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Tukus - Il Segreto della Corona
Tukus - Il Segreto della Corona
Tukus - Il Segreto della Corona
E-book378 pagine5 ore

Tukus - Il Segreto della Corona

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Info su questo ebook

Romanzo adatto a un pubblico giovane.

Alnitak, la dimora della razza umana dopo la fine del mondo, è un pianeta prospero e pacifico, dove la gente vive in armonia sotto il controllo di un unico, grande Stato. A rompere la tranquillità di questo paradiso ci penserà il malvagio re del pianeta Rigel, che attaccherà Alnitak con l’intenzione di costruirci su il suo nuovo regno. La difesa dei terrestri è affidata a TK-0-fA, un robot da combattimento pilotato da un volontario, il ventiduenne Marcus Hamilton, il quale si troverà coinvolto in un temibile scontro all’ultimo sangue.

La guerra, così, entrerà a far parte della vita del giovane Marcus, infrangendone i mille sogni. Tuttavia ciò che accenderà in lui la voglia di non arrendersi sarà la scoperta dell’esistenza di Tukus, un essere dai poteri sovrannaturali, che farà scoprire al giovane protagonista un nuovo modo di guardare la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2014
ISBN9788868821791
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    Anteprima del libro

    Tukus - Il Segreto della Corona - Anna Guerra

    Hamilton

    Prologo

    Alnitak

    10 gennaio del 65 post apocalisse. Ore 16.00, fuso orario di Washington.

    Marcus rilesse attentamente il documento che gli era appena arrivato. Aspettava quel foglio da giorni, eppure quando se lo trovò tra le mani avrebbe tanto voluto strapparlo, bruciarlo, farci qualsiasi cosa tranne conservarlo come sarebbe stato consono a esso. Era troppo tardi per tornare indietro. Aveva giurato allo Stato di Alnitak di aiutare e difendere la nazione e non poteva più cambiare idea.

    Aveva solo ventidue anni, Marcus Karl Hamilton; era un ragazzo in gamba, sempre ottimista e simpatico, ma quella volta sembrava davvero giù di morale. Era alto e muscoloso, i capelli neri, folti e spettinati; gli occhi erano di un azzurro limpido come il cielo primaverile. Aveva una carnagione chiara e delle mani grandi. Tra queste serrava ancora il documento, mentre lo fissava con malinconia.

    Non era da lui essere così triste. Avrebbe tanto voluto parlare con sua sorella Geraldine, ma sapeva che gli avrebbe risposto di stare tranquillo, perché non poteva succedergli niente di male. Eppure Marcus era cosciente della gravità del guaio in cui si era cacciato.

    Erano passati quasi settantacinque anni dalla fine del mondo, e sessantacinque dall’atterraggio degli uomini sopravvissuti su Alnitak.

    Quando la Terra esisteva ancora, la vita sembrava essere normale. La tecnologia del quarto millennio era quasi onnipotente: tutto aveva raggiunto l’idea di perfezione, ogni piccolo ingranaggio del mondo umano era divino, così come ogni suo artefice.

    Ma cosa può esserci di peggio di un peccato commesso dall’intera umanità? A cosa può portare essere perfetti? A una vita eterna della Terra? O a morte e distruzione?

    Il mondo stava andando in rovina. Stava morendo. Tutto quello che si poteva salvare non fu salvato. Niente. Gli alberi non davano più frutti, l’erba non cresceva più e gli uomini gioivano. L’aria era irrespirabile e caldissima, i ghiacciai si erano sciolti già da molto tempo, non crescevano più fiori. Gli animali erano quasi tutti in via d’estinzione, se non già estinti.

    Tuttavia un giorno, quando l’uomo si rese conto che le cose non andavano affatto bene, avvenne un miracolo.

