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La compagnia Vessel: Cronache di U.T.O.P.I.A. vol. 1
La compagnia Vessel: Cronache di U.T.O.P.I.A. vol. 1
La compagnia Vessel: Cronache di U.T.O.P.I.A. vol. 1
E-book253 pagine2 ore

La compagnia Vessel: Cronache di U.T.O.P.I.A. vol. 1

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Info su questo ebook

Albori del terzo millennio. La narrazione apre una finestra su un'era post-moderna, segnata dalle piaghe dell'inquinamento e delle guerre civili in un nuovo contesto geopolitico. L'avvento della tecnologia ha plasmato un mondo in cui uomo e macchine non senzienti coesistono in una civiltà in cui gli uni dipendono strettamente dalle altre per infrastrutture, trasporti e comunicazioni. Le vicende si aprono nella fossa delle Marianne. Un sottomarino USA si addentra nelle profondità oceaniche in missione di disarmo di un potenziale ordigno di natura sconosciuta. Si salta indietro di tre anni. Un improvviso furto di un prototipo dal quartier generale della NASA minaccia una proroga se non l'annullamento di una missione di esplorazione e terra-formazione del sistema solare. Le peripezie di Nicholas Peterson, un giovane neoassunto in un'industria di ingegnerizzazione chimica che si avvale di tecnologie d'avanguardia, si intersecano con un background di personaggi secondari che impreziosiscono la storia centrale con i loro trascorsi. Eventi passati delineano un sottile quadro la cui trama resta al di sotto della superficie. Il presagio di sussurri e cospirazioni arcane getta ombre su un presente incerto, segnato dai drammi d'infanzia di Nicholas che si trova dinnanzi a un bivio che minaccia di stravolgere la sua intera esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ago 2023
ISBN9791221496406
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    Anteprima del libro

    La compagnia Vessel - Domenico Peconio

    1.

    ABISSO

    In un imminente futuro…

    Fossa delle Marianne

    8 Gennaio 2051, 05:56 a.m.

    Il sottomarino ABYSS-04 procedeva oramai da diverse ore in discesa libera addentrandosi nei più remoti abissi del pianeta Terra, in angoli di mondo ignoti al genere umano. La sua ingegnerizzazione aveva richiesto fior di milioni di dollari e meno di dieci giorni di lavoro. Avrebbe dovuto resistere a pressioni estreme: centinaia di migliaia di libbre per centimetro cubo e temperature glaciali. Obiettivo: una disparata missione di recupero d’un relitto arenato sulla madre di ogni fondale. Alle sei in punto del mattino, ora della costa orientale, ABYSS detenne il primato di essere il primo sottomarino della storia adepto al recupero ad approdare nella fossa delle Marianne, undici chilometri al di sotto della superficie terrestre. Lewis Patterson, l’uomo selezionato dal governo USA per la missione era tra i più rinomati artificieri al mondo. Il suo curriculum vantava territori quali Iraq, Libia, Qatar. Egli scrutò fuori dall’oblò. Il nero fu quanto di più potesse sperare di vedere. Il barlume sfuggevole che filtrava appena dagli strati più superficiali dell’oceano pacifico gli permise di cogliere alcune forme indistinte di animali marini. Intravide il lento danzare nell’acqua di quegli strani viventi senza volto. Albino era il colore delle loro pelli. O forse grigio. Privo d’ogni sorta di pigmentazione. A lungo Lewis si chiese se non fosse appena approdato su un mondo alieno. Il fondale, rischiarato dai fari di prua e laterali, appariva non dissimile alla superficie lunare. Profondi squarci nella crosta terrestre e abissali crateri di cui ignorava la profondità. Pareva notte, ma non v’erano stelle in quell’artico oceano. La temperatura dell’acqua s’aggirava su un paio di gradi Celsius al di sopra dello zero. Patterson avvertì un brivido corrergli lungo le vertebre, un gelo penetrare le sue vecchie ossa. Il capitano di Marina Alan Finnegan, coordinava le manovre di discesa negli abissi. Era un uomo di media statura dalle grosse braccia che riempivano la bianca uniforme, decorata di gradi e medaglie al valore.

