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TINO.VET: Un sogno lungo una vita
TINO.VET: Un sogno lungo una vita
TINO.VET: Un sogno lungo una vita
E-book526 pagine5 ore

TINO.VET: Un sogno lungo una vita

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Info su questo ebook

Tino.vet, storia di una scaglia di sapone e di una bruschia. Un sogno che parte

da lontano, nell’Agro lodigiano; terra intrisa di fatica, di un antico sapere: prati da sfalciare, cavalli da domare,vacche da mungere, latte da coagulare.

Nasce nel cuore di un padre che sapeva solo dare; in cambio del rispetto dovuto all’uomo onesto che fa della sua vita una missione, nel segno di Colui che tutto muove...
LinguaItaliano
Data di uscita5 ago 2014
ISBN9788891152503
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    Anteprima del libro

    TINO.VET - Modesto Tonani

    tour

    Incipit

    Prescrizione officinale

    Per ottenere un veterinario di campagna da impiegare tutti i giorni di un intero anno alla bisogna, in stalla, porcilaia, scuderia e in ogni angolo di fattoria, per una mastite, una distocia o qualsivoglia genere di epidemia...

    R/

    Un sognatore sulla trentina,

    innamorato della vita e della sua dottrina;

    mettilo in un corpo robusto q.b.

    diciamo un bersagliere, di quelli

    che pensano, agiscono e corrono veloci;

    temprato alla scuola della vita,

    figlio della sua terra laboriosa,

