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Lezioni private - La chitarra: Guida all'ascolto del repertorio da concerto
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E-book442 pagine3 ore

Lezioni private - La chitarra: Guida all'ascolto del repertorio da concerto

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Info su questo ebook

Angelo Gilardino (Vercelli, 1941), compositore, docente nei Conservatori di Stato, direttore artistico della Fondazione Segovia di Linares (1997-2005), è uno dei massimi esponenti mondiali della chitarra. In questo volume racconta con slancio narrativo la personalità dei grandi compositori e offre al lettore una guida all’ascolto delle loro opere più importanti ed eseguite nelle sale da concerto. I capolavori che in quasi tre secoli hanno formato l’identità della chitarra. Una storia appassionante, ricca di notizie, aneddoti, curiosità, per scoprire tutti i segreti delle sei corde.

Nella playlist online una selezione imperdibile delle pagine più belle per chitarra, eseguite dal leggendario virtuoso spagnolo Andrés Segovia.
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2022
ISBN9788863953589
Lezioni private - La chitarra: Guida all'ascolto del repertorio da concerto

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    Anteprima del libro

    Lezioni private - La chitarra - Angelo Gilardino

    DIONISIO AGUADO

    (Madrid, 1784 – 1849)

    Dionisio Aguado, madrileno, fu un virtuoso della chitarra con una fortissima vocazione didattica: la sua vita fu in buona parte spesa nella redazione delle varie edizioni del suo Metodo, che furono pubblicate in Spagna e in Francia nel trentennio tra il 1819 e l’anno della sua morte. Era un borghese benestante che viveva della rendita procuratagli dal fondo rurale di famiglia: non si trattava di un orticello, e nemmeno di un podere, ma dell’intero pueblo di Fuenllabrada, vicino a Madrid. Per quanto egli esercitasse cristiana indulgenza nei confronti dei contadini, che talvolta non potevano pagargli le prebende, e nonostante i taglieggiamenti imposti alle sue entrate dalle tasse francesi negli anni dell’occupazione, se la passò piuttosto bene, tra Madrid e Parigi. Nella capitale francese, infatti, egli soggiornò dal 1826 al 1838, risiedendo all’Hotel Favart. Nello stesso albergo andò a vivere, nel 1828, di ritorno dalla Russia, anche Fernando Sor: ne scaturì un’amicizia suggellata da alcuni brani per due chitarre del maestro catalano e da una ardimentosa versione aguadiana del Gran Solo op. 14 di Sor.

    Dionisio Aguado come appare nel suo celebre Metodo pubblicato a Madrid nel 1843. Il chitarrista madrileno, grande amico di Fernando Sor, aveva inventato un sostegno su cui appoggiare la chitarra denominato tripodison.

    Aguado era un uomo di grande mitezza e bontà. Figlio di un funzionario di alto grado, fu istruito da precettori secondo i canoni della sua classe sociale: sapeva di latino e scriveva con bellissima calligrafia, e si dedicò alla chitarra fin dall’infanzia, avendo quale maestro il controverso Padre Basilio, ricordato da Boccherini nel sottotitolo del suo Fandango per quartetto d’archi e chitarra e destinatario degli strali di Fernando Sor, che lo considerava un campione d’ignoranza.

    Le composizioni che egli scrisse al di fuori della sua opera didattica appaiono nei programmi dei concerti e nei dischi di alcuni chitarristi soltanto da una ventina d’anni a questa parte: in un certo senso, si può dire che il didatta ha oscurato il compositore. Accanto alla pregevolissima op. 2, Aguado non accumulò opere di egual valore, e scrisse brani ricreativi piuttosto modesti. I suoi talenti di compositore, li riversò negli Studi del Metodo. Non si deve tuttavia dimenticare la sua versione del famoso Fandango (l’op. 16 nel catalogo aguadiano).

