Processo al Solfeggio
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Anteprima del libro
Processo al Solfeggio - Carlo Delfrati
Note
INTRODUZIONE
Croce e delizia di ogni bambino o giovane o adulto che si affaccia allo studio serio della musica, il solfeggio è la prima esperienza che tradizionalmente si vede proporre; è la prima tappa del percorso che lo aspetta, quale che sia il traguardo che si è dato, lontano o vicino, da professionista o da semplice amatore. Una tappa obbligata, si direbbe, piaccia o non piaccia. Almeno nella stragrande maggioranza dei casi, che il principiante studi in Conservatorio, o nella scuola musicale del paese, o nello studio privato del maestro.
Un sondaggio sui neofiti alle prese con i primi segreti del pentagramma rivelerebbe che le croci sono più numerose delle delizie, l’antipatia per il solfeggio più frequente del piacere. Lo ricordava già un secolo fa uno del mestiere, il musicologo e didatta Domenico Alaleona, quando riferendosi al solfeggio auspicava che fossero banditi tutti i falsi metodi scolastici che troviamo oggi più profondamente radicati e che inducono lo scolaro a fuggire ed odiare la musica
[D. ALALEONA 1921, p. 61]. Il suo accorato auspicio resta sempre valido. Anche perché i falsi metodi scolastici
, cioè i manuali che avvicinano il principiante alla musica, sono oggi in grande misura gli stessi di allora. Il più praticato risale addirittura alla metà dell’Ottocento. Sarebbe facile verificare lo scarto amore/odio in una ricerca sulla mortalità scolastica
, come viene chiamato l’abbandono precoce dello studio. Se non l’unica, la pratica del solfeggio sembra essere una delle principali cause di abbandono.
Il musicologo aggiungeva che il solfeggio dovrebbe essere quanto di più intelligente, di più piacevole, di più gaiamente concatenato con la vita e con la realtà si possa immaginare
. Viene un primo dubbio. È l’oggetto in sé, il solfeggio, che dovremmo mettere sotto accusa, o un modo sbagliato di intenderlo e di insegnarlo? Se di colpe si vuol parlare, quali sarebbero propriamente le sue? In fondo l’abbandono degli studi non è in sé probante. Altre potrebbe esserne le cause, che niente hanno a che vedere con le difficoltà del pentagramma. Spesso sono i modi del trattamento e non i suoi oggettivi contenuti a determinare la bontà o meno di un’esperienza. Anche in cucina la scelta perfetta degli ingredienti può essere compromessa dalla combinazione sbagliata che ne fa lo chef.
Un secondo dubbio si affaccia: la capacità di solfeggiare è davvero una tappa obbligata? Anche per chi vuole imparare a far musica per il proprio diletto? In fondo, la musica è antica quanto la parola, mentre il solfeggio è una pratica nata a dir tanto da un millennio. Quando si suona uno strumento e ancor più quando si canta, affidarsi alla sensibilità musicale interiore e alla memoria, come di norma avveniva nel lontano passato, è tutt’altro che raro anche oggi. Basta pensare all’universo del jazz. Il jazz fa venire subito in mente una modalità nevralgica del far musica: l’improvvisazione, che per sua natura fa a meno della scrittura. E aggiungiamo le esperienze sempre più diffuse e sempre più complesse sollecitate dalle nuove tecnologie. Tutti temi che godono oggi di una ricca letteratura specialistica, alla quale rimando. Questo libro più umilmente si ferma a considerare le pratiche in uso oggi riguardanti la lettura della notazione tradizionale. Allestendo un immaginario processo al solfeggio, nel quale siano messe a confronto le ragioni dell’accusa con le auspicabili prove della sua innocenza, magari anche della sua feconda, intrinseca necessità per chi voglia intraprendere gli studi musicali.
L’improbabile giudice di pace che alla fine arriverà al verdetto, di innocenza o di colpevolezza, sente innanzitutto il bisogno di venire adeguatamente informato sulla sostanza del contendere: a cominciare dalla natura e dalla ragione di quell’alfabeto speciale, pentagramma e derivati, la cui decifrazione sembra stare al cuore della polemica. È dunque questa, la notazione musicale, il primo testimone che il giudice del nostro processo chiama a deporre.
IL SUONO E IL SEGNO
Cantare, da soli o insieme agli altri: una pratica che si perde nella notte dei tempi, in un rapporto stretto con la pratica del parlare. Lasciamo ai paleoantropologi e ai filosofi la decisione se il linguaggio musicale sia sorto prima o dopo o insieme a quello verbale. Meno discutibile è la precedenza della pratica rispetto alla scrittura. I nostri progenitori parlavano, molto prima di sentire il bisogno di scrivere quello che dicevano. Allo stesso modo per centinaia di migliaia di anni cantavano prima che venisse in mente a qualcuno che anche i suoni del canto o degli strumenti potessero essere rappresentati con segni scritti.