    A quei tempi le persone erano solite intraprendere viaggi interstellari nella speranza di incontrare pianeti vivibili su cui stabilirsi. La scoperta di brecce spazio-temporali, capaci di far percorrere lunghissime distanze in poco tempo, rese più facile l’esplorazione dello spazio. Nella cosiddetta Era delle Grandi Migrazioni, uno scienziato americano, Lucas Johnson, s’imbatté nella costellazione di Orione. Qui scoprì i Mondi Giganti, com’era chiamato il complesso di stelle composto da Rigel, Betelgeuse, Bellatrix e Mintaka, attorno alle quali, tra i vari corpi celesti, orbitavano degli omonimi pianeti; essi erano abitati da umanoidi detti Hori, dotati di una tecnologia molto avanzata. Lucas Johnson rimase sul pianeta Mintaka per qualche tempo, imparò la lingua del posto e quando fu certo di essere stato accettato dalla comunità, si decise a fare un grande passo e chiese agli indigeni un immenso favore: ottenere il permesso di colonizzare Alnitak, un pianeta facente parte del sistema solare della stella Alnilam. Il popolo di Mintaka, generoso e comprensivo, acconsentì. Intanto Johnson tornò sulla Terra e fece costruire dieci grandi astronavi per condurre gli uomini nella loro nuova dimora.

    Erano in corso i preparativi per il viaggio quando la Terra crollò. Ogni cosa fu distrutta. I morti furono tantissimi, alcuni miliardi. I sopravvissuti fuggirono grazie alle astronavi pilotate dagli scienziati.

    Dentro le astronavi si conduceva una vita di stenti. Tutta l’esistenza si ridusse a un continuo sospirare e sperare che il viaggio finisse. Gli uomini erano stanchissimi, nutriti per via endovenosa ogni giorno e costretti a non allontanarsi mai troppo dalla loro postazione. La disperazione portò la razza umana a rimpiangere amaramente ciò che aveva distrutto con le sue stesse mani.

    Si pensò a una punizione divina. Cosa poteva essere altrimenti? Gli uomini, però, avevano imparato la lezione. Non erano più stolti e assetati di potere. Il vero miracolo fu questo: erano venuti a conoscenza del loro errore e non vedevano l’ora di ricominciare tutto daccapo. Fu proprio tale desiderio a spingere l’umanità a non arrendersi e a continuare il viaggio nonostante le fatiche.

    Dopo una decina d’anni, alla fine dei quali cominciò un’altra datazione storica, quella post-apocalisse, si avvistò Alnitak, un pianetino verde un po’ più grande della Terra. C’era una vegetazione rigogliosa, ma non c’erano mari e l’acqua proveniva interamente da fiumi e laghi collegati per mezzo di una fitta rete.

    All’inizio fu un inferno. Gli uomini, abituati a una tecnologia straordinaria, dovettero condurre una vita paragonabile a quella preistorica. Tutto ciò che avevano era il cibo, l’acqua e la luce di Alnilam, la stella centrale della Cintura di Orione, che battezzarono secondo Sole. Fortunatamente ricevettero l’aiuto degli abitanti di Mintaka e, in parte, di Bellatrix, i quali li aiutarono nella ricostruzione di villaggi e città.

    Cominciò un vero e proprio baratto tra gli Hori e gli uomini, anche un baratto tra persone. Molti furono gli Hori che si stabilirono su Alnitak, e molti i terrestri su Mintaka. Erano irriconoscibili. Vivevano come normalissimi cittadini, ma la loro appartenenza a un altro pianeta li rendeva segretamente speciali.

    Alnitak era una sola nazione, chiamata semplicemente Stato di Alnitak. Non aveva un suo governatore, neanche un presidente, ma un grande Consiglio dei Ministeri. Ogni Ministero era formato da più di venti Ministri, diretti da un Capo Ministro. La lingua ufficiale di Alnitak diventò l’inglese, che i Mondi Giganti decisero di adottare in quanto considerato più facile della loro lingua Hori.