    Il suo capolavoro sono i Trois/RONDO BRILLANTS/pour Guitare seule/ COMPOSÉS ET DEDIÉS/ à son Ami/ F. DE FOSSA/Chef de Bataillon au 23me Régiment de Lione/PAR/D. DIONISIO AGUADO/Op. 2: essi appaiono, nell’opera di Aguado, come un picco isolato nel bel mezzo di una pianura. Furono pubblicati a Parigi, da Meissonnier, nel 1826 o addirittura nel 1825, cioè ancor prima che il compositore giungesse a Parigi. Si tratta di tre dittici, con introduzioni lente e Rondò davvero brillanti, come il loro titolo promette: tanto brillanti che anche i virtuosi più spericolati di oggi stentano a eseguirli con lo stacco di tempo metronomico indicato da Aguado, e preferiscono tempi più comodi. L’indole del compositore – tutt’altro che esibizionistica – fa escludere che egli giocasse al rialzo: effettivamente, doveva essere capace di eseguire i Rondò nei tempi da lui fissati, e la brillantezza fu uno dei pregi della sua arte, riconosciuta, sia pure a denti stretti, anche dal poco generoso Fernando Sor. Si tratta di una brillantezza non fatua, perché la musica di Aguado è, in queste tre composizioni, ricca di idee e formalmente perfetta, e implica che la virtuosità dell’esecutore debba essere assoggettata a fini espressivi.

    Il primo dittico inizia con una melanconica, cullante Siciliana in Mi minore (Adagio), alla quale si contrappone, con slancio ardimentoso, una Polonaise in Mi maggiore. Il secondo dittico inizia con un lirico Andante in La minore, il quale sfocia in un Allegro moderato, sempre in La minore, forse la più bella pagina scritta da Aguado: un Rondò all’antica, con ritornello e strofe, pervaso da un intenso afflato poetico, che fa pensare al giovane Beethoven. Peccato che Aguado non abbia seguitato la stessa via: di quel passo, il più grande compositore-chitarrista dell’Ottocento non sarebbe stato altri che lui. Il terzo dittico, con introduzione in Re minore (Andante) e Allegro in Re maggiore, sembra meno ispirato, ma non è certo meno piacevole. Negli esercizi e negli Studi del suo Metodo si trovano pagine scritte con somma eleganza e con poesia, come si può constatare nelle registrazioni discografiche del chitarrista Lorenzo Micheli, il maggior interprete di Aguado.

    ISAAC ALBÉNIZ

    (Camprodón, 1860 – Cambo-les-Bains, 1909)

    Chi ascolta oggi il ben noto e caratteristico pezzo intitolato Asturias di Isaac Albéniz nella grande maggioranza dei casi sta ascoltando un chitarrista, e forse si stupirebbe nell’apprendere che quel fascinoso brano non fu composto per lo strumento a sei corde, ma per pianoforte, strumento del quale Albéniz era uno straordinario virtuoso. Nato il 29 maggio 1860 a Camprodón, in Catalogna, e morto il 18 maggio 1909 a Cambo-les-Bains, nei Pirenei, Albéniz fu essenzialmente un pianista-compositore che diede il meglio di sé nelle composizioni per il suo strumento, anche se tentò il genere operistico. Non scrisse nemmeno una nota per chitarra, e tuttavia parecchie delle sue opere minori per pianoforte ricorrono nei programmi dei concerti e dei dischi di chitarra molto più frequentemente di quanto non avvenga in campo pianistico.

    Il compositore e pianista catalano Isaac Albéniz non scrisse mai una pagina per chitarra. Tuttavia alcune delle sue pagine minori, destinate al pianoforte, come Asturias e Granada, sono oggi famose nella loro trascrizione chitarristica.

    Il fatto è che spesso, componendo i suoi pezzi per pianoforte, il maestro catalano più o meno consapevolmente evocava il suono della chitarra, imitandone i tipici modelli di scrittura: ad esempio, in Asturias, il pedale ribattuto che risponde ostinatamente in levare a ciascuna nota della voce inferiore (un modello che troviamo pari pari in una Variazione della Ciaccona di Bach, scritta un secolo e mezzo prima!).

    Quest’evidenza, che nessuno ha mai contestato, avrebbe dovuto costituire una giustificazione più che sufficiente per le trascrizioni chitarristiche, e non ci sarebbe stato alcun bisogno di aggiungere altre motivazioni. I chitarristi invece, non paghi di questa credenziale, hanno travisato un’affermazione di Albéniz, oltretutto non certa, con la quale il compositore avrebbe dichiarato di preferire i suoi pezzi nella versione chitarristica piuttosto che nell’originale per pianoforte.

