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Storia Critica Dell'Insegnamento Della Musica In Italia
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E-book338 pagine8 ore

Storia Critica Dell'Insegnamento Della Musica In Italia

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I due secoli presi qui in esame hanno visto fiorire talenti musicali di cui andar fieri: le scuole che li hanno formati sono i Conservatori di Musica. Le testimonianze riportate documentano i profondi limiti che i suoi stessi protagonisti lamentavano e fanno sospettare che a valle di queste istituzioni le cose non andassero meglio. Delfrati mette in evidenza il rapporto tra la formazione musicale e gli eventi più generali della nostra vita sociale e politica, degli anni dell’Unità e dei due dopoguerra, senza occultare quel nesso stretto che, nel legare logica dell’istruzione musicale e ideologia del fascismo, continua a riverberarsi sulla scuola anche nella seconda metà del secolo scorso.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2017
ISBN9788893370769
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    Anteprima del libro

    Storia Critica Dell'Insegnamento Della Musica In Italia - Carlo Delfrati

    Note

    PRESENTAZIONE

    I due secoli che questo libro prende in considerazione hanno visto fiorire nel nostro Paese talenti musicali di cui andar fieri, dai grandi compositori ancora oggi dominanti nei teatri d’opera di tutto il mondo alle avanguardie sofisticate degli ultimi decenni, dai primi virtuosi dello strumento o della bacchetta direttoriale alla schiera di provetti concertisti e direttori contesi dalle più importanti sale e dai media. Quali siano le scuole che li hanno formati sappiamo bene, e non potrebbe essere diversamente: sono i Conservatori di Musica e le altre affini istituzioni superiori. 

    Pure, se si ascoltano i protagonisti, i docenti, i direttori, i virtuosi del concertismo o della composizione, che per i due secoli interi si sono espressi sulla didattica praticata negli istituti musicali, c’è da rimanere perplessi, se non turbati. Sentiamone uno:

    tutte le nostre grandi sommità del secolo attuale non sono quasi mai figlie di Conservatori! Il Liceo di Bologna ed il Conservatorio di Napoli si vantano dei grandi nomi di Rossini e di Bellini; ma secondo me a torto possono gloriarsi di quelli uomini. Rossini, pel primo, mette in ridicolo il suo saper musicale acquistato nel Liceo, e le sue prime opere in cui s'incontrano di frequente sgrammaticature e scorrezioni... Bellini aveva qualità eccezionali che nissun Conservatorio può dare, e gli mancavano quelle che i Conservatori dovrebbero insegnare.

    È solo uno dei tanti documenti richiamati in questo libro, firmato da un insospettabile: Giuseppe Verdi. Altri pur meno blasonati musicisti si spingevano fino ad affermare arditamente che alle vette dell’arte i talenti erano giunti e giungevano non grazie a, ma nonostante, gli studi musicali, e i modi in cui venivano condotti.

    Se i luoghi alti della cultura musicale erano segnati dai limiti istituzionali, ideologici e pedagogici più volte lamentati dagli stessi protagonisti, non ci si potrà aspettare che le cose andassero meglio nei luoghi a valle, in quell’educazione musicale di tutti che veniva e viene condotta da docenti che in quegli stessi luoghi alti erano stati formati. Un concetto nevralgico del percorso storico qui tracciato, raramente considerato negli studi precedenti, è il nesso ombelicale che lega l’istruzione superiore, specialistica, a quella di base, elementare. La Legge Gentile, la legge che nel 1923 riforma radicalmente la scuola di tutti (offrendo alla musica spazi prima impensati) respira la stessa aria che sette anni dopo detterà le norme dell’istruzione superiore, congelandole fino alla fine del Ventesimo secolo.

    Considero stretto il rapporto tra la formazione musicale, ai livelli primari o avanzati, e gli eventi più generali della vita economico-sociale e politica del Paese, quella degli anni dell’Unità e dei due dopoguerra. Senza nascondere il nesso stretto che legava la logica dell’istruzione musicale all’ideologia del fascismo, e che continuerà a riverberarsi a lungo sulla scuola anche nella seconda metà del XX secolo.

