgono a 60, 70, 100 anni fa… eppure eccole all’improvviso di nuovo lì, nella memoria collettiva di un paese intero!

    Mentre invece chi si ricorda più un politico di 60, 70, 100 anni fa? Nessuno! Completamente dimenticati per sempre… ma le canzoni, le canzoni sono invece come medicine, come terapie sull’anima, come sorrisi… & canzoni appunto!

    Le canzoni sono consolatorie, incitanti, galvanizzanti, eppure leggere nell’etere!

    Certo se uno canta Baciami bambina… tutti la ricordano, ma se uno chiede chi la cantava, nessuno ormai ricorda più il nome di Alberto Rabagliati, ma questo è un bene, perché significa in fondo che la cosa importante era la creatività della canzone stessa, e il cantante solo uno strumento di passaggio come un oboe o una chitarra!

    Quindi le belle canzoni restano ma i cantanti passano! Ma ripeto: è giusto così.

    Del resto, pure il consumato popolare Sanremo si è sempre detto festival della canzone italiana e non del cantante!

    Una canzone è una poesia con la musica, un’idea musicale e spesso anche poetica dove tutto collima nella creazione più riuscita e comunicativa.

    La cattiva educazione dei tempi dei talent, delle gare e dell’arrivismo commerciale, ci ha deragliato sull’attenzione portata alla voce e non alla creatività della composizione.

    Ma la voce, bella che sia, è solo un dono di natura come l’avere un bel nasino o un bel sedere…. ma è la creatività del brano che resisterà nel tempo. Mentre tutti questi talent creano solo carne da macello, utile, famosa e consumata all’interno del suo format televisivo, e subito dopo il successo dell’evento Tv: il nulla!

    Molti scrivono canzoni, ma le belle canzoni sono davvero cosa rara.

    Non c’è una ricetta, guai se ci fosse!

    Certo una buona sintesi e compattezza sono espressione di immediata comunicabilità. Per esempio il non compiacersi troppo su una frase melodica, il non dilungarsi in introduzioni vacue e fini a se stesse, o l’aggiungere ponti e varianti che ne appesantiscono il possibile gioiello.

    Yesterday dura solo 1 minuto e venti secondi, e credetemi, non c’era bisogno di altro!

    Ma ripeto, una ricetta non c’è, e chi invece pensa ci sia, rincorrendo i successi precedenti, finisce sempre con il fallire pesantemente.

    Le canzoni accompagnano la nostra vita, la cullano, la sottolineano, la consolano!

    Ecco, sì, consolare… perché se dovessi trovare un sinonimo di cultura io prenderei la parola consolazione.

    Non è forse vero che quando leggiamo un bel libro, quando guardiamo una bella opera d’arte, o ascoltiamo Mozart o Battisti ne siamo consolati? Ecco: cultura uguale consolazione!

    Il consolare l’anima, il rafforzarla, il credere ancora in qualcosa di creativo.

    Il credere ancora nello stupore del nuovo, del mai sentito, dell’emozione che accarezza le nostre orecchie e ancor prima il cuore.

    E la condivisione di emozioni su una data canzone, è quella che unisce gli amici, gli amanti e il popolo di una nazione intera, che oggi risulta invece troppo sorda, bombardata e interferita dalla troppa abbondanza di musica inutile e ripetitiva.

    Ivan Cattaneo

    Introduzione

    Che cos’è una canzone? Secondo il vocabolario Treccani è un «Breve componimento lirico destinato a essere cantato con accompagnamento musicale», e come definizione ci può anche stare.

    Ma ovviamente per molti di noi una canzone è ben altro: è una macchina del tempo, che nel giro di pochi minuti è in grado di trasportarci al primo amore, alla prima gita con gli amici, a quel particolare esame così difficile da superare, a un lungo viaggio in treno, a un pomeriggio di pioggia passato nel bar della spiaggia, alle prime feste in casa, a un amico che abbiamo perso di vista, al primo viaggio a Londra o a New York, a un film, a un frammento di vita che magari avevamo dimenticato, abbandonato in un angolo della memoria, ma che non aspettava altro che quella canzone per tornare prepotentemente in vita.

    E non devono essere sempre per forza grandi canzoni: a suscitare un’emozione, a farci diventare allegri, malinconici o pieni di adrenalina può essere a volte una di quelle canzoni definite - da chi ama altro - usa-e-getta, ma che per noi hanno un significato particolare, che nessuna dotta recensione potrà sminuire. Se mi si permette una riflessione personale, ricordo che negli anni dell’adolescenza riuscivo ad ascoltare indifferentemente i Genesis e Claudio Baglioni, ovviamente tra gli sguardi inorriditi - a volte di compatimento - di amici che invece non avrebbero mai osato uscire dallo steccato dei generi di musica alti. Ma questa è la forza delle canzoni, soprattutto delle belle canzoni: trovare comunque il momento giusto per arrivare a toccarci l’anima. Ci può, e ci deve essere, lo spazio adatto per il brano rock più elaborato, così come per la canzonetta romantica o il brano da ballare in discoteca.

    In questo libro troverete le canzoni che hanno davvero scritto la storia della musica rock andare a braccetto con canzoni nate magari solo per essere ballate, ma scoprirete quante storie possono esserci dietro a quei 3 minuti che ascoltate in auto andando al lavoro o da un telefonino sul bus per la scuola.