    Un attimo più tardi spese parole con Patterson.

    Non esattamente l’Iraq, non crede?.

    Altroché.

    Alan prese a rassegna la cloche, registrando i parametri sul diario di missione del capitano.

    Profondità: 11033 metri

    Temperatura interna: 68°F

    Temperatura esterna: 37°F

    Pressione esterna: 100 Mpa

    Conclusa l’operazione azionò i sonar di fondale.

    Scansione circostante. Mappatura dell’obiettivo. Obiettivo ad ore tre. Correzione rotta 1,1 gradi sud. 2,5 gradi ovest. Obiettivo inquadrato. Distanza: 42,6 piedi. Nessun contatto visivo. Rilascio sonda ISIS tra dieci secondi. Rilascio tra quattro, tre, due, uno, rilascio completato.

    Alan indossò dei guanti sensori servendosi dell’aiuto di Patterson, timoroso di romperli. Finnegans manovrò ISIS per tredici metri ad ore dodici.

    Obiettivo raggiunto. Rilascio ganasce meccaniche.

    Il capitano strinse forte i pugni. I sensori di movimento installati sui suoi polpastrelli, recepito il movimento, eseguirono il comando di aggancio.

    Bracci meccanici in posizione. Assemblaggio completato.

    Dieci minuti dopo ISIS fece ingresso nel vano preposto al suo contenimento.

    Procedo alla depressurizzazione interna dell’area. Attivazione pompe alpha, beta e gamma. Depressurizzazione completata. Patterson, è giunto il suo momento. Mi segua. Faccio strada. Prenda tutto l’occorrente ordinò Finnegan.

    Lewis raccolse un borsone nero CK che l’aveva accompagnato per viaggi crudeli nei quali le possibilità di ritorno si erano avvicinate pressoché allo zero. Alan guidò Patterson lungo corridoio del ponte K, conducendolo ad un ascensore di servizio. Fece cenno all’uomo di entrarvi, salendovi a sua volta e chiudendo le inferriate. Abbassò una leva, scorrendo i piani sino al ponte H. Il montacarichi si arrestò con un sussulto. Finnegans aprì le porte guidandolo sino alla stanza ANUBYS, chiusa ermeticamente da un portellone di piombo spesso mezzo metro. Il capitano ruotò con tenacia facendosi leva posando il capo sulla spalla. Gli ingranaggi di siglatura scorsero nel verso opposto. Con l’aiuto di Patterson spalancò il portellone, mostrando l’ISIS a quest’ultimo. La sonda cingeva avidamente a sé un dispositivo cilindrico alto circa tre metri e largo forse due.

    Questa è l’ultima? domandò attonito Patterson, posando una mano sul freddo relitto oceanico.

    La superficie era rivesta di prolifiche alghe nere tra le quali sgusciavano strani piccoli anfibi similari a cavallette.

    Patterson forzò per rimuoverne una. Era ancorata saldamente con una sorta di qualche enzima filamentoso che somigliava ad un rigurgito per la sua consistenza.

    Le linee di faglia di Burkley dicono questo. Possiamo solo sperarlo. Pensa di poter operare sul posto?.

    Ognuna d’esse è stata concepita con crudeltà inumana. Non come un ordigno ma come una trappola. Ho bisogno di tempo. Quanto più me ne possiate dare.

    Avete venti minuti. E se Dio ci assiste arriveremo al centro di contenimento più vicino.

    2.

    CONSEGNA

    Tre anni prima…

    PHOENIX: principale centro commerciale, finanziario e manifatturiero dello stato dell’Arizona con una popolazione di 2'913'767 abitanti, aggiornata all’anno 2047. Situata nel cuore di una regione agricola irrigata dalla diga Roosevelt, essa include attività del settore secondario quali industrie metallurgiche ed elettroniche orientate alla progettazione e la produzione di equipaggiamento aerospaziale.