    Le testimonianze che ho raccolto qui mostrano che la critica alle istituzioni educanti non è una moda dei nostri giorni; accompagna la loro vita almeno dalla fondazione dei primi moderni Conservatori. Leggerle potrebbe risultare sconfortante o irritante: un gioco al massacro; se lo scopo di questa rassegna, lo scopo stesso di questo libro, non fosse quello di tener alta la coscienza per il bene dell’istruzione musicale, e della musica stessa. 

    La storiografia della nostra vita musicale si risolve il più delle volte in agiografia, in celebrazione dei talenti che da questa o quella scuola sono pur usciti. Se questo può gratificare gli eredi, non favorisce certo quella storia critica che si rende utile alla vita presente e a quella dei nostri figli. Solo se prendiamo coraggiosamente coscienza di quel che non va nella macchina che stiamo guidando possiamo sperare di farla funzionare meglio. Solo cercando di individuare senza falsi pudori gli ingranaggi guasti, saremo in grado di sostituirli con altri nuovi. Fuor di metafora, solo prendendo consapevolezza che esiste un lato buio nel nostro mondo, possiamo sperare di portarvi una qualche luce. È l’amore per la scuola, non il suo disprezzo, che ha sempre animato in passato le critiche anche feroci di cui i pedagogisti e i didatti di ogni disciplina l’hanno investita. Conoscere sempre meglio per non smettere di agire a migliorare la realtà: è l’invito di fondo che mi sentirei di rivolgere al lettore.

    INTRODUZIONE

    Parecchie inchieste, ancorché superficiali, fatte sulle condizioni dei nostri Conservatori di musica, l'esame dei programmi d'insegnamento e dei saggi degli alunni confrontati con quelli di altri paesi, vanno somministrando qualche schiarimento notevole intorno al grave soggetto. Se si continuerà in questo studio da chi ha il tempo e le qualità per farlo bene, è certo che si scuopriranno verità, forse un po' amare per il nostro amor proprio, ma utilissime al nostro avvenire [E. PANZACCHI 1895, p. 261-262].

    Questo libro ha inteso raccogliere la sfida lanciata dal letterato e poeta carducciano Enrico Panzacchi, tanto attento e sensibile alla vita musicale italiana di fine Ottocento. Quali possono mai essere, nei nostri Conservatori di musica, le verità un po’ amare? Da dove vengono? Soprattutto, ammesso di trovarne, sono solo cose del suo secolo, o hanno a vedere anche con l’epoca più vicina a noi? E poi: riguardano solo i Conservatori, o non coinvolgono anche l’educazione musicale del cittadino, e quindi la scuola generale?[1]

    Il primo passo di un’indagine storica è la raccolta dei documenti. Innanzitutto quelli ufficiali, ministeriali. E qui cominciano i primi dolori:

    Se si mettessero insieme tutto il fascio di documenti e di pratiche che dormono negli archivi del ministero ed in quello della segreteria del Collegio, tutti gli articoli che la stampa di Napoli e d’Italia ha pubblicati in proposito, c’è quasi da scommettere che si arriverebbe a compilare un numero di volumi di poco inferiore a quelli che riguardano la quistione romana d’infelice memoria [M. C. CAPUTO 1886, p. 3].