    Già, perché questo non è un libro di recensioni, e non è minimamente un libro di storia della musica pop - per quello ci vorrebbero vari volumi di molte migliaia di pagine - e non si prefigge lo scopo di presentare le migliori canzoni della storia. Se cercate un libro del genere ce ne sono molti altri. Qui non raccontiamo la Storia del pop, ma le storie - con la esse minuscola - che stanno dietro alle nostre canzoni del cuore. I segreti, gli aneddoti, le curiosità, i retroscena, quello che le canzoni non dicono, appunto. Se non troverete la vostra canzone del cuore tenete presente che a volte una canzone famosa e bellissima non ha nessuna storia particolare alle spalle, mentre invece una canzone magari meno memorabile può nascondere una storia che vale la pena di raccontare.

    Questo è quindi lo spirito di questo libro, raccontare delle storie, ricostruire tutto quello che ha portato alla creazione di quei pochi minuti, capaci di attraversare i decenni senza perdere niente della loro forza. Troverete certo dettagli che già conoscevate, ma mi piace pensare che forse potrete anche scoprire qualcosa che ignoravate, e che magari vi faranno ascoltare una canzone in modo diverso, e forse amarla ancora di più.

    Queste storie partono da canzoni risalenti ai primi decenni del secolo scorso fino agli anni 2000 inoltrati, anche se la parte del leone, per forza di cose, la fanno gli anni ‘60, ‘70 e ‘80; ci sono anche alcuni intrusi, e cioè brani strumentali che a rigor di logica non sarebbero definibili come canzoni, ma non potevo lasciare fuori un capolavoro, per fare un esempio, come Tubular Bells di Mike Oldfield, con buona pace della Treccani. Le canzoni in lingua inglese la fanno comprensibilmente da padrone, ma è comunque presente una qualificata quota italiana.

    Forse leggendo una storia vi verrà voglia di riascoltare una certa canzone, o magari di andarne a scoprire una che non conoscevate, ma la cui storia vi ha incuriosito. E chissà, potreste aggiungere anche questa alle vostre canzoni del cuore. E se questo dovesse avvenire sarà la cosa più bella e importante che il mio umile lavoro avrà potuto fare.

    Davide Pezzi

    Due parole sui criteri utilizzati

    Le canzoni sono in ordine alfabetico articolo compreso. Questo significa che La canzone del sole la troverete alla L, così come l’unica canzone il cui titolo inizia con un numero, 4/3/1943 di Dalla, la troverete alla Q, come se il titolo fosse scritto il lettere ("Quattro marzo ecc."). Dopo titolo ed esecutore pochi dati essenziali: l’Autore e l’anno di pubblicazione, indicando ove necessario più versioni. Tutti gli altri dati, come gli album da cui le canzoni sono tratte, le vendite ecc., sono inseriti all’interno delle storie stesse. Alla fine del volume un indice degli interpreti vi permetterà di trovare le storie dedicate all’artista che cercate. Potreste anche trovare dei dettagli diversi da quelli che conoscete, per cui metto le mani avanti: a volte ricostruire storie attendibili attingendo magari a tra/quattro fonti diverse, spesso in contraddizione fra loro, non è facile, ed è anche possibile che sia incorso in qualche errore, per cui invito chi volesse segnalare eventuali inesattezze a scrivermi alla mail davide@storiedicanzoni.it .

    Ringraziamenti

    Forse questo libro non sarebbe mai nato senza l’incoraggiamento e lo stimolo di Tonino Zani, che è stato tra i primi e più fedeli lettori delle mie storie, nonché attento correttore delle bozze: se troverete pochi errori in questo libro è solo merito del suo certosino lavoro, e forse un semplice ringraziamento è poco.

    Grazie poi a Maurizio Mecozzi, prezioso e insostituibile amico, anche lui tra i miei primi lettori e assaggiatori delle mie storie; a mio figlio Cristiano per avermi offerto il punto di vista di un’altra generazione, spingendomi a scrivere di canzoni di cui forse non mi sarei occupato; ad Andrea Montalbò, valente scrittore di cui mi onoro di essere amico, e sostenitore del mio lavoro, nonostante i suoi gusti musicali spesso molto lontani dalle canzoni qui trattate. Anche questa è amicizia.

    A Marco Ferradini e Ivan Cattaneo, che molto generosamente mi hanno donato due riflessioni su ruolo e importanza delle canzoni nelle nostre vite; e, last but non least (come scrivono quelli che vogliono fare i fighi), a mia moglie Cinzia, che fin dall’inizio del progetto del libro mi ha incoraggiato e sostenuto, non immaginando forse che sarebbe poi stata continuamente interpellata per consigli e pareri.

    A

    Africa

    Toto

    Autori: David Paich / Jeff Porcaro

    Anno di pubblicazione: 1982

    «Se diventa un successo, correrò nudo lungo Hollywood Boulevard» Questo è quello che dice Steve Lukather, chitarrista dei Toto, all’amico David Paich, tastierista nella stessa band. Paich gli ha appena fatto ascoltare il primo abbozzo di una nuova canzone che parla dell’Africa. La melodia non gli dispiace ma il testo proprio non riesce a mandarlo giù: «Dave, amico, Africa? Siamo del nord di Hollywood - gli dice - Di che cazzo stai scrivendo? Benedico le piogge in Africa?... Sei Gesù, Dave?».