La musica era trasmessa oralmente. I giovani imparavano ascoltando gli anziani e imitandoli. Bisognerà arrivare alle soglie del primo millennio a. C., alle civiltà dei Sumeri, degli Egizi, o a quelle dell’Estremo Oriente, per trovare segni cuneiformi, geroglifici o ideogrammi adoperati per indicare i suoni musicali. Troppo interessante era il fenomeno dei suoni per civiltà che cominciavano a interrogarsi sul significato di tutto quanto cadeva sotto i loro sensi. Conosciamo meglio la civiltà greca: almeno da quel sesto secolo a. C. che vedeva gli esperimenti di Pitagora, doveva esserci un sistema per indicare i suoni di cui si stava parlando. Voglio dire che la prima notazione musicale nasceva dal bisogno di riflettere e teorizzare, non certo per leggere la musica, con la voce o con lo strumento musicale, come fosse uno spartito.
I frammenti greci arrivati fino a noi sono in Occidente i primi documenti fissati nel papiro per eternarne la memoria. Invece già da secoli i musicisti s’interrogavano sulla propria arte scrivendo trattati: almeno a partire da quel contemporaneo di Pitagora, Laso d’Ermione, di cui parlano gli antichi. Era ben chiara per loro la coincidenza dei suoni all’ottava (bastava sentir cantare insieme un bambino e un adulto); era acquisita la selezione, entro il continuum sonoro, di frequenze selezionate; acquisito il fatto che la selezione poteva avvenire in base a criteri diversi, che davano luogo a gamme particolari (i modi, dorico, frigio, lidio eccetera). Come i modi anche i singoli suoni mostravano di possedere una proprietà che li distingueva l’uno dall’altro, tanto da poter essere chiamati ognuno con un proprio nome, e al tempo stesso li metteva fra loro in relazione. I Greci scelsero le lettere dell’alfabeto, dalla A alla G: un uso giunto, proprio come l’alfabeto verbale, fino ai nostri giorni [I. D. BENT 1980, p. 334-335]. L’impiego era limitato, circoscritto come dicevo alle opere teoriche, per esemplificare i concetti. La pratica vocale e strumentale si basava sulla memoria e sulla trasmissione orale.
È solo nel nostro Alto Medioevo che si comincia a sentire il bisogno di cantare, e poi anche suonare, avendo davanti agli occhi uno spartito. Ancora Isidoro di Siviglia, all’inizio del VII secolo, poteva scrivere: Dal momento che il suono è cosa sensoriale, svanisce nel passato per fissarsi nella memoria […]. Perciò se i suoni non sono trattenuti nella memoria umana, periscono, perché non possono essere messi per iscritto
[ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum, in: P. WEISS & R. TARUSKIN 1984, p. 41. I curatori osservano: da ciò si può dedurre che la notazione musicale dell’antichità classica era andata totalmente perduta all’inizio del Medioevo, e che tutta la musica era trasmessa per tradizione orale
]. Questa persuasione di Isidoro è illuminante, e ci porterebbe ben lontano, se lo scopo del presente lavoro non fosse più semplicemente quello di riflettere sulle pratiche didattiche attuali, e su come ci si è arrivati. In realtà Isidoro anticipava una consapevolezza che da tempo gli studiosi hanno maturato sui limiti della nostra notazione musicale: formalizza come discreto quello che in realtà è un continuo sonoro, i cui parametri sono mutevoli, come osserva un acuto studioso della questione, l’inglese Trevor Wishart. Il nostro, scrive, è un sistema digitale, dove il momento è rappresentato solo a intervalli definiti di tempo, da ‘campioni’ dotati di valori distinti, invariabili
[T. WISHART 1985, p. 312. L’autore sviluppa questi concetti nel suo pioniere volume On sonic art, York, Imagineering Press, 1985 (Nuova edizione a c. di Simon Emmerson. Amsterdam, Overseas Publishers Asssociation, 1996) Cit. successive p. 315]. La tesi fondamentale di questo sistema è che la musica è riducibile alla fine a un piccolo, circoscritto numero di costituenti elementari con un numero finito di ‘parametri’
. Sappiamo che la nostra notazione (in quanto tale) circoscrive altezze e durate in modo rigido, per non parlare del modo approssimativo, non più rigido ma fluido, di indicare timbro e dinamica. Nella pratica, continua Wishart, possiamo decidere direttamente la proprietà delle più sottili sfumature sonore… ma la notazione analitica è una procedura che immobilizza
. Il jazz offre una dimostrazione lampante di quanto la notazione sia limitata – e limitante! – rispetto alla musica vissuta. Si pensi ai glissandi, ai vibrati, alle stesse variabili timbriche: tutte cose che la nostra notazione non saprebbe suggerire all’esecutore, se anche questi lo desiderasse.
Viene allora da dire che Isidoro di Siviglia non aveva tutti i torti quando diceva che i suoni non possono essere messi per iscritto
. Solo la tradizione vissuta può fare da maestra; e viene a ridimensionare la stessa funzionalità della notazione. A cambiare il quadro interviene semmai ai nostri giorni l’informatica, la possibilità che l’elettronica offre di fissare la multidimensionalità dei suoni. Compositore ed esecutore lì coincidono, e la questione della trascrizione e lettura del suono è radicalmente riformulata. Diventa pertinenza di una disciplina autonoma, dotata di una propria specificità, di un proprio statuto, di propri strumenti applicativi, di un proprio linguaggio. Cose che vanno ben al di là del focolare musicale intorno al quale