    Bisogna ridimensionare questa esagerazione. L’equivoco ebbe origine in una testimonianza lasciata da Apeles Mestres (Barcellona, 1854-1936), scrittore, caricaturista e compositore. Egli dichiarò:

    «… Ricordo di aver scritto in un’altra occasione che quando Albéniz ascoltò la sua famosa serenata, arrangiata per chitarra dallo stesso Tárrega, si sentì tanto emozionato, tanto impressionato, che non poté far a meno di esclamare: questo è ciò che io avevo concepito».

    Ognuno vede la precarietà di questa argomentazione: Mestres scriveva in modo bonario per elogiare il suo amico Francisco Tárrega e comunque, alla fine, egli testimonia che Albéniz si riconosceva perfettamente anche nella trascrizione chitarristica, ma non che la preferiva all’originale! Infatti, sebbene il compositore tendesse a evocare atmosfere sonore proprie della chitarra e ne imitasse talvolta la scrittura, quello di cui si serviva con assoluta padronanza era sempre e comunque un idioma squisitamente pianistico.

    Albéniz fu amico di Tárrega, e questi fu il primo a scorgere, in alcuni suoi pezzi evocativi, uno spiraglio favorevole alla chitarra, trascrivendoli: Granada, Sevilla, Cádiz, Pavana-Capricho. Successivamente, Miguel Llobet, anch’egli amico stimatissimo di Albéniz, riprese e modificò le trascrizioni tarreghiane di Sevilla e di Cádiz, e ne aggiunse altre, splendidamente realizzate: Torre Bermeja, Oriental e Córdoba. È curioso il fatto che i due grandi chitarristi che ebbero contatti personali con Albéniz non si siano occupati della più apertamente chitarristica tra le sue pagine, quella Asturias che oggi tutti conoscono come quel famoso pezzo per chitarra. Non è stato ancora definitivamente appurato chi abbia per primo trascritto il popolare brano, ma sembra che si sia trattato di un dilettante, allievo e amico di Tárrega, il medico Severino García Fortea. La fama del brano venne comunque creata dalle esecuzioni e dalle registrazioni di Andrés Segovia, che realizzò una propria trascrizione, e che riadattò alla sua estetica chitarristica le trascrizioni di Tárrega e di Llobet, aggiungendo, di suo, le trascrizioni di altre pagine di Albéniz: Mallorca, Tango e Zambra Granadina.

    Il profluvio di trascrizioni albeniziane che fece seguito ai lavori dei tre capostipiti è senza fine, ma sostanzialmente non è accaduto nulla di nuovo fino al 1998, anno in cui il chitarrista statunitense Stanley Yates ha dato alle stampe un volume contenente tutta la musica pianistica di Albéniz ragionevolmente eseguibile con la chitarra: ben 26 pezzi, compresi anche tutti i lavori già trascritti in precedenza. Yates ha fatto piazza pulita delle trascrizioni dei suoi predecessori, adottando criteri nuovi e uniformi, risalendo alle fonti e affrontando con raziocinio, ma non senza immaginazione, tutte le problematiche connesse alla relazione pianoforte-chitarra.

    I titoli dei brani di Albéniz – specialmente quelli trascritti per chitarra – sono molto spesso dei toponimi. Come tutti i concertisti, anch’egli era un grande viaggiatore e amava non tanto descrivere con brani a programma i luoghi visitati, quanto, piuttosto, evocarli poeticamente mentre ne era lontano; ad esempio, il suo capolavoro – il ciclo pianistico di dodici brani intitolato Iberia, quasi tutto dedicato a città e quartieri spagnoli – fu scritto in Francia, e una delle sue precedenti raccolte si intitola Recuerdos de viaje.