    Siamo nel 1982 e la band, dopo il grande successo dei primi due album, col terzo disco, turn back, più sperimentale, ha toppato. Il tastierista, cantante e compositore David Paich ha appena ricevuto una nuova tastiera, una Yamaha CS-80 e, mentre sta provandone i suoni, abbozza alcune note che diventeranno poi il riff iniziale di Africa. Comincia a canticchiare una melodia e le parole sembrano uscire da sole. Paich non è mai stato in Africa anche se, come ha dichiarato in alcune interviste, ne era sempre stato affascinato: «Ho adorato i film sul dott. Livingstone e sui missionari. Frequentavo una scuola cattolica per soli ragazzi e molti insegnanti erano stati missionari in Africa. Mi raccontavano come avessero benedetto gli abitanti del villaggio, le loro Bibbie, i loro raccolti e, quando pioveva, avrebbero benedetto la pioggia. Ecco da dove viene la frase, benedico le piogge in Africa. Dicevano anche che la solitudine e il celibato erano le cose più difficili della vita là fuori. Alcuni di loro non hanno mai preso i voti perché avevano bisogno di compagnia. Così ho scritto di una persona che vola per incontrare un missionario solitario. È una storia d’amore romantica sull’Africa, basata su come l’avevo sempre immaginata». Oltre ai suoi ricordi personali il cantante attinge anche a un documentario che ha visto qualche mese prima, trasmesso a tarda notte in TV, sull’Africa nei suoi aspetti più drammatici. «Vedere la terribile sofferenza della gente mi ha commosso e spaventato e quelle immagini non se ne sono mai andate dalla mia testa - ha detto ancora Paich - Ho cercato di immaginare come mi sarei sentito se fossi stato lì e cosa avrei fatto». Come dicevamo, dopo avere composto la melodia Paich si accorge che il testo sgorga spontaneamente e in ١٠ minuti la canzone è finita. Lui stesso ne è stupito, come ha raccontato: «Aspetta, ho pensato, sono un autore di talento, Ok, ma non così tanto talentuoso! Era come se un potere superiore stesse scrivendo servendosi di me, perché le parole stavano uscendo come per magia». Quando il tastierista presenta finalmente la canzone finita, la band è impegnata con la preparazione dell’album toto iv. La reazione dei suoi colleghi non è certo delle più entusiastiche: oltre a Lukather anche il cantante Bobby Kimball pensa che non sia adatta al nuovo disco, e fino alla fine sembra proprio che il suo destino sia di restarne esclusa. Poi, come spesso capita, il gruppo si trova ad avere bisogno di un’altra canzone per completare l’album e allora si decide di includere anche Africa nella tracklist finale. Il chitarrista Steve Lukather comunque rimane della sua idea e dirà: «Pensavo che fosse la peggior canzone dell’album».

    La realizzazione della canzone richiede molto tempo, perché i musicisti della band, notoriamente tra i più bravi session-men del mondo, sono dei perfezionisti. Il secondo tastierista Steve Porcaro programma il suo sintetizzatore GS 1 per emulare il suono di una kalimba (un piccolo strumento a percussione africano), e suo fratello Jeff, il batterista, suona praticamente dal vivo di fronte al percussionista Lenny Castro che suona una conga. I due si guardano negli occhi e registrano molti minuti di base cantando nella testa la linea del basso, senza alcun aiuto in cuffia, per ottenere la maggiore spontaneità possibile. Alla fine riascoltano il risultato e prendono le parti migliori per usarle nella canzone. «Forse ci sarebbero voluti due minuti per programmarlo su una Linn (una batteria elettronica, ndr) - ha raccontato Steve Porcaro - mentre c’è voluto un sacco di tempo per farlo così. Ma la Linn è una macchina e non avrebbe suonato così!». Africa viene quindi inclusa nell’album come ultima canzone, in chiusura del Lato B (parliamo ovviamente di dischi in vinile), a ulteriore dimostrazione di quanto poco la band creda nel suo potenziale. L’album toto iv viene pubblicato l’8 aprile 1982, preceduto di una settimana dal singolo Rosanna che arriva alla seconda posizione della classifica americana; il secondo singolo si rivela una scelta infelice: Make believe non sale più in su del 19° posto ed è proprio con la bistrattata e odiata Africa che il gruppo fa il botto: il singolo arriva subito alla posizione N. 1 della classifica di Billboard, trainando ancora più l’album, e diventando in breve la canzone più famosa dei Toto. Arriva prima anche in Canada ed entra nella Top 10 in Inghilterra, Australia, Olanda, Austria, Irlanda, Belgio, Svizzera e Nuova Zelanda (in Italia si ferma alla posizione n° 22). Il video, molto concettuale e con una trama piena di riferimenti all’Africa, è diretto da Steve Barron, regista cinematografico e autore di videoclip per artisti del calibro di Bryan Adams, Dire Straits, Culture Club, Madonna e Michael Jackson (Billy Jean) e contribuisce non poco alla popolarità della canzone e alla visibilità del gruppo. L’enorme successo di Africa ha rischiato però di mettere in ombra le reali capacità della band, come ha tenuto a sottolineare Steve Lukather: «Molti ci categorizzano come la band di Africa e Rosanna, e questo mi infastidisce. Nella nostra musica c’è molta più sostanza di così. Non fraintendetemi, quelle canzoni sono state fantastiche per noi, ma davvero non capisci la profondità della band se questo è tutto ciò che conosci dei Toto». Checché ne pensi comunque Lukather, Africa è una grande canzone che rende il nome della band famoso in tutto il mondo, e quando alla fine degli anni ‘90 finalmente i Toto si esibiscono in Sudafrica, a Città del Capo e Johannesburg, durante un safari vengono fermati dalla gente che chiede Quando siete stati in Africa?. «Ho ammesso di non essere mai stato lì fino ad allora - ha raccontato David paich - Dissero: Ma lo descrivi così magnificamente! Questo mi scalda il cuore». Africa è apparsa in vari programmi televisivi tra cui Stranger Things, I Griffin, Chuck e South Park, ed è stata utilizzata dalla CBS durante la loro diretta del funerale di Nelson Mandela, anche se non senza qualche polemica. Nel gennaio 2019, un’installazione sonora è stata allestita in una località sconosciuta nel deserto del Namib per riprodurre la canzone in loop costante. L’installazione è alimentata da batterie solari, il che consente di riprodurre il brano a tempo indeterminato.