    Infine gli uomini poterono, nel giro di cinquant’anni, ripristinare almeno in parte la loro super tecnologia. All’epoca di Marcus era quella del ventunesimo secolo, ma con alcune differenze per quanto riguardava in particolare l’ecologia, come l’invenzione dell’automobile a vapore acqueo, capace di inumidire l’aria e non inquinarla.

    In quegli anni, però, come seconda punizione del destino, gli abitanti della stella Rigel, gli unici che non vedevano di buon occhio l’arrivo dei terrestri, vollero conquistare Alnitak. E così Rigel divenne la minaccia più grave.

    Gli uomini non sapevano cosa fare. Non si erano ancora ripresi dallo shock della fine del mondo; volevano evitare l’ulteriore difficoltà che avrebbe portato loro una guerra.

    Così il Ministero Mondiale della Difesa mise in atto un progetto, il piano TK-Reclute, che consisteva nel lottare contro i conquistatori di Rigel con l’ausilio di un grande robot, pilotato a turno da dei volontari. Ognuno di questi piloti era chiamato recluta.

    Marcus Hamilton si era offerto volontario per essere la recluta uno. Sapeva che il piano sarebbe andato a buon fine, che ce l’avrebbe fatta. Ma era preoccupato. Il Ministero della Difesa doveva aver progettato un robot sofisticato, magari usando la tecnologia di Mintaka, ma con qualsiasi robot si fosse svolta la missione sarebbe stato pericoloso.

    Tuttavia il ragazzo, anche se lo desiderava tanto, non si ritirò indietro. Non poteva. Qualcuno doveva pur rischiare la pelle per la patria. Avevano già perso una casa. Non volevano rinunciare a un’altra.

    Dopo aver letto per l’ennesima volta il documento, Marcus pensò, indignato:

    È tutto ciò che hanno potuto scrivermi?

    Aprì la busta della lettera, sperando di trovarci dentro qualcos’altro: vide un foglietto stropicciato, probabilmente strappato da qualche quaderno. Quando lesse ciò che vi era scritto, con una calligrafia frettolosa ma leggibile, non riuscì a contenere una risatina che gli fece tornare il buonumore. Non seppe neanche cosa ci fosse di divertente in quel biglietto, forse era il fatto di essere così informale nonostante gli evidenti sforzi del mittente, oppure fu l’ultima parola scritta su di esso, una parola senza senso, ma dal suono dolce e divertente nel contempo.

    Indicazioni sul robot

    Nome: TK-0-fA

    Soprannome: Tukus

    Capitolo 1

    Alle prese con il caffè

    11 gennaio 65. Ore 7:25.

    La sveglia suonò.

    - Ah! - Marcus fece un grande sbadiglio e si alzò dal suo letto. Aprì la finestra e si affacciò, sorridendo. Dal secondo piano dove viveva si vedeva l’intero quartiere, circondato da palazzi variopinti.

    Colazione, pensò. Prese dei documenti piegati dalla scrivania, uscì fuori dalla sua stanza e si diresse in cucina dove suo padre, un uomo di mezz’età, stava leggendo il giornale.

    - Buongiorno, papà! - disse Marcus, appoggiando i fogli sul tavolo. Prese la caffettiera e versò un po’ di caffè in una tazzina.

    - Buongiorno, Marcus! - urlò una ragazza di diciassette anni, alta, con i capelli rossicci e ondulati, il naso all’insù e gli occhi grigi. Aveva un portamento fiero e altezzoso, perfettamente in contrasto con i vestiti colorati e sbarazzini che indossava.

    - Buongiorno, Geraldine! Hai dormito bene?

    - Uno schifo -, rispose la ragazza con tono bisbetico. - Geneviève non ha smesso un attimo di parlare nel sonno.

    - Se è per questo anch’io ho dormito uno schifo! - fece eco una bambina simile a Geraldine nel colore degli occhi e dei capelli, ma più paffutella, grassoccia, con le guance rosse. Aveva circa dieci anni.