    Asturias è indubbiamente il brano più celebre, ma il suo titolo è sommamente inadeguato al carattere del pezzo, che non ha nulla di asturiano, ed è invece una sorta di Granadina, con un carattere marcatamente andaluso: il titolo Asturias gli calza come calzerebbe il titolo Tirolese a una Tarantella. Per la verità, il titolo originariamente attribuito alla composizione da Albéniz era Prélude, nella collezione Chants d’Espagne op. 232; il titolo Asturias Leyenda, probabilmente inventato dall’editore, apparve in un’edizione postuma, dove il brano fu incorporato alla Suite Española op. 47. Strutturato in forma ternaria (A-B-A, come quasi tutti i pezzi dell’autore trascritti per chitarra) è, nella sezione primaria, una pioggia di semicrome con pedale che creano un clima di magia e di mistero fatto di pura essenza sonora, senza linee melodiche; su questo tappeto di suoni, si stagliano alcuni gagliardi accordi strappati che – occorre ammetterlo – trovano nella realizzazione chitarristica un effetto più convincente di quello che risulta nell’esecuzione dei pianisti. Il canto di una copla notturna domina invece la sezione centrale, appena commentata da poche armonie.

    Il primo ad accorgersi della affinità con la chitarra dei brani di Albéniz fu l’amico Francisco Tárrega (1852-1909), uno dei padri della chitarra moderna e compositore anch’egli, che trascrisse Granada, Sevilla, Cadiz e Pavana-Capricho.

    Giustamente famosi sono anche i brani intitolati – del tutto propriamente – con i nomi delle città andaluse: Cádiz, Córdoba, Granada, Sevilla, e quelli di ispirazione marinaresca, come Mallorca, Malagueña, Rumores de la caleta, mentre un favore quasi pari a quello riservato ad Asturias è stato decretato dai chitarristi alla colorita evocazione intitolata Torre Bermeja. Albéniz non fa generalmente uso di motivi popolari, ma forgia le proprie idee musicali adoperando come calchi i ritmi di danza locali – ad esempio il ritmo di Sevillanas in Sevilla – e si affida alla bellezza delle melodie, che sa inventare con romantico trasporto. Certo, nel trasferire questi brani dal pianoforte alla chitarra è stato inevitabile – non importa quanto abile sia stato il trascrittore – comprimere la loro estensione e sfoltire il tessuto armonico, ma il canto della Barcarola intitolata Mallorca o della Serenata intitolata Granada e lo scalpiccio della danza in Rumores de la caleta, lungi dallo snaturarsi nel suono chitarristico, sembrano, rispetto alla più forte e immediata evidenza dell’originale pianistico, allontanarsi e rimpicciolirsi in un orizzonte remoto: diventano davvero evocaciones. Non per nulla, nella sua registrazione di Rumores de la caleta, Arturo Benedetti Michelangeli mirava a sublimare il pianoforte fino a farlo assomigliare a una chitarra.

    ANONIMO

    Narciso Yepes (Lorca, 1927 – Murcia, 1997)

    Non è certo per il suo modestissimo valore musicale, ma solo per fornire qualche informazione sulla sua vera storia, che mi occupo di uno dei più popolari brani per chitarra di tutti i tempi, noto tra i chitarristi italiani come Giochi Proibiti, e comunemente attribuito a Narciso Yepes (Lorca, 14 novembre 1927 – Murcia, 3 maggio 1997), il concertista spagnolo che diede un contributo determinante alla fama universale del pezzo. Nel 1952, il regista francese René Clément realizzò un film raccontando la storia dolce e tristissima di due bimbi (impersonati da Brigitte Fossey nei panni di Paulette e da Georges Poujouly in quelli di Michel) travolti dalla catastrofe della guerra.

    Si deve al virtuoso spagnolo Narciso Yepes (1927-1997) il recupero e la valorizzazione della pagina più popolare per chitarra: Giochi Proibiti, che egli inserì nella colonna sonora dell’omonimo film del regista francese René Clément.

    Egli volle una colonna sonora discreta e melanconica – nulla di più appropriato, dunque, della chitarra – e la affidò a Yepes. Questi, molto saggiamente, non si improvvisò compositore, e fece ricorso a piccoli brani già esistenti: una versione abbreviata de El testament d’Amelia di Llobet, un Minuetto di Jean Philippe Rameau, una Sarabande e una Bourrée di Robert de Visée e un brano per chitarra che circolava da decenni in Spagna sotto il nome di Romance Anónimo.

    Yepes non si spacciò mai come autore del brano e nella pubblicazione specificò che lo aveva arrangiato, non composto.