    E la corsa nudo per Hollywood Boulevard di Steve Lukather? Beh, il chitarrista ha ammesso di non averla mai fatta ringraziando l’amico David Paich per non avere preteso il pagamento di quella azzardata scommessa.


    Agnese

    Ivan Graziani

    Autore: Ivan Graziani

    Anno di pubblicazione: 1979

    Il 1° gennaio 1997 nella sua casa di Novafeltria, nell’entroterra riminese, muore Ivan Graziani. Malato da due anni di tumore al colon aveva voluto lasciare l’ospedale per trascorrere in casa le festività natalizie. Sebbene non sia mai stato celebrato e ricordato come meriterebbe, Ivan è stato uno dei più originali cantautori italiani e uno dei pochi veri rocker nostrani. Virtuoso della chitarra, dopo gli esordi con vari gruppi tra cui ricordiamo almeno gli Anonima Sound, agli inizi degli anni 70 inizia la sua carriera solista e si fa conoscere nell’ambiente discografico italiano come richiesto e apprezzatissimo session-man e autore. Partecipa a dischi di Lucio Battisti, PFM (di cui nel 1974 rischia di diventare il cantante, ruolo preso poi da Bernardo Lanzetti), Bruno Lauzi, Herbert Pagani, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, e intanto affina il suo stile inconfondibile, sia come chitarrista che come cantante. Nel 1979 la sua carriera ha finalmente cominciato a dargli qualche soddisfazione. Ha già inciso tre album con la Numero Uno, e se il primo, ballata per 4 stagioni (1976), nonostante le recensioni positive, è passato un po’ inosservato, già con i lupi (1977), che contiene la famosa Lugano addio, centra il successo non solo di critica ma anche di pubblico, successo consolidato dal successivo pigro (1978). Ma è con l’album Agnese dolce agnese che finalmente Ivan conosce il vero successo presso il grosso pubblico. L’album raggiunge la decima posizione e resta in classifica per quindici settimane. La canzone portante, Agnese, uscita anche come singolo, non è un brano rock ma una dolcissima ballata, un ritratto femminile - di cui la discografia del cantautore è ricca - come sempre originale, lontana dai consueti schemi delle canzoni d’amore. Anzi: non è neppure una canzone d’amore in senso stretto, come lascia intuire la frase "Agnese, dolce Agnese / Color di cioccolata / Adesso che ci penso / Non ti ho mai baciata, ma il ricordo struggente di una compagna di giochi, di gite in bicicletta e di confidenze, probabilmente durante una vacanza estiva durante l’età più bella, quella dell’adolescenza. Il testo viene composto da Ivan a Milano, come ha raccontato la moglie Anna, e forse è il clima non certo solare del capoluogo lombardo a ispirare i versi: È uscito un po’ di sole / Da questo cielo nero / L’inverno cittadino / Sembra quasi uno straniero ... Io vado in bicicletta / Per sentirmi vivo / Alle cinque di mattina / Con la nebbia nei polmoni". Il successo di pubblico è enorme e catapulta di diritto Ivan tra i nomi di punta della musica italiana.

    Facciamo un salto in avanti di 10 anni 1988: Phil Collins pubblica il singolo A groovy kind of love inserito nella colonna sonora del film Buster di cui il cantante/batterista è anche protagonista. Quando la canzone comincia a venire trasmessa dalle radio sono in molti, in Italia, a notare l’estrema somiglianza della melodia con Agnese di Ivan Graziani. Phil Collins ha copiato Ivan Graziani? In realtà la canzone incisa da Collins è la cover di un brano scritto da Toni Wine e da Carole Bayer Sager nel 1965 e portato al successo dagli inglesi Mindbenders (il cui cantante era Eric Stewart, in seguito co-fondatore dei 10cc.). E quindi è Ivan ad avere copiato da questa vecchia canzone dell’era beat? Neppure. L’ispirazione delle due canzoni è in realtà il rondò della Sonatina op. 36 n. 5 in Sol maggiore di Muzio Clementi, un compositore vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, il cui inizio è innegabilmente quasi identico alla melodia delle due canzoni, che però poi si sviluppano in modo differente. Non si tratta quindi che dell’ennesimo scippo da parte della musica pop nei confronti della musica classica, non il primo né l’ultimo e neanche il più clamoroso. E infatti la causa di plagio finì con un nulla di fatto. Qualunque sia l’ispirazione di Agnese nulla toglie che si tratti di una bellissima canzone, una delle tante perle della carriera di un musicista che ci ha lasciati troppo presto e che ancora aspetta il giusto riconoscimento nel panorama della musica italiana.