    - Buongiorno, Geneviève! - esclamò Marcus preparando la colazione alle due sorelle.

    - Sono stanca morta -, si lamentò Geraldine, assonnata; poi, con un improvviso scatto di vivacità, gioì:

    - Per fortuna oggi è un grande giorno!

    - Perché? - domandò Geneviève. - Compito in classe?

    - SCIOPEROOOOO! - Geraldine era euforica.

    Marcus chiese:

    - Perché questo sciopero?

    - Mi chiedi anche il perché! Hanno fatto abolire la figura del capoclasse. Per gli altri ragazzi il problema sta nel fatto che così non ci sarà nessuno che rappresenti noi studenti, ma per me è diverso… Non farò più la capoclasse! Era un ruolo che mi si addiceva alla perfezione!

    - Allora perché non hai un fidanzato decente? - chiese Geneviève, con una smorfia.

    - Conrad non esiste? - Geraldine sembrava offesa. - E poi, cosa c’entra questo con il discorso che stavamo facendo?

    Marcus, stanco di sentire le chiacchiere delle sorelle, decise d’ignorarle. Prese i documenti ripiegati che aveva portato e li mostrò al padre.

    Il signor Hamilton mise il giornale da parte e lesse i fogli con attenzione.

    - Che cos’è? - le due sorelle, incuriosite, allungarono un po’ il collo per riuscire a leggere almeno due righe di ciò che era scritto sui fogli misteriosi.

    - TK-Reclute? Che roba è? - domandò Geraldine.

    - Niente che vi possa interessare, mie adorate fanciulle -, rispose il signor Hamilton, sorridendo. - Piuttosto, non dovreste andare a scuola?

    - Solo Geneviève deve andare a scuola -, specificò la sorella più grande.

    - Allora accompagnala!

    - Okay! - Geraldine prese la sua giacca e quella della bambina.

    - A dopo! - urlarono le due.

    - A presto! - rispose Marcus, che le vide uscire dalla porta dell’ingresso, sorridenti. L’idea di avere due sorelle speciali nonostante il loro continuo parlare a vanvera fece sorridere anche lui.

    I suoi pensieri furono interrotti all’improvviso da una mano che lo prese per la collottola e lo scaraventò sulla sedia. Il ragazzo non oppose resistenza, e dopo essersi seduto guardò in alto: il signor Hamilton sembrava essere andato su tutte le furie.

    - Hai idea del guaio in cui ti sei cacciato?! - chiese l’uomo, sventolandogli i fogli sotto il naso.

    - Sì, papà, da quando ho scritto il mio nome sul documento -, rispose Marcus, apparentemente sicuro del fatto suo.

    Il padre lo guardò, furioso. Karl Hamilton era un uomo che ne aveva passate di cotte e di crude. Dalla morte di sua moglie, la vita era diventata difficile per lui. Ci mancava solo la decisione di Marcus di essere una recluta!

    - Figlio mio, - spiegò il signor Hamilton, con tono più tranquillo, quasi triste. - da quando tua madre ci ha lasciati… io mi sono promesso che avrei fatto l’impossibile per preservare te e le tue sorelle da ogni male, invece… Io ho avuto l’idea del progetto TK-Reclute, e non ho mai tenuto conto della possibilità che tu avresti potuto offrirti volontario. Ti chiedo solo perdono per questo.

    - Non ce n’è motivo -, rispose Marcus. - Dobbiamo fare qualcosa. La Terra è morta. Non possiamo perdere anche questa stella. Non possiamo. Perciò farò il mio dovere. Ora, se permetti, devo andare.

    - Oggi sarà l’ultimo giorno che lavorerai in quel bar -, disse il signor Hamilton. - Devi dimetterti. Voglio che ti riposi e che pensi solo a questo compito. A proposito, dovrei andare a vedere come procedono i lavori per la base.