    Da dove veniva, quella melodia in Mi minore accompagnata da uno svelto arpeggio in terzine? Per la verità, non sappiamo ancora con certezza assoluta chi l’abbia inventata. Procedendo a ritroso, la troviamo in una versione quasi identica a quella di Yepes, e intitolata Romance de amor, pubblicata nel 1940 dal chitarrista Vicente Gomez (Madrid, 1911 – Los Angeles, 2001), che la registrò l’anno seguente nella colonna sonora del film hollywoodiano Sangue e Arena, un polpettone melodrammatico diretto da Rouben Mamoulian e tratto da un romanzo di Blasco Ibanez, con Rita Hayworth e Tyrone Power.

    Nemmeno quella versione era una novità: nel 1931, Daniel Fortea (1882-1953), allievo di Tárrega e creatore della Biblioteca Fortea, aveva pubblicato il pezzo con il titolo Romance Anónimo, il che ovviamente esclude che volesse attribuirsene la paternità. Lo stesso titolo appare in una versione senza data attribuita addirittura a Miguel Llobet.

    Le ricerche svolte da Francisco Herrera risalgono fino a un’edizione del brano pubblicata nel 1919 in un’antologia argentina: l’autore in questione è tale Antonio Rubira, chitarrista spagnolo vissuto temporaneamente in Argentina, che scrisse il pezzo molto tempo prima – secondo Matanya Ophee intorno al 1900 – con il titolo semplicissimo di Estudio.

    Supposto che il Carneade Rubira sia effettivamente l’autore del pezzo, egli certo non immaginava che, mezzo secolo più tardi, il suo Estudio sarebbe diventato croce e delizia di tutti i chitarristi dilettanti del pianeta. La sua paternità della piccola composizione si dissolse nelle varie edizioni successive – non sappiamo perché – cedendo il passo ai nomi dei vari arrangiatori, e nel 1952 il poetico titolo del film, Giochi Proibiti (Jeux Interdits, Forbidden Games, ecc.), fu imposto a furor di popolo anche a quello che era solo uno dei brani della colonna sonora: con la sua intonazione enigmatica, quel titolo avrebbe pesato, sulle fortune del pezzetto, non meno della musica.

    BORIS ASAFIEV

    (San Pietroburgo, 1884 – Mosca, 1949)

    Nato a San Pietroburgo e morto a Mosca, Boris Asafiev fu una delle figure più importanti della vita musicale sovietica. Compositore acclamato di balletti e di opere, fu anche il teorico e il critico più autorevole nel suo paese. In Unione Sovietica, come prima in Russia, non esisteva una sola chitarra, ne esistevano due: quella a sette corde – strumento nazionale adoperato nella musica popolare ma non privo di una letteratura colta – e quella europea a sei corde, portata dai virtuosi italiani e spagnoli di passaggio. È probabilmente alla chitarra russa che si riferisce Lev Tolstoj in Guerra e pace, quando racconta dello zio di Nataša che intrattiene gli ospiti in salotto suonando la chitarra. Matanya Ophee definisce «pietra angolare della rinascita della chitarra a sei corde in Russia» l’articolo con il quale, nella Krasnaia Gazeta del 19 marzo 1926, Boris Asafiev – onnipotente leader della critica musicale – consacrava la nuova arte di Andrés Segovia, allora in Russia per la prima volta. La risonanza conferita da Asafiev a quell’evento dovette essere così forte che Segovia si sentì stimolato, e colse l’occasione pubblicando a sua volta, su una rivista musicale, un articolo nel quale rivolgeva un appello ai compositori sovietici, invitandoli a scrivere per chitarra: e poi ci si domanda che cosa mai lo distinguesse dai suoi colleghi…

    Nel 1939 il compositore russo Boris Asafiev (1884-1949) scrisse il suo Concerto per chitarra e orchestra. Nello stesso anno furono composti anche il Concierto de Aranjuez di Rodrigo e il Concerto in Re di Castelnuovo-Tedesco.

    La febbre chitarristica di Asafiev sarebbe salita improvvisamente tredici anni dopo: se le date che appaiono nei manoscritti – ritrovati e pubblicati da Matanya Ophee – riflettono la realtà, nel settembre del 1939, in soli quattro giorni, Asafiev avrebbe composto tutta la sua musica per chitarra, incluso il Concerto, con la sola esclusione delle Romanze, scritte l’anno seguente. Segovia, che suonò per l’ultima volta in Unione Sovietica nel 1936, poco prima di rientrare in Spagna per fuggirne di nuovo all’inizio della guerra civile, non vide mai la musica per chitarra di Asafiev: si può supporre che i due musicisti fossero divisi non solo dalla distanza geografica, ma anche da quella politica, ma io credo che, molto più banalmente, Asafiev non avesse il nuovo indirizzo di Segovia; diversamente, gli avrebbe inviato la musica e probabilmente Segovia l’avrebbe suonata, anche se l’autore era comunista.

    I 12 Preludes for Guitar di Asafiev sono bellissimi: freschi, originali, con una scrittura chitarristica ariosa e risonante, aprono una porta su quel mondo musicale – quello, per intenderci, di Prokofiev e di Shostakovic – che la chitarra purtroppo ha soltanto intravisto. Non si può credere che Asafiev sia stato capace di buttare giù dodici pezzi come quelli in un solo giorno: forse, nello stesso giorno li ha copiati e ha apposto la data della copiatura e non quella della composizione, ma si tratta di una minuta, e l’ipotesi che li abbia davvero scritti tutti da mattina a sera prende corpo in modo inquietante. Quanto al Concerto for Guitar and Orchestra, è una piccola perla: una parte concertante fitta ma non infatuata del virtuosismo fine a sé stesso corre da un capo all’altro del lavoro reggendosi a una delicatissima orchestrazione: archi, timpani e un clarinetto. Asafiev, che tanto si curava dell’opera altrui, dimostrò nei confronti della propria una imperdonabile negligenza: la partitura del Concerto ci è giunta attraverso poco raccomandabili manoscritti redatti da chitarristi, che hanno fatto scempio delle minute lasciate dall’autore. Ne è venuto fuori un lavoro deforme, per non dire incomprensibile. Restaurare il pezzo e riportarlo a quella che ragionevolmente si può supporre fosse stata la sua forma originaria – tutt’altro che pasticciata – è stato un lavoro non facile né breve, e se ne è fatto carico, nel 1999, l’autore di questo libro.

    Il primo tempo del Concerto è un saggio di elegante neoclassicismo musicale. Scritto nella tonalità di Sol maggiore – il che fa pensare che l’autore volesse renderlo compatibile anche con la chitarra russa a sette corde – procede sereno e spedito nei suoi enunciati tematici, nel suo scolastico ma piacevolissimo sviluppo e nelle sue parche decorazioni virtuosistiche. Lo arricchisce una pensierosa cadenza, che porta sbrigativamente alla conclusione. Il secondo e il terzo movimento del Concerto sono saldati dall’unità tematica che li accomuna. L’Andante è infatti intitolato Theme With Variations and Finale After Tchaikowsky. La canzone che costituisce il tema in Re minore non è stata finora identificata: forse non è del grande compositore, ma di un altro autore. È dolce e triste come una Ninna-nanna, ed è affidata alla chitarra, che la esegue in perfetta solitudine, come le successive due Variazioni; senza interruzione, sopraggiunge il Finale (Allegro non troppo), il quale non è altro che una terza Variazione amplificata dello stesso tema, con il rientro dell’orchestra. Il carattere di questo epilogo è marziale, pomposo, ma anche triste. Non è possibile non sottolineare il fatto che, come il Concierto de Aranjuez e il Concerto in Re di Castelnuovo-Tedesco, anche questo di Asafiev fu scritto nel 1939: un anno benedetto per la chitarra!