    A Horse With No Name

    America

    Autore: Dewey Bunnell

    Anno di pubblicazione: 1971

    Dewey Bunnell, Dan Peek, e Gerry Beckley sono figli di militari. Tre ragazzi sballottati, come spesso capitava in questi casi, da una parte all’altra del mondo. Mentre i loro padri sono di stanza alla base dell’aeronautica degli Stati Uniti presso la RAF South Ruislip vicino a Londra, a metà degli anni ‘60, i tre ragazzi frequentano la London Central High School alla Bushey Hall dove si incontrano mentre suonano in due gruppi diversi. Nel 1969 Peek parte per gli Stati Uniti per frequentare un college, ma capisce ben presto che la scuola non fa per lui, così l’anno seguente torna in Inghilterra e si unisce coi due amici per formare un gruppo. Si fanno prestare delle chitarre acustiche e sviluppano uno stile che ricorda gruppi di country rock come Crosby, Stills & Nash. Benché assenti dagli Stati Uniti fin dall’infanzia - addirittura Bunnel è nato in Inghilterra - nel cuore si sentono americani e così scelgono proprio America come nome per la loro band, iniziando a esibirsi nella zona di Londra. Nel 1971 pubblicano il loro primo album, intitolato semplicemente america, che esce solo in Europa ottenendo un assai tiepido riscontro. Questa prima edizione del disco non contiene A horse with no name. Bunnell la compone mentre la band si trova nello studio di casa del musicista Arthur Brown, vicino a Puddletown, nel Dorset, e inizialmente il titolo è Desert Song. Nell’inverno freddo e piovoso dell’Inghilterra Bunnel cerca di catturare la sensazione del deserto caldo e secco, ispirandosi a un dipinto di Salvador Dalí che era appeso a una parete dello studio, e attingendo anche ai suoi ricordi d’infanzia, quando con la famiglia aveva attraverso il deserto dell’Arizona e del Nuovo Messico. La Warner Bros a questo punto pensa di lanciare il gruppo anche in America, ma la ballata di Beckley I need you, che è la prima scelta, non convince molto l’etichetta come primo singolo americano. Chiedono allora alla band se ha altro materiale e spunta fuori Desert Song che viene reintitolata molto più efficacemente A horse with no name e viene registrata ai Morgan Studios di Londra.

    Pubblicata come maxi-singolo con tre canzoni nel Regno Unito, in Irlanda, Francia, Italia e Paesi Bassi alla fine del 1971, nel gennaio 1972 raggiunge il terzo posto delle classifiche inglesi, spingendo l’etichetta del gruppo a pubblicare il singolo negli Stati Uniti e a ripubblicare l’album includendo anche questa canzone. Il 25 marzo, sia il singolo che l’album raggiungono il primo posto negli Stati Uniti; la canzone rimane al primo posto per tre settimane, l’album per cinque. L’accoglienza negli Stati Uniti però non è subito entusiasta: alcune stazioni radio americane non la vogliono trasmettere, a causa di supposti riferimenti all’uso di eroina in quanto la parola cavallo è un termine gergale comune per questa droga. Inoltre la somiglianza della canzone con alcuni lavori di Neil Young ha suscitato alcune polemiche. «So che praticamente tutti, al primo ascolto, credevano che fosse Neil - ha detto Bunnell - Non mi sono mai liberato del tutto dal fatto di essere stato ispirato da lui, penso che sia nella struttura della canzone tanto quanto nel tono della sua voce». Per un bizzarro gioco del destino, è stata proprio A horse with no name a prendere il posto di Heart of Gold di Neil Young al numero 1 della classifica! Musicalmente la struttura della canzone è molto semplice, essendo composta di soli due accordi che si ripetono, peraltro (mi minore - re 6/9) molto simili fra loro, a dimostrazione che non sempre è necessario sfoggiare virtuosismi o chissà quali tecniche per comporre qualcosa capace di durare per così tanto tempo. Ancora oggi Beckley racconta: «Mi viene sempre chiesto, Qual è la tua canzone preferita? E di solito nomino sempre A horse perché la canzone stessa rappresenta l’inizio del viaggio. Il testo dice On the first part of the journey (Nella prima parte del viaggio). Lo dice in realtà nella canzone, ma è quello che è stato, è stato davvero un viaggio incredibile».


    Albachiara

    Vasco Rossi

    Autore: Rossi / Taylor

    Anno di pubblicazione: 1979

    Albachiara appare sul secondo album di Vasco Rossi, non siamo mica gli americani, uscito nel 1979 ed è senz’altro una delle canzoni più note, e più amate, del cantautore modenese che per molti anni l’ha eseguita in chiusura dei concerti. Accreditata a Vasco Rossi e al bassista Alan Taylor, scomparso nel 2011, in realtà la canzone è stata composta dal solo Rossi. Racconta il cantautore: «Taylor fu colui che mi portò a Milano e mi fece entrare nella prima casa discografica, la Lotus di Mario Rapallo. Una etichetta della Saar. Era un musicista di un gruppo inglese che era rimasto a vivere in Italia. Fu il produttore del mio primo album, arrangiato da Gaetano Curreri. Gli feci firmare la metà dei diritti d’autore di tutto l’album, in cambio della sua Martin. Una chitarra che aveva un suono fantastico e che sognavo di avere... ma non avrei mai potuto permettermi. Perciò figura come co-autore di Albachiara anche se la musica e il testo sono miei». Nella sua autobiografia La versione di Vasco, il cantautore così racconta la genesi della canzone: «Era il 1979, ero a casa a preparare gli esami dell’università. Dalla finestra vedevo sempre una ragazzina arrivare con la corriera... avrà avuto tredici-quattordici anni. Quando ne compì diciotto, e io praticamente non ero più perseguibile, glielo dissi: "Guarda che l’ho scritta per te Albachiara». La ragazza reagì in maniera imbarazzata dicendo che la ragazza di Albachiara doveva essere molto più piccola di lei. Infine scappò via dichiarandosi offesa, lasciandolo molto deluso «Non mi aveva creduto - continua Rossi - e fu così che mi venne Una canzone per te». In un’intervista Vasco Rossi disse che la musica si basa su un giro di accordi trovato dal suo amico Massimo Riva. Dopo averlo ascoltato la prima volta, tornato a casa la arrangiò adattandovi il testo che aveva già scritto. La canzone fu eseguita per la prima volta dal vivo il 9 agosto 1979, sul palco della Bussoladomani, a Viareggio, per cantare gli 8 brani concessi, a testa, dai tre artisti selezionati per la serata. Gli altri nomi erano Alberto Fortis e Marco Ferradini. Massimo Poggini, giornalista autore del libro Vasco Rossi una vita spericolata ricorda quella sera: «Io ero un giornalista alle prime armi, lui uno che veniva giù dalla montagna e non se lo filava ancora nessuno. Legammo subito. Quella sera cantò Albachiara in playback». Fa sorridere la frase non se lo filava nessuno visto che di lì a pochi anni Vaso Rossi diventerà uno dei più importanti musicisti italiani, e Albachiara sarà una delle sue canzoni più famose.