    - Base?

    - Sì, la stanno costruendo ora. C’è una galleria sotto questo palazzo, e fuori dalla città è situata la base di TK-0-fA.

    Marcus annuì.

    - Ricorda, figliolo: Alnitak ormai è la nostra patria -, la voce dell’uomo era grave e se ne avvertiva la malinconia. - Proteggila.

    Il ragazzo prese la sua giacca. - Certo, padre.

    Detto questo, si chiuse la porta dell’ingresso alle spalle e, scese le scale del portone, si trovò sotto il portico del condominio, accanto al quale c’era una moto. Salì su di essa, si mise il casco e sfrecciò a tutta velocità lontano dalla periferia.

    Quando arrivò in centro, Marcus scese dalla moto, davanti ad un bar con un’insegna in francese: Fleurs des Champs. Era stato aperto dalla madre, Marie. Dopo la sua morte, però, il bar non fu più di proprietà della famiglia Hamilton, ma passò a Jacques, fratello di Marie e zio di Marcus.

    Entrò nel bar: un grande tavolo di legno spiccava al centro, circondato da sedie, e di lato, davanti al bancone, c’erano alti sgabelli.

    Le pareti erano abbellite con decorazioni floreali, in particolare fiori di campo che richiamavano il nome del bar, e dietro al bancone, tra bottiglie di ogni possibile liquore, faceva ancora capolino qualche foto di Marie: i bellissimi occhi azzurri e i lunghi capelli rossi rendevano ancora più brillante quel sorriso di denti bianchissimi.

    - Marcus! A lavoro! - urlò il barman dal bancone, un uomo alto e con il pancione, i baffi in ordine e pochi capelli sulla nuca.

    Il ragazzo si mise un grembiule nero e cominciò a servire bevande e ogni genere di squisitezze ai clienti. Rustici, liquori, succhi di frutta, stuzzichini, gelati, caramelle di ogni gusto, bicchieri d’acqua, aperitivi… La specialità della casa era il caffè. Quello che preparava Marcus, poi, era molto apprezzato. Un caffè diverso dal normale, con un aroma unico e inconfondibile.

    - Come fai a preparare una tale delizia? - chiesero alcuni clienti, mentre ne sorseggiavano un po’.

    - Non lo posso dire -, sussurrò il ragazzo con aria misteriosa. Mai aveva fatto parola con qualcuno della sua ricetta segreta!

    A mezzogiorno Marcus preparò la sua centesima tazza di caffè, ma non era la prima volta che raggiungeva quella quota. Tempo prima ne aveva servite ben centocinquanta.

    Volle pranzare: un panino, una mela, un caffè – sempre preparato da lui – e poi si rimise a lavoro.

    Marcus aveva una certa passione per il caffè; il pensiero che presto non ne avrebbe preparato più per i clienti lo rendeva triste.

    - Zio -, disse, con tono tranquillo.

    - Marcus! Oggi stiamo andando alla grande! - esclamò il barman.

    - Si lo so, ma, vedi… io devo… Mi dispiace, ma devo dimettermi, almeno per ora.

    Il barman lo guardò, stupito. - Come mai?

    - Motivi di Stato. Mi hanno offerto un lavoro più importante da fare. Per ora.

    - Sarebbe?

    Marcus non voleva mentire. Si limitò, perciò, a dire:

    - Devo lavorare a un progetto. Riguarda la difesa di Alnitak. Ma non posso pubblicizzare tanto. Sai com’è…

    Il barman lo guardò, serio. - Qualsiasi cosa tu debba fare, spero che preparare il caffè sia meno divertente.

    Poi si voltò, visibilmente contrariato.

    - Zio, è la verità! - si difese Marcus.

    - Sì, come no! Sparisci! - Il barman si avvicinò, arrabbiato. - Sai, credevo che tu fossi almeno un po’ simile a tua madre, ma mi sbagliavo. Sei proprio uno scansafatiche, un pigrone…

    Si rigirò e andò in cucina.