    VICENTE ASENCIO

    (Valencia, 1908 – 1979)

    L’onda alzata dai fondatori della scuola nazionale spagnola, Albéniz e Granados, oltre a raggiungere il suo punto più alto nell’opera di Manuel de Falla, coprì anche gran parte del Novecento, e molti compositori iberici echeggiarono nelle loro opere – più o meno ispirate e originali – le poetiche dei capiscuola. Tra questi epigoni, uno dei più dotati e sinceri fu il valenciano Vicente Asencio. Pianista di vaglia formatosi alla scuola barcellonese di Frank Marshall (quindi, allievo indiretto di Granados), egli svoltò ben presto verso la composizione e, tra gli strumenti ai quali rivolse i suoi interessi, la chitarra occupò un ruolo di primissimo piano. In questo suo orientamento, gli fu di stimolo il suo rapporto didattico con il giovane Narciso Yepes, che gli richiese lezioni di interpretazione musicale, nonostante il fatto che Asencio non fosse chitarrista. Fu Asencio a presentare Yepes al grande direttore d’orchestra Ataulfo Argenta, che arruolò il novizio come interprete del Concierto de Aranjuez, lanciandolo così verso la fama. Asencio compose quattro Suites per chitarra: Suite de homenajes, Collectici Intim, Suite Valenciana, Suite Mística.

    Nella Suite de homenajes, Asencio evoca le figure di Domenico Scarlatti, con una briosa Sonatina, Manuel de Falla, con una dolente Elegia, e Federico García Lorca, con un ardente Tango de la casada infiel. Si rivela, in questo trittico, un autore sanguigno, il cui carattere si è depurato nella frequentazione assidua e devota dei classici.

    Il Collectici Intim, formato da cinque pezzi è un diario delle emozioni: La Serenidad, El Alborozo, La Calma, La Alegria, La Prisa; si tratta di stati d’animo riflessi in momenti musicali intensissimi, nutriti dall’immaginazione e controllati dalla disciplina.

    La Suite Valenciana (Preludi, Cançoneta, Dansa) è uno sgargiante, entusiastico omaggio alla terra natia del compositore, concepito in stile rapsodico e animato da vivaci contrasti. La Suite Mística è una severa e commossa meditazione sui temi della Settimana Santa (Dipsô, Getsemaní, Pentecostés) e, insieme, un omaggio alla fiorita vecchiaia di Andrés Segovia, che incluse il lavoro nella sua ultima registrazione discografica, suggerendone anche il titolo.

    SALVADOR BACARISSE

    (Madrid, 1898 – Parigi, 1963)

    Il compositore madrileno Salvador Bacarisse fu uno dei membri del Grupo de los Ocho, costituitosi in Spagna sul modello del gruppo francese Les Six. Nonostante il suo schieramento in campo modernista, Bacarisse, che visse come esule a Parigi, persegue nella sua musica un ideale di estrema semplicità.

    L’esempio più lampante di questa sua deliberata – si direbbe persino ostentata – ricerca di innocenza musicale è il Concertino para guitarra y orquesta en La menor op. 72.

    Il compositore madrileno Salvador Bacarisse (1898-1963) fece parte del Grupo de los Ocho, formato da giovani musicisti spagnoli. Ha composto il Concertino per chitarra e orchestra in La minore in quattro movimenti.

    Nei suoi quattro movimenti, infatti, l’autore propone francescane melodie e armonizzazioni elementari, mescolando la sua simulazione di candore e di ingenuità con le raffinatezze di un’orchestrazione colorita e brillante e con un ardito trattamento virtuosistico della chitarra. Il Concertino è stato registrato da Narciso Yepes.

    JOHANN SEBASTIAN BACH

    (Eisenach, 1685 – Lipsia, 1750)

    Johann Sebastian Bach non scrisse nulla per chitarra; non sappiamo nemmeno se ebbe mai occasione di ascoltare un chitarrista (all’epoca sua la chitarra era uno strumento a cinque corde doppie). Tuttavia, parecchie sue composizioni fanno parte del repertorio corrente di moltissimi chitarristi.

    Essi incominciarono a occuparsi della musica di Bach nella seconda metà dell’Ottocento, e uno dei suoi primi trascrittori fu Francisco Tárrega. Questi trascrisse nel 1905 la Fuga dalla Sonata n. 1 per violino solo (BWV 1001), trasportandola in La minore: fu l’avvio di un movimento che portò a una sterminata fioritura di trascrizioni. I chitarristi hanno sviluppato un vero e proprio culto di Bach, manifestatosi non soltanto nella trascrizione e nell’interpretazione, ma anche nell’esegesi bachiana, con la pubblicazione di alcuni pregevoli studi.

    Una sorta di primogenitura sembra intitolarli nel diritto di eseguire le composizioni che Bach scrisse per liuto.

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