    Nel 2008 il regista Stefano Salviati si ispira alla canzone - ma in pratica solo per il titolo - per il film Albakiara, in cui recita Davide, il figlio del cantautore. Nel 2011 infine la canzone sarà riarrangiata da Celso Valli in chiave orchestrale per lo spettacolo L’altra metà del cielo alla Scala di Milano.


    Alice

    Francesco De Gregori

    Autore: Francesco De Gregori

    Anno di pubblicazione: 1973

    È il 1972. Nei negozi di dischi appare un disco attribuito a un gruppo enigmatico, Theorius Campus, che sfoggia in copertina il dipinto Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais. In realtà dietro questo nome si celano due giovani cantautori al loro esordio discografico, Antonello Venditti e Francesco De Gregori, che all’epoca hanno rispettivamente 23 e 21 anni. Le canzoni sono cantate dai due cantautori separatamente, tranne Dolce signora che bruci e In mezzo alla città, cantate dai due insieme, e non riscuote nessun successo, tranne il singolo Roma capoccia del solo Venditti. Il sodalizio artistico dura poco e i due artisti decidono di intraprendere strade separate. Nell’estate del 1973 la It pubblica il primo album di De Gregori, alice non lo sa, prodotto e co-arrangiato da Edoardo De Angelis, che si impone subito all’attenzione per l’ermetismo dei testi e la cura musicale, arrivando fino al 29° posto della Hit Parade. Visto che il singolo è uscito in estate si decide di farlo partecipare alla manifestazione Un disco per l’estate, dove si classifica però all’ultimo posto, a onta del successo che avrà poi negli anni a venire. Il testo accosta varie immagini, corrispondenti ai pensieri della Alice del titolo, una ragazza che osserva tranquilla ciò che le accade attorno. In un’intervista del 2015 lo stesso De Gregori ha raccontato «Alice nel ‘73 non c’entrava niente con quello che c’era: Paoli, De André, Endrigo, che erano i miei riferimenti, quelli che mi avevano fatto capire che le canzoni possono essere un veicolo non solo di banalità. L’immagine di Alice che guarda i gatti appartiene a Lewis Carroll (l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, ndr) e alle illustrazioni di John Tenniel: quella bambina con gli occhi sgranati era stato il primo impatto visivo quando da piccolo lessi il libro. La verità è che venivo da un periodo in cui ero attratto da tutto ciò che nell’arte non seguiva un filo logico. Mi ero innamorato degli scrittori dadaisti, Tristan Tzara, la scrittura automatica, avevo letto Joyce, lo stream of consciousness, Freud e l’interpretazione dei sogni». E prosegue: «Ero libero di fare tutti i danni che volevo. E la canzone me la sono scritta esattamente come pensavo si dovesse scrivere una canzone. Avevo già una musica su cui io cantavo un testo finto inglese, una specie di grammelot, ci misi sopra quello che avevo scritto... Quando la portai a Vincenzo Micocci, allora direttore artistico della Rca, e al mio produttore Edoardo de Angelis, piacque anche a loro». Ogni strofa si conclude con il verso ... ma tutto questo Alice non lo sa: la ragazza osserva tutti quelli che le ruotano intorno, ma in realtà rimane sempre estranea ai piccoli grandi drammi che accadono loro. Ancora De Gregori spiega: «Il Cesare perduto nella pioggia, è Cesare Pavese. Avevo letto tutto di lui, e nella biografia c’è questo episodio di quando una sera aspettò per una notte Costance Dowling, donna bellissima, ballerina che lo illuse e poi lo lasciò. Alice per me è una specie di sfinge che guarda il mondo senza nessi consequenziali. Non è nemmeno chiaro se è lei la narratrice o io che scrivo. Mentre il personaggio dello sposo ha qualcosa di sicuramente autobiografico. No, non perché volessi sposarmi, ma fuggire. Una fuga che era probabilmente dalla vita cui ero predestinato da studente universitario, fare l’insegnante come mia madre o il bibliotecario come mio padre. Ma forse fuggire anche dal mondo della musica per cui ero uno strano». Nella terza strofa si parla di un mendicante arabo gravemente ammalato che non ha soldi e nemmeno un posto per dormire. Il verso ... il mendicante arabo ha qualcosa nel cappello... era, in origine, stato scritto da De Gregori come ...il mendicante arabo ha un cancro nel cappello..."; venne però censurato dalla RAI con la seguente motivazione: «La canzone va in onda in spazi appositi e in orari anche intorno a mezzogiorno e alla gente non piace sentir parlare di cancro a quell’ora». Dal vivo comunque è sempre stata eseguita col testo originale.

    Nel corso degli anni la canzone ha avuto numerose cover; la prima, in ordine cronologico, è stata nel 1975 quella realizzata dalla Schola Cantorum, in cui militava Edoardo De Angelis che aveva a suo tempo prodotto e arrangiato il disco di De Gregori; da ricordare anche la versione incisa da Fiorella Mannoia nell’album dedicato ai cantautori, quella di Mia Martini e una versione vagamente swing di Enrico Ruggeri inserita nell’album contatti.