    Marcus, allora, appoggiò il suo grembiule sul tavolo e mormorò:

    - Ci vediamo.

    Deluso e rammaricato, uscì. Il barman si affacciò alla porta dopo qualche secondo: era triste vedere il giovane nipote che si allontanava sempre di più.

    Il ragazzo andò via sulla sua moto. Nonostante conoscesse il carattere a volte duro dello zio, si sentiva veramente deluso. Sapeva che la scelta di collaborare con lo Stato gli sarebbe costata non poche seccature. Quello era il primo di una lunga serie di guai ben maggiori, ne era certo.

    11 gennaio 65. Ore 13.35.

    Marcus, giunto a casa, scese dalla moto, quando vide delle persone uscire dal suo garage. Tra queste riconobbe il signor Hamilton, Geraldine e Conrad Lloyd, il suo migliore amico.

    Si avvicinò, incuriosito.

    Capitolo 2

    TK-0-fA

    - Ciao, Marcus! - urlò Geraldine, correndo verso il fratello.

    - Ciao, Geraldine! Com’è andato lo sciopero?

    La ragazza rise. - Abbiamo buttato le uova marce in faccia al preside.

    - No! - esclamò Marcus. - Non è possibile. Se fosse vero a questo punto non saresti qui a raccontarlo, ma in punizione!

    - Infatti è una bugia! - gli spiegò Conrad. Aveva i capelli biondi e lunghi, legati in un codino, un po’ di barba sul mento pronunciato e gli occhi scuri. Indossava giacca e cravatta, che gli davano l’aria da personaggio distinto, ma aveva un sorriso che ingannava l’abbigliamento serio ed elegante.

    - Conrad! Come va il lavoro? - chiese Marcus.

    - Bene! Il bancario è un lavoro straziante, ma ormai sto diventando un grande esperto. Gli affari vanno a gonfie vele.

    - Marcus! - urlò il signor Hamilton. I tre ragazzi si avvicinarono all’uomo, che disse:

    - Allora, nel garage c’è l’entrata del nascondiglio di Tukus.

    - Si può sapere cos’è questo Tukus? - si lamentò Geraldine.

    - Ora lo saprai -, rispose Karl Hamilton.

    - Come sarebbe? - chiese Marcus.

    - È chiaro: Geraldine ti aiuterà! - disse Conrad.

    - Non se ne parla! Tu devi stare fuori da questa storia; è pericoloso!

    - No, io verrò con te! - insistette Geraldine, anche se non capiva da quale storia dovesse stare fuori.

    Marcus rimase evidentemente deluso. La ragazza non sapeva quello che diceva, ma l’importante era che almeno Geneviève non fosse stata coinvolta.

    Il signor Hamilton entrò nel portone, dicendo:

    - Aspettatemi un attimo!

    Tornò qualche minuto dopo con una scatola di cartone.

    - Mamma mia! È arrivato Babbo Natale! - esclamò Geraldine, con il suo solito tono ironico.

    - Ma Babbo Natale non fa mica doni di questo genere -, disse il signor Hamilton, appoggiando la scatola a terra. L’aprì e ne estrasse una pistola scura, di ferro ma apparentemente leggera e maneggevole. La porse a Marcus dicendo:

    - Pistola a raggi laser. Sarà la tua arma.

    - Arma? - s’informò Geraldine.

    - Fa parte del progetto TK-Reclute che ogni pilota abbia la sua arma? - chiese Marcus.

    - Certo, potrebbe tornare utile, e non solo alla recluta.

    - A Babbo Natale non piace la guerra! - continuò a insistere Geraldine.

    - Smettila! C’è qualcosa anche per te! - esclamò suo padre, prendendo dalla scatola una piccola lancia di metallo. La ragazza la guardò, aggrottando la fronte.