    Phoenix, stato dell’Arizona

    Arizona State University

    L’ASU consta di un complesso circolare in mattonato cotto, sottotetti a schiera ricoperti di tegole verde bottiglia e imponenti vetrate a parete che conferiscono luminosità agli innumerevoli dipartimenti ospitati all’interno della facoltà. Il suo possente e vasto cortile in porfido a struttura quadrangolare è costellato di panchine in cemento, vani biciclette ed aree di verde in cui trovano habitat fiori stagionali, aghifoglie e floride palme. In uno dei suoi ampi atrii era stata allestita la tradizionale cerimonia annuale di consegna degli attestati ai laureandi del campus.

    18 Luglio 2048, 09:23 a.m.

    Seduto in prima fila su una di quelle sedie da giardino in vendita per una manciata di dollari ai grandi magazzini Mulholland in Main Street, Nicholas avvertiva un forte ed implacabile disagio. Una moltitudine di persone alle sue spalle. Dieci, se non quindici file di sedie rispettivamente occupate da una trentina di persone per ciascuna fila. Solo due parole ed il suo senso di malessere crebbe vertiginosamente.

    Nicholas Peterson.

    Quelle parole erano per lui.

    Si sentì mancare. S’alzò in piedi, procedendo lungo uno stretto percorso segnato da mattonelle color magnolia. Era circoscritto da giovani alberelli d’acacia. Il profumo lo inebriò, facendogli pulsare le tempie. Una voragine di disagio gli cosparse i visceri. Salì tre piccoli scalini che lo condussero al centro dell’anfiteatro. Prevedibile e spietato come una scarica di proiettili, un turbinio di flash di olocamere 3D prese ad animare il momento. Parenti ed affini se ne stavano spaparanzati coi loro sorrisetti beoti, alcuni intenti ad immortalare l’evento al solo scopo di potersi pavoneggiare coi vicini di casa che il sangue che scorreva nei Peterson fosse di qualità superiore. Nicholas non vi prestò alcuna attenzione.

    Incrociò lo sguardo della madre. Gli trasmise un immediato senso di sicurezza seppure fosse a diversi metri da lui. I suoi scuri occhi s’erano fatti lucidi, segno del fatto che s’era commossa per qualcosa che non fossero le sbronze saltuarie del figlio. Nicholas si soffermò una manciata di secondi ad osservarla. Il capello castano tagliato alle spalle. Un vestito perla con fiori verdi. Tra le mani una polaroid risalente all’inizio degli anni ’70 acquistata da sua madre durante un viaggio in Italia. I momenti che quella sorta di macinapepe aveva immortalato erano qualcosa d’autentico. Era forse la sola ragione per la quale la donna non era ancora riuscita a rimpiazzarla con una di quelle videocamere slim senz’anima. Anni addietro il gestore del Phoenix antiquarium si era detto pronto a staccare un assegno a tre zeri per la medesima. Ad ogni modo lei non vi rinunciò. Nicholas rinsavì, allontanando dalla mente quei pensieri che per un istante l’avevano distolto dalla realtà. E la realtà era che stava per ritirare l’attestato di laurea. Un uomo piuttosto basso e di grossa corporatura gli andò incontro, fermandosi a due passi da lui. Capelli e occhi scuri. Sulla cinquantina. Single, con un divorzio alle spalle. Nel campus si mormorava che un giorno, tornando a casa in anticipo per problemi di salute, lì vi trovò la moglie tra le braccia di un altro uomo.

    L’uomo lo guardò negli occhi, fiero della discussione della tesi di Nicholas. Era stato il suo docente di ingegneria chimica e aerospaziale per cinque anni, definendo lo studente come il più assiduo frequentatore dei suoi corsi da quando lui aveva messo piede nel campus nel lontano 2025. Queste, le parole che un giorno gli disse al termine di un corso. Frederick allungò una mano verso il ragazzo, presentandogli la cartacea laurea. Nick osservò la pergamena avvolta su sé stessa e rilegata con un nastro di stoffa ciano.