    All You Need is Love

    Beatles

    Autori: Lennon / McCartney

    Anno di pubblicazione: 1967

    All’inizio del 1967, la BBC iniziò a pubblicizzare un imminente evento televisivo dal vivo che avrebbe «per la prima volta in assoluto, collegato cinque continenti e portato l’uomo faccia a faccia con l’umanità, in luoghi distanti come Canberra e Cape kennedy, Mosca e Montreal, Samarcanda e Soderfors, Takamatsu e Tunisi».

    Questo ambizioso programma si sarebbe intitolato Our World (Il nostro mondo), il primo programma televisivo al mondo che si proponeva di collegare cinque continenti contemporaneamente via satellite. Diciotto paesi accettarono di fornire contributi dal vivo, e tredici paesi aggiuntivi accettarono di trasmettere l’evento. Si prevedeva un’audience di 500 milioni di spettatori, cosa che avrebbe reso questo il programma televisivo più ambizioso e storico del suo tempo. Il programma sarebbe andato in onda il 25 giugno del 1967, per 6 ore di durata, in diretta in cinque continenti (in Italia lo trasmise l’unica rete allora esistente, quella che oggi sarebbe Rai 1). In pratica il programma si proponeva di presentare le eccellenze del mondo intero, e furono invitati a contribuire artisti del calibro di Pablo Picasso, Maria Callas e Franco Zeffirelli. L’Inghilterra, organizzatrice dello spettacolo, giocò la sua briscola e annunciò che i Beatles si sarebbero esibiti dal vivo con una canzone scritta apposta per l’occasione.

    Sebbene la canzone sia stata scritta e registrata in poco tempo, in realtà già un paio di mesi prima, mentre il gruppo era in studio per completare le registrazioni di sgt. pepper, Brian Epstein, lo storico manager dei Fab Four, aveva fatto una delle sue rare visite in studio annunciando con enfasi: «Ragazzi, ho una notizia fantastica. Siete stati selezionati per rappresentare l’Inghilterra in un programma televisivo che, per la prima volta, verrà trasmesso in diretta in tutto il mondo via satellite!». La reazione dei 4 ragazzi però lo raggelò: Ringo riprese la sua partita a scacchi, George si mise ad accordare la sua chitarra, e John e Paul sembravano più interessati a finire le registrazioni. Alla fine John, piuttosto annoiato, disse qualcosa come «Ok ok, vedrò di preparare qualcosa». La cosa fu dimenticata finché tempo dopo Paul chiese a John «Come stai andando con la canzone per quel programma TV?». John chiese quanto tempo mancasse ancora: due settimane. «Oh, così presto? - disse - Allora suppongo che sarà meglio che scriva qualcosa!». Paul e John si misero al lavoro contemporaneamente su due canzoni, ma appena lo stesso Paul sentì l’abbozzo della canzone di John apparve subito chiaro che quella sarebbe stata la canzone da presentare allo show. All you need is Love, infatti, sebbene accreditata come d’uso alla coppia Lennon/McCartney, è in realtà una creazione di John Lennon. Composta tra il 7 e il 14 giugno, quindi proprio a ridosso della trasmissione televisiva, la canzone è per certi versi una continuazione dell’idea che Lennon aveva cercato di esprimere nella sua canzone del 1965 The Word. John era affascinato dal modo in cui gli slogan influivano sulle masse e cercava di catturare l’essenza di canzoni come We Shall Overcome. Una volta ha dichiarato: «Mi piacciono gli slogan, mi piace la pubblicità, amo la televisione». In un’intervista del 1971 sulla sua canzone Power To The People, gli fu chiesto se quella canzone fosse propaganda. Disse: «Certo, così come lo fu All You Need Is Love. Sono un artista rivoluzionario, la mia arte è dedicata al cambiamento». «Era una canzone molto ispirata e volevano veramente dare un messaggio al mondo - ha detto Brian Epstein - Il bello della canzone è che non può essere mal interpretata. È un messaggio chiaro che dice che l’amore è tutto». Sebbene appaia semplice e orecchiabile, in realtà la struttura di All you need is love è molto particolare: il ritornello è su una sola nota e la canzone è in un raro ritmo di 7/4. I Beatles iniziarono a registrare la base per la canzone agli Olympic Sound Studios di Londra il 14 giugno 1967. I produttori di Our World erano inizialmente scontenti dell’uso di una base musicale, ma George Martin, il produttore della band, rispose: «Non possiamo andare davanti a 350 milioni di persone senza niente di pronto!».