    - Uffa, ma Babbo Natale…

    - E basta con questo Babbo Natale! - urlò il signor Hamilton, esasperato, mentre consegnava a Conrad una specie di fiaccola metallica. - Neanche esiste!

    - Lo dici tu! Io credo a Babbo Natale! - la ragazza incrociò le braccia, offesa.

    - Allora, ragazzi, queste sono le vostre armi -, disse l’uomo, sorridendo.

    - Papà, quindi tu credi a Babbo Natale? - continuava a chiedere Geraldine, ignorando le raccomandazioni del padre.

    - Sì, sì, ci credo, basta che tu stia zitta. Ah, Marcus, ti devo dare anche un’altra cosa!

    Gli consegnò un piccolo involucro di carta.

    Marcus lo prese e, spinto dalla curiosità, lo aprì: era una medaglietta a forma di rombo, lucida, tutta rossa, con al centro una strana forma gialla simile a una mezzaluna. La guardò per qualche secondo, poi la mise in tasca.

    - Allora, facciamo una visitina a questo Tukus? - Conrad sembrava entusiasta.

    - Va bene! Ci vediamo dopo! - Il signor Hamilton scomparve nel portone.

    I tre ragazzi si guardarono, sorridendo.

    - Bene, ora andiamo! - disse Marcus, entrando nel garage.

    Conrad lo seguì. Geraldine non si mosse.

    - Ehi, bellezza, non vieni? - chiese il ragazzo biondo.

    - Okay, verrò -, rispose Geraldine, esitante. Mise la lancia in tasca e seguì gli altri.

    Il garage era un grande stanzone buio, freddo, illuminato fiocamente solo da una lampadina appesa al soffitto. Era pieno di ogni tipo di cianfrusaglia, vecchi indumenti, libri, biciclette, e al centro era parcheggiata una macchina. A terra c’era una botola di ferro, con due piccoli pulsanti di lato, uno rosso e uno verde.

    I tre si chinarono sulla botola e Marcus pigiò il pulsante rosso. Non successe niente. Allora provò con quello verde, tenendolo premuto per qualche secondo.

    - Impronta digitale memorizzata! - disse una voce metallica, proveniente da alcuni buchini vicino ai pulsanti. - Password?

    Nella mente di Marcus cominciarono a vorticare decine di parole.

    - Babbo Natale -, disse Geraldine, vicino ai buchini.

    - Password errata!

    - Allora la password è già stata inserita! - constatò Marcus.

    - Password errata!

    - Tuo padre si è dimenticato di darcela -, aggiunse Conrad.

    - Password errata! - insisteva la voce.

    - Alnitak!

    - Password errata!

    - Un momento… - Marcus prese il cellulare con l’intenzione di telefonare a suo padre, mentre la voce metallica continuava a ripetere come una cantilena la solita frase.

    - Papà! Qual è la password?... Marcus-TK-1…

    La botola si aprì lentamente, e la prima cosa che venne in mentre di fare ai ragazzi fu quella di guardarci dentro. Non si vedeva niente, solo una luce proveniente di lato, come se ci fosse un tunnel. Per scendere nella botola vi era inserita una scala.

    - Grazie, papà. A dopo! - salutò il ragazzo al telefono, prima di riporlo in tasca.

    - Bene, cosa c’è là sotto? - chiese la ragazza.

    - C’è Tukus -, rispose Marcus.

    - Ah! Allora questo Tukus, o come si chiama, è una persona!

    - Tukus è un robot.

    Geraldine si lanciò letteralmente nella botola. Era profonda solo pochi metri.

    - Ecco il fondo! - esclamò.

    - Arrivo! - urlò Marcus, facendo un salto mortale. Appena fu giù vide una lunga galleria, illuminata da dei fari disposti ordinatamente a terra.

    - Conrad! Vieni anche tu o no?

    Conrad esitò un po’, ma poi con un gesto svelto si tolse la cravatta, la giacca e la camicia, scoprendo una canottiera color crema e un tatuaggio sul braccio. Dopodiché saltò nel buio urlando:

    - Sto arrivando, adrenalina!

    Non finì neanche di parlare che si ritrovò con il sedere per terra.

    - Stai bene? - Geraldine lo aiutò premurosamente ad alzarsi.

    - Benone! - Conrad si rimise in piedi, mentre la ragazza guardava il tatuaggio: una rosa rossa su un rampicante pieno di spine che gli circondava l’intero arto.

    - Bene, dove porta questo tunnel? - si domandò ad alta voce Marcus.

    - A niente -, rispose Geraldine.

    - Il niente non esiste per me! - disse Conrad, impavido.

    Marcus cominciò a camminare, seguito dai due. Il tunnel era apparentemente corto, dovevano essere circa un centinaio di metri, ma là sotto sembravano chilometri.

    Gli unici suoni che si udivano erano i loro passi, ai quali si aggiunse, qualche istante dopo, un rombo pauroso. I tre si allarmarono, ma Geraldine, avvertendo la presenza di qualcuno dietro di lei, senza voltarsi, mollò a quel qualcuno un bel pugno.

    Si sentì un gemito e la ragazza si voltò automaticamente: Conrad si era portato le mani al viso.

    - Mi dispiace! - si scusò Geraldine, rendendosi conto di averlo colpito.

    - Ahi!

    - Sempre la solita, Geri! Gli avrai rotto il setto nasale! - la rimproverò Marcus.

    - No, no, sto bene! - la voce di Conrad provava l’esatto contrario delle sue parole. Continuando a tenere le mani premute sul naso, riprese a camminare con gli altri.

    - Scusa tanto. Non volevo farti male!

    - Non importa! - il tono di Conrad era rimasto invariato.

    Dopo un po’ i ragazzi si accorsero che davanti a loro regnava il buio. Non c’erano più fari a terra.

    - Vicolo cieco! - proferì la ragazza. - Lo dicevo che non portava da nessuna parte!

    Marcus sbuffò, seccato dal continuo parlare a vanvera della sorella.

    Quando i loro occhi si abituarono al buio, cominciarono a distinguere l’ombra di una porta.

    Si avvicinarono e videro lo stesso tasto verde di prima, lo scanner per le impronte digitali.

    Marcus ci mise sopra il dito e si sentì uno scatto provenire dalla maniglia. Così i tre attraversarono la porta e si trovarono in un’enorme stanza buia. Nell’oscurità intravidero l’ombra di un gigante.

    - Ah, e ora che facciamo? - Geraldine sembrava disperata. - EHI! SE QUALCUNO CI SENTE, POTETE ACCENDERE LA LUCE?!

    La voce della ragazza rimbombò nella grande stanza. - Uffa! Fate qualcosa!

    Marcus tastò la parete, finché non trovò un interruttore. Nell’arco di pochi secondi tutte le luci erano accese.

    I tre si guardarono attorno: si trovavano su una piattaforma che si estendeva attorno alla parete cilindrica di un grosso scatolone. Sul soffitto c’era un’enorme botola, accanto alla quale degli enormi fari facevano risplendere le pareti argentee.

    La piattaforma circondava un corpo metallico dalle dimensioni abnormi.

    I ragazzi si avvicinarono al parapetto e riuscirono a vedere il robot interamente. Era alto circa una trentina di metri. La testa era blu, con sopra quello che sembrava un cappello rosso, inclinato di quarantacinque gradi formando una piccola apertura. Su di esso erano inserite due robuste antenne, una delle quali spuntava dalla fronte; al posto degli occhi aveva una vetrata a forma di V. Il torace era blu e molto ampio, quasi sproporzionato. Al centro di esso vi era posizionato un grande faro di forma rombica, con una mezzaluna dorata e scintillante come una

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