    Così sul declinare dell’Ottocento sospirava un musicista impegnato come pochi altri proprio sul fronte educativo, Michele Carlo Caputo; quando ancora il pensiero dei nostri avi era assillato dalla questione romana, Porta Pia, scomunica del re, Legge delle guarentigie, non-expedit e quant’altro. Caputo si riferiva solo al Conservatorio di Napoli. Possiamo ben immaginare che dimensioni acquisterebbe la raccolta se fosse estesa alle altre città, e continuata per i centotrent’anni che ci separano da lui. Caputo si ispirava forse agli storici di marca positivista, per i quali il compito dello storico è di allineare giudiziosamente uno dopo l’altro i documenti, il più gran numero possibile di documenti. A sollevarci almeno in parte dalla sua ansia soccorre il fatto che esistono già raccolte di documenti ufficiali, leggi, programmi scolastici, circolari ministeriali, come dire il corpo della realtà didattica, commentati in opere pregevoli. Questo libro è interessato piuttosto alla sua anima. Ambisce a fornire un’interpretazione di quello che i documenti non dicono ma lasciano semmai trasparite. Non si limita a constatare per esempio che nel 1930 è stata varata una certa legge-quadro sulla vita dei Conservatori, e a descriverla nei suoi particolari punti, ma osa esprimere, sul senso, lo spirito e le conseguenze di quella legge, una serie di valutazioni e di giudizi.

    Le norme sono solo uno degli oggetti di questa storia. Non meno importanti sono le testimonianze recate dai protagonisti, che possiamo leggere nei libri e negli articoli di rivista del tempo. Che sono, inutile dirlo, in numero ben più grande del piccolo gruzzolo di cui ho potuto servirmi qui. Ignorata dalla letteratura è invece la storia di quello che concretamente questo o quel docente fa nell’aula di musica, e dei modi in cui lo si fa, la storia della vera e propria didassi. Il limite qui è scontato, e riguarda le fonti. Su come s’insegnava per esempio il violino abbiamo dichiarazioni degli addetti e qualche rara memoria personale, e abbiamo materiali applicativi, gli eserciziari. Non abbiamo la dimostrazione diretta, filmati e congeneri, nemmeno per tempi vicini a noi. Si può solo ricostruire per ipotesi. La didattica è fatta da una parte di azioni concrete e dall’altra di scritti, saggi o anche trattati, in cui il docente spiega il suo modo di lavorare, la metodologia di cui si fa alfiere. Prassi e teoria si intrecciano fra loro ma non coincidono necessariamente. Se l’autore di buoni metodi è tendenzialmente anche buon insegnante, non si dà se non occasionalmente il reciproco. Fedele D’Amico ricorda l’eccezionale insegnamento di Alfredo Casella. La sua facoltà infallibile di chiarire d’un colpo all’allievo il senso d’un pezzo eseguendogli al pianoforte i suoi passi-chiave. [...] L’allievo ne sente illuminato tutto il pezzo; Casella era aperto a qualsiasi genere musicale; chiedeva sempre all’allievo la massima concentrazione sulla bontà del suono; applicava in modo sistematico un metodo comparato, ove ogni problema particolare è affrontato con il sussidio di materiali musicali eterogenei. Ebbene, di Casella abbiamo revisioni pianistiche, manuali storico-descrittivi, ma dalla sua pur fluente penna quasi nessun contributo metodologico. [F. D’AMICO 1943. Cit. p. 466 e 463]. Il rinomato manuale su La tecnica dell’orchestra contemporanea scritto da Casella con Virgilio Mortari è un testo storico-descrittivo, non metodologico. Lo stesso si potrebbe ripetere per la grande maggioranza dei bravi maestri.

    Il periodo che ho preso in considerazione è quello che parte dall’unità d’Italia, con qualche fugace escursione ai decenni precedenti. E con una personale convinzione di fondo: che tra la scuola di tutti e la scuola specialistica non ci sia estraneità ma stretta interdipendenza. Per questo motivo entrano in queste pagine la scuola elementare o i licei, come entrano i Conservatori o le civiche scuole di musica.