    In studio il gruppo si divertì a sperimentare: John Lennon suonò il clavicembalo, Paul McCartney il contrabbasso e George Harrison il violino, il solo Ringo Starr suonò il suo strumento abituale, la batteria. Furono fatte 33 registrazioni della canzone, e alla fine venne scelta la n. 10. Nei giorni seguenti furono fatte le sovraincisioni tra cui voci, pianoforte (suonato da Martin), banjo, chitarra e le parti dell’orchestra. La canzone comprende citazioni esplicite di diversi altri brani: inizia con un estratto de La Marsigliese, l’inno nazionale francese, e poi l’Invenzione a due parti n. 8 in Fa maggiore, BWV 779 di J.S. Bach, la melodia tradizionale inglese GreensleevesIn the Mood, fino al finale in cui Lennon cita Yesterday, canzone composta da McCartney, che subito dopo ricambia il favore cantando She loves you, composta invece da Lennon. Il 25 giugno, la trasmissione dal vivo si trasferì agli studi di Abbey Road alle 20:54, circa 40 secondi prima del previsto. I Beatles (ad eccezione di Starr, dietro la sua batteria) erano seduti su alti sgabelli, accompagnati da un’orchestra di tredici elementi. La band era circondata da amici e conoscenti seduti sul pavimento, che cantavano insieme al ritornello. Tra gli ospiti c’erano Mick Jagger, Eric Clapton, Marianne Faithfull, Keith Richards, Keith Moon, Graham Nash, Patti Boyd e Jane Asher (queste ultime moglie e fidanzata di Harrison e McCartney). L’ambientazione dello studio, la coreografia, l’abbigliamento stesso dei partecipanti erano stati preparati minuziosamente per trasmettere al mondo un messaggio di pace, di speranza, di amore, di anticonformismo e di protesta. I Beatles, l’orchestra e gli ospiti hanno sovrainciso sulla traccia ritmica pre-registrata. Oltre alla voce principale, di Lennon, e di accompagnamento e all’orchestra, gli elementi registrati dal vivo erano la parte di basso di McCartney, l’assolo di chitarra di Harrison e la batteria di Starr. Il giorno prima della trasmissione il gruppo aveva deciso che All you need is love sarebbe stato il loro prossimo singolo, e che non sarebbe stato incluso in nessun album (in realtà fu incluso nella versione statunitense dell’LP del 1967 magical mystery tour). Pubblicato nel Regno Unito il 7 luglio 1967, è entrato nella classifica nazionale dei singoli direttamente al numero 2 prima di restare in cima per tre settimane; arrivò al numero 1 anche in Olanda, Norvegia, Germania, Austria, Francia, Canada, Irlanda e Svezia. In Italia il disco uscì il 4 luglio 1967, ma non andò oltre il nono posto della Hit Parade, restando però in classifica per ben otto settimane. In un anno in cui sembrava che tutto il mondo stesse aspettando qualcosa di nuovo, e quando il potere politico e sociale della musica era fuori dubbio, All you need is love divenne un inno per i pacifisti e per il movimento dei figli dei fiori. Oggi quegli anni appartengono alla storia, e forse certi loro aspetti possono fare sorridere i più giovani, ma è bello sapere che c’è stato un momento in cui si era convinti che l’amore avrebbe potuto cambiare le cose. Un ultimo dato: nella canzone la parola Love (amore) è cantata 111 volte.


    (You make me feel like) A natural woman

    Aretha Franklin

    Autori: Goffin / King / Wexler

    Anno di pubblicazione: 1967

    C’è stato un periodo, tra il 1968 e il 1975, in cui il prestigioso premio Grammy veniva chiamato "The Aretha Award", ossia Il premio Aretha, poiché Aretha Franklin lo vinse per 8 anni consecutivi, oltre ad altre 13 volte. Non è questa la sede per ripercorrere la lunga e prestigiosa carriera di Lady Soul, vera icona della musica soul e rhythm and blues, cantautrice, pianista e anche attrice - come non ricordarla in The Blues Brothers? - che ha attraversato da protagonista 50 anni di storia della musica. Qui si parla di canzoni, e di canzoni belle e famose Aretha ne ha incise parecchie.

    Il 1967, per Aretha Louise Franklin, è un anno importante, un anno di svolta. Dalla Columbia, che non le permetteva di esprimere tutto il suo potenziale di cantante di soul e di rhythm and blues, passa all’Atlantic dove, grazie alla collaborazione coi produttori Jerry Wexler e Arif Mardin, trova la sua strada diventando una figura di riferimento e motivo di orgoglio per le minoranze di colore americane. (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, una perfetta e splendida canzone dalla profonda anima soul, in realtà è stata scritta da una coppia di bianchi, Carole King e il marito Gerry Goffin, che insieme hanno firmato tante canzoni di successo contribuendo a dare forma al suono del cosiddetto Brill Building, il famoso edificio sulla 49 strada di New York, dove furono scritti e registrati molti successi degli anni ‘60. Goffin è un abile paroliere, con una scrittura molto emotiva, e la storia racconta che un giorno Jerry Wexler, che sta passando in auto, lo vede uscire da un edificio e gli grida dal finestrino «Perché non scrivi una canzone chiamata Natural Woman (donna normale)?». Goffin va a casa dalla moglie Carole e insieme capiscono che è un titolo stimolante e anche importante per una canzone, tanto che per ringraziare Wexler lo accreditano fra gli autori della canzone. Molti anni dopo Wexler ha dichiarato: «Non è incredibile quello che quei ragazzi mi hanno dato? Gli assegni continuano ad arrivare, e sono davvero contento. Non sono stato proprio come un terzo scrittore, ma ho dato il titolo e l’ispirazione per ciò che sarebbe diventata una grande canzone». Alla registrazione partecipano alcuni dei migliori musicisti della scena soul dell’epoca e anche due sorelle di Aretha, Erma e Carolyn. Il singolo raggiunge l’ottava posizione nella classifica Hot 100, e diventa ben presto uno standard della musica internazionale, e banco di prova per innumerevoli cantanti esordienti desiderose di mettere in mostra le proprie doti vocali, ma l’interpretazione di Lady Soul resta ineguagliabile e ineguagliata. L’autrice della canzone, Carole King, ne inciderà una versione più scarna e intimista che sarà inserita nel suo album tapestry del 1971, documento storico della musica cantautorale statunitense, nonché uno dei dischi più venduti negli USA (10 milioni di copie) e nel resto del mondo (22 milioni di copie). Della canzone esistono tantissime cover, di grande successo quelle di Céline Dion e Mary J. Blige, ma ricordiamo anche le versioni di Whitney Houston, Bonnie Tyler, Adele, Giorgia e una versione al maschile di Rod Stewart, che cambiò il titolo in (You Make Me Feel Like) A Natural Man. Quando Aretha Franklin ha eseguito questa canzone in

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