    Conferisco Laurea ad Honorem con Laude in Engineering Scientiis a Nicholas Peterson.

    Il ragazzo la afferrò. Fu allora che si rese conto che stava tremando. Mani madide, conati di vomito trattenuti a metà esofago. Aveva preparato un discorso. Un ringraziamento ai genitori, un augurio ai nuovi arrivati nel campus presenti in qualità di spettatori alla consegna delle lauree. Le parole non vollero saperne di uscirgli di bocca. Si limitò ad emettere una serie di monosillabi strozzati, quasi soffocati davanti al microfono aperto. Il serpeggiare del filo lo fece trasalire. Per un attimo ebbe il sentore che un paio di grosse fauci sarebbero fuoriuscite dalla testa del microfono, divorandogli la faccia. L’idea non gli dispiacque. Di tutti i luoghi in cui avrebbe voluto essere, quello era senz’altro in fondo alla graduatoria. Avvampò. Qualcosa disse.

    Scusate.

    Dopodiché si limitò a spostare, come tradizione chiede, il ciuffo del cappello dall’altro lato apprestandosi a lasciare il palco. Ripercorse la strada a ritroso, canticchiando nervosamente il ritornello di Sorry seems to be the hardest words. Scusa... sembra essere la parola più difficile da pronunciare. La cantilena gli entrò in testa, facendogli salire una sensazione di vomito. Nick si sedette all’ombra di un imponente acero, nei pressi della cerimonia. Sentì il battito cardiaco rallentare e la pressione ristabilirsi. Di lì sentì il senso di nausea e disagio scemare. Si passò una mano sulla toga stropicciata, lisciandola. Quell’albero gli aveva fatto compagnia durante le sessioni d’esame. Perdervisi sotto, ascoltare il fruscio del vento fra le sue fronde, il canto dei pettirossi, la quiete del mondo animale era stato d’ispirazione per lo studio. Quel giorno la quiete non era destinata a durare. Dopo un breve minuto, citazione adottata dalla maggior parte dei conduttori televisivi quando sopraggiunge il momento di andare in pubblicità, la famiglia lo raggiunse.

    La madre per prima.

    Tesoro, cos’è successo?.

    Seguì la paternale Cosa c’è che non va?.

    Niente, John ribattette.

    Era sua consuetudine chiamare i genitori coi nomi di battesimo. Aveva letto su una rivista che un gesto talmente banale aumenta l’intimità e intensifica i rapporti affettivi, facilitando il dialogo all’interno del nucleo familiare.

    Nick... Dai... lo spronò Marion.

    Riprese parola.

    Sono io che non vado, non vado e non andrò proprio da nessuna parte se non riesco neppure a tenere un discorso in pubblico senza reagire come un idiota. Oggi ho perso le parole, avrei dovuto ringraziarvi... avrei... avrei... Possiamo tornare a casa?.

    Ma c’è il rinfresco per i laureandi e poi la festa delle matricole. Sicuro di volerla saltare? Sono cose che capitano una volta nella vita lo ammonì Lucius.

    Nick lo guardò in cagnesco. I Peterson si scambiarono uno sguardo. Poi annuirono in silenzio, imboccando la strada per il parcheggio.

    Guardala con filosofia, sopravvivrai no? irruppe il fratello, totalmente fuori luogo.

    Nick gli lanciò un’occhiataccia.

    Non t’azzardare a compatirmi.

    Non ti sto affatto compatendo, ti stavo solo mostrando la cosa da un’altra prospettiva. Ormai sei laureato.

    Continuò a guardarlo storto. Seguì una serie di insulti reciproci che finirono per incrementare la sua frustrazione.

    Taci una buona volta inveì Nicholas.