    Una fonte primaria è fornita dai lavori dedicati a illustrare la vita passata e presente dei singoli istituti. Con una riserva purtroppo doverosa. Se il dubbioso Panzacchi avesse potuto leggere le non rare storie scritte nel Novecento (Panzacchi morì nel 1904) avrebbe forse dissipato i suoi timori: perché quei lavori sono tendenzialmente encomiastici, agiografici. Non scrivi la storia del Conservatorio Taldeitali per denigrare i suoi docenti o i risultati che hanno ottenuto. Ma proprio per questa ragione acquistano un significato storico importante le posizioni critiche di chi ha avuto il coraggio di avanzarle.

    Una storia come quella di questo libro, dove non nascondo le opinioni personali che la guidano, è inevitabilmente irta di spine, che potrebbero generare acredine in qualche serio lettore. Buona cosa in fondo, se potrà servire a far approfondire lo studio e offrire una visione più matura dei fatti. Come segno degli ostacoli pungenti che s’incontrano nella ricerca, metto a confronto questi due passi riguardanti la prima infanzia del Conservatorio di Milano: il primo dal volume che il musicologo Federico Mompellio ha dedicato alla sua storia; il secondo ancora dal libro di Panzacchi:

    I maestri dell’Istituto erano in parte elementi fra gli ottimi dell’epoca, d’una bravura non comune, colti nel loro campo e ricchi d’una preziosa esperienza; in parte giovani desiderosi di mostrare il proprio valore; ognuno intraprese il suo compito con serietà e coscienza [F. MOMPELLIO 1941, p. 65-66].

    Che il Provesi a Busseto e il Lavigna a Milano siano stati per il Verdi dei maestri per ogni ragione perfetti, io dubito: che intorno al 1830 le condizioni della cultura e della didattica musicale fossero in Italia molto favorevoli a una perfetta educazione artistica, non mi pare. Quindi il Verdi spiccò certo i suoi primi voli fidato specialmente alle ali robuste della sua immaginazione.

    Non servono, credo, commenti, salvo una sorta di corollario: tutti i migliori musicisti italiani sono usciti dai nostri Conservatori di musica, con poche eccezioni: compositori, strumentisti, cantanti, direttori, insegnanti. Inevitabilmente, direi. Ma per converso solo una parte minima di chi esce da un Conservatorio diventa eccellente compositore, strumentista, cantante, direttore, insegnante. Poiché da questi istituti sono usciti i talenti della nostra vita musicale, per rari che siano, si fa di questa rarità il metro di giudizio dell’intero sistema. Non si rende giustizia all’etica complessiva di un popolo identificandola con la biografia dei suoi santi. In questo libro più che parlare dei santi, che tutti conoscono, preferisco parlare della gente comune; e magari dei peccatori, se capita di trovarne.

    Un peccato ben noto della nostra scuola, se non mortale almeno continuato nel tempo, è la sua difficoltà, o resistenza, a stare al passo coi tempi, il suo relativo immobilismo. Se ciò vale per la scuola generale, vale ben di più per quella musicale. Non che non siano esistite, o addirittura messe in pratica, proposte di cambiamento. I centocinquant’anni considerati in questa storia pullulano di riformatori: persone che anche nella didattica musicale scoprono disfunzioni e, se ne sono capaci, suggeriscono rimedi. Solo che qui gioca un brutto tiro proprio la storia. Dico meglio: la mancanza di conoscenza storica. Vedremo che quelle proposte innovative sono rimaste velleità, flatus vocis, non hanno sortito quasi mai risultati pratici. Se i loro autori si fossero documentati, si sarebbero resi conto che quelle stesse strade erano già state battute, e avevano miseramente fallito. Questa consapevolezza avrebbe forse potuto orientare nuovamente la loro azione in una direzione diversa, nuova. Dalla conoscenza dei fallimenti passati sarebbe potuta uscire una prospettiva diversa, e forse vincente, per il presente. 

    Il filosofo medievale diceva che siamo nani sulle spalle di un gigante: il gigante è il passato che dall’alto ci permette di guardare più lontano e di progettare meglio il futuro. A condizione però che i nani che siamo noi vogliano salire sulle sue spalle. Fuor di metafora, che il riformatore di turno conosca il lavoro di chi l’ha preceduto. Solo dove funziona questo meccanismo virtuoso può funzionare il desiderato progresso. Altrimenti la stessa indolenza che gli nasconde il passato nasconderà ai suoi successori il suo presente. Risultato: l’oblio funziona come blocco al progresso, e si fa corresponsabile di ciò che non funziona nel presente. Cancellare il passato vuol dire ritrovarsi al punto di partenza, e può spiegare perché l’oggetto delle nostre cure non cambia. Il mondo della nostra scuola ha visto fiorire non poche, originali e feconde proposte per cambiare in meglio le situazioni di degrado. Quasi sempre sono state fiammelle spente al primo alito, al primo risvegliarsi del corpo assonnato dei difensori dello statu quo. Conoscere chi, come, quando, perché è avvenuto, può permetterci di riaffrontarle con strumenti più maturi e incisivi. Il passato non è un corpo morto. È la bella del bosco addormentato in attesa che qualcuno la risvegli per ridar nuova vita alla lettura del presente. È sempre un bisogno pratico a motivarla. Come c’insegnava Benedetto Croce [B. CROCE 1938, p. 5]:

    il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‘storia contemporanea’, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni.

    UN PONTE TRA EDUCAZIONE E ISTRUZIONE

    Una sera di primavera viene a vivere a Roccacannuccia, minuscolo borgo del Leccese, tale Bernardo Stracciatelli, oscuro patriota dilettante di musica, così lo chiama il giornale che nell’anno 1902 ci trasmette la sensazionale notizia. Quanto gli piacerebbe poter suonare con altri rocchesi. Si offre lui a insegnare uno strumento purchessia, cominciando dai bambini. Ma come si fa? Nel paesino non esiste nemmeno una scuola elementare: il municipio, che per la legge del tempo deve provvedere ai locali e allo stipendio del maestro, non ha neppure i mezzi per tenere praticabili le straduzze; figurarsi se può permettersi una scuola. E poi, ai pargoli dei ricchi proprietari terrieri provvede il clero, qui come in gran parte della Penisola; mentre i figli dei contadini non vanno distratti dal lavoro nei campi; per il quale come si sa non serve il pentagramma e nemmeno l’alfabeto. La passione e lo zelo di Bernardo la vincono: si fa amici i signori del paese suonando in chiesa l’organo da loro acquistato per le funzioni. E ottiene di aprire lui una scuoletta dove insegna a leggere e l’alfabeto e le note musicali. Nel giro di pochi anni arriva a formare una banda. Presto anche le signorine per bene aspirano a mettere le mani sulla tastiera. Il giornale non dice dove e come il nostro Bernardo ha conosciuto la bella aspirante al teatro lirico che sposa per poi affidarle di insegnare canto nella sua scuoletta [U. PESCI 1902].

    Come a Roccacannuccia, anche nelle città, le maggiori e le minori, all’educazione musicale dei bambini provvedevano i privati. Nella capitale del Regno Sabaudo, Torino, era stato un istituto benefico, la Società per le scuole infantili, a sovvenzionare fin dal 1846 l’insegnamento del canto nelle scuole elementari dei Fratelli delle Scuole Cristiane.

    Se dilatiamo lo zoom, dall’ultimo borgo del Paese come Roccacannuccia al Paese intero, e retrocediamo di pochi decenni, ai giorni in cui si sta forgiando l’unità d’Italia, troviamo una situazione simile, con la variante ben nota: il drammatico contrasto tra regioni avanzate come la Lombardia e il Piemonte, e regioni meridionali fortemente arretrate; con al Centro situazioni miste, a macchia di leopardo. Appena i plebisciti hanno legittimato l’unità del Paese, il governo nazionale mette in campo un primo progetto di riforma, la legge Casati del 1859. Tante ne seguiranno, fino a quel 1923 che come vedremo segnerà un primo importante punto d’arrivo. La cronistoria di quei programmi è stata raccontata più d’una volta, e ad essa rimando. Mi limito a citare: G. RICUPERATI 1973; G. CANESTRI – G. RICUPERATI 1976. È bene ribadire che era soprattutto sui comuni che gravavano totalmente le spese dell’istruzione primaria […] una scuola privata ben più fiorente di quella pubblica raccoglieva i ‘galantuomini’, mentre nelle campagne, soprattutto in Basilicata, Calabria e Sicilia il tasso di analfabetismo era altissimo e forti le resistenze del clero locale alla scuola e all’istruzione […] alla viglia dello stato unitario circa un terzo dei 3.094 comuni dello stato era del tutto privo di scuole elementari [CANESTRI-RICUPERATI 1976, p. 20-21]. Anche la storia della presenza della musica nei programmi ministeriali (sia della scuola generale sia dei Conservatori) è stata raccontata: cfr. G. COLARIZI 1971.

    E la musica? Se in quei programmi ci fermiamo a cercare indicazioni che la riguardino, rimarremo delusi. Sarà solo nei testi varati nel 1888 che si comincerà a farne menzione: utile la musica, vi si legge, se non altro perché giova alla respirazione e a sollievo dall’occupazione mentale. Questo però non vuol dire, come a volte si legge, che prima di allora le aule delle nostre scuole elementari fossero sempre mute. Un’indagine al microscopio, su possibili testimonianze locali, rivelerebbe che gli insegnanti facevano pur cantare, almeno occasionalmente e di sicuro non tutti. Lo conferma il fatto palese, quanto curiosamente dimenticato, che nelle scuole normali e magistrali, com’erano chiamate le scuole destinate alla formazione dei maestri, l’insegnamento musicale era espressamente previsto, con un congruo numero di ore settimanali di lezione. Anche qualche raro municipio, tra i più facoltosi, attivava corsi magistrali, come Milano nel 1866 [A. FINO 1978, p. 175].

    Che poi i risultati non dovessero essere entusiasmanti, lo svelano altri documenti, come le geremiadi che presto cominceranno a rimbalzare dalla penna e dalla parola di un testimone a quella dell’altro. Nel 1862 si tiene a Londra una memorabile Esposizione Universale, famosa nei nostri ambienti musicali perché Giuseppe Verdi vi viene invitato a scrivere per l’occasione un Inno delle Nazioni (salvo vederselo cortesemente restituire dagli imbarazzati ma orgogliosi britannici: come aveva potuto Verdi mescolare nel suo Inno le note sacre dell’inno inglese con quelle ‘sguaiate’ della Marsigliese?). All’esposizione è presente l’illustre storico Pasquale Villari, inviato dal nostro governo a documentarsi sulla realtà anche scolastica degli altri Paesi. Rimane sorpreso, e umiliato insieme, per quanto sfila davanti ai propri occhi, e più ancora alle proprie orecchie, dalle scolaresche giunte da ogni parte del mondo. E riferisce:

    In Inghilterra, in Germania, nella Svizzera, in quasi tutta l’Europa civile si dà ogni opera a promuovere l’insegnamento del canto nelle scuole popolari […] le carte, i libri di musica erano oggetto di molte considerazioni per tutti i giurati della Esposizione, ma non per gli italiani. Dappertutto si cerca di aprire e chiudere la scuola elementare col canto: nell’Italia invece, patria della musica, la scuola si può dire chiusa ad ogni armonia, ed a molti sembra quasi puerile discutere il soggetto [P. VILLARI, p. 276-277].

    Quali potevano essere le cause della troppo rara presenza della musica nelle nostre scuole? In tempi più vicini a noi una schiera di musicisti feriti nell’orgoglio favoleggiavano di un presunto divorzio che si sarebbe consumato in Italia dall’Ottocento in qua tra musica e cultura. La cultura ufficiale, in particolare quella eminente nel nostro Paese, la cultura letteraria, avrebbe via via perso per la musica quell’interesse che le aveva generosamente accordato fino a tutto il XVIII secolo; e il discredito si sarebbe fatalmente trasmesso, come per vasi comunicanti, al legislatore. Così scriveva un battagliero paladino dell’educazione musicale scolastica, Riccardo Allorto:

    Eredi di una stirpe che nei secoli ha offerto all’umanità i doni plurisecolari di una splendida arte musicale, noi ignoriamo le fondamentali virtù educatrici che pedagogisti e ordinamenti scolastici di tutto il mondo riconoscono alla musica. La scuola e la cultura musicale da noi sono separate da un profondo fossato e non hanno fra loro che contatti superficiali e insinceri [R. ALLORTO 1966, p. 122. Vedi prima ancora: A. ZECCHI 1962, p. 142-6; e id., 963, p. 187-201].

    Ignoravano, i due autori, che mezzo secolo prima negli stessi termini si esprimeva il direttore della rivista La Critica Musicale, Luigi Parigi, citando come provvisti di scarsa competenza musicale Croce, Prezzolini, Papini e Panzacchi [L. PARIGI 1921, p. 41-44]. In realtà Panzacchi, che citavo proprio all’inizio, era scrittore tutt’altro che incompetente di cose musicali: vedi i suoi saggi in [E. PANZACCHI 1995]. Di Papini proprio nella sua stessa rivista [marzo-maggio 1921, p. 41-44] il direttore pubblicava uno studio sul musicista Giuseppe Vannicola. Tutto si riduce al povero Benedetto Croce, fatto responsabile (pressoché unico!) dei mali della musica in Italia. La storia rivelava in realtà attenzioni non epidermiche alla musica e alle sue valenze educative da parte di autorevoli voci della nuova Italia, da Carlo Botta a Fogazzaro, da Carducci a D’Annunzio, da Enrico Panzacchi a Salvatore Di Giacomo, da Luigi Pirandello a Massimo Bontempelli, da Eugenio Montale a Umberto Eco… La lista potrebbe occupare una pagina intera. Anche senza arrivare ai Carlo Sini, ai Baricco, ai Corrado Augias di oggi. Ma non meno disponibile alla musica era la nostra stessa cultura propriamente pedagogica, da Ferrante Aporti a Giovanni Cena, da Niccolò Tommaseo a Giuseppe Mazzini, dalle sorelle Agazzi alla Montessori, da Pasquale Villari a Giuseppe Lombardo-Radice. Basta scorrere qualcuno dei trattati di pedagogia generale di fine Ottocento e inizi Novecento per trovare la musica elevata al rango di disciplina meritevole di essere inclusa nell’educazione del bambino, almeno come pratica corale, di canti religiosi, patriottici e genericamente educativi; e finalizzata alla stessa elevazione morale del popolo che aveva incoraggiato l’apertura delle scuole musicali locali. Erede di una tradizione che risale almeno a Platone, l’educazione musicale era valorizzata come strumento dell’educazione generale, per non dire di riscatto morale. Benefica influenza [...] può la musica esercitar negli animi de’ fanciulli per ciò che riguarda alla moralità e alla religione così scrive Carlo Corghi nel 1847. Mentre mira all’avanzamento dell’arte musicale, favorisce il progresso ed il miglioramento delle classi povere [A. de laFAGE, in: P. BASSI – C. ARIAGNO 1994, p. 105]. Con parole analoghe si esprimono ancora Francesco Matticoli, Paolo Vecchia, Giovanni Azzali, Maria Anna Prato e altri [F. MATTICOLI 1886; P. VECCHIA 1887; G. AZZALI 1906; M. A. PRATO 1910].

    La spiegazione della scarsa presenza della musica nelle aule frequentate dai nostri avi è ben diversa dal fantomatico divorzio tra musica e cultura: in una società contadina e largamente povera e analfabeta come quella dell’intero Ottocento il legislatore non poteva permettersi di offrire,

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