    Scontroso gli rispose d’impeto il fratello.

    Stupido.

    Idiota.

    Vai a fare in culo.

    E BASTA, NICK tuonò John, ristabilendo la decenza.

    Possibile che più cresciate più torniate indietro?.

    Nicholas aprì lo sportello richiudendolo violentemente.

    E non sbattere... Non sei il figlio del meccanico lo ammonì ancora il padre.

    L’auto, un’alfa romeo verde militare del 2044 con motore turbo diesel 160 KW 190 CV, si mise in moto con un rombo infernale, sfrecciando via dal campus.

    . . .Odioso luogo. . . meditò il ragazzo.

    L’aveva amato per un lustro. Ed ora il fervente desiderio era quello di vederlo implodere senza lasciarne traccia nel mondo.

    La vettura percorse le solite strade, il solito quartiere, i soliti viali. Nick proiettò lo sguardo fuori dal finestrino. Le solite villette a schiera in legno di faggio con giardino antistante, tutte bianco cadavere, tutte prefabbricate, tutte eguali.

    L’auto s’arrestò bruscamente davanti casa. Nick scese. Si diresse verso il porticato. Attese fino a che il portone non fu aperto. Sua madre pronunciò qualcosa del tipo ‘Se ne vuoi parlare’ ma non le diede credito. Era demoralizzato. Salì al piano superiore, percorse un breve corridoio poi un'altra rampa di scale. Giunse in mansarda. Entrò in camera chiudendosi la porta alle spalle. Diede due mandate alla serratura, abbandonandosi sul letto. Prese a fissare il soffitto, lo sguardo schiacciato dal peso dell’amaro.

    Chi diavolo sono io? si interrogò in preda allo sconforto.

    Sentì bussare. Ignorò. Un’altra bussata, poi piovve il silenzio. Si voltò su un fianco, incrociando il riflesso del suo metro e settanta nello specchio. I folti capelli biondi che scendevano mossi al pari delle spalle. Gli occhi cinerei. Questi ultimi erano patrimonio ereditario di suo nonno Nicola, italiano emigrato negli States per inseguire il sogno di aprire un ristorante di cucina tradizionale. Nick si guardò a lungo. Per una volta non si riconobbe.

    Chi era adesso? Egli non lo sapeva. O forse lo sapeva. Un fallito. La parola s’accostò ad una vignetta di humour nero che prese forma nella sua testa. Un fallito che non sapeva cosa avesse in serbo per lui il futuro. Un ragazzo con tanta voglia di fare ma anche tanti dubbi. Un ragazzo incerto, proprio come il futuro che lo attendeva. L’interrogativo lo assillò per diverse ore. Era una costante che non gli dava pace. Un ronzare nella testa.

    Fallito. Fallito.

    Quando la stanchezza lo pervase le immagini si fecero soffuse, indefinite. Lasciò che il materasso lo ingoiasse, precipitandolo in un consolatorio sonno. Fu l’ultimo spiacevole ricordo di un’amara, ingiusta giornata.

    3 anni prima...

    Giappone

    Nagasaki, Prefettura di Nagasaki

    INFOCOM, _ΛSTRΛ_ center

    divisione RED

    6 agosto 2045, 07:07 a.m.

    Un ometto esile dal tratto nipponico si faceva strada a passo lento e ponderato lungo il lunghissimo corridoio del centro ASTRA, di propria costruzione. Il taglio di capelli estremo. Una cesta di spine poco più lunghe di mezzo centimetro gli avvolgeva il cranio. Sul suo volto l’ombra di un baffo estinto ed un curioso pizzetto a triangolino. Se lo carezzò mentre seguitava la marcia lungo l’SS, lo Steel Snake. Serpente d’acciaio. Ora l’uomo svoltava a sinistra, poi a destra e di nuovo a sinistra, circoscrivendo una serie di anse geometriche che costeggiavano gli innumerevoli cubicoli di lavoro del settore R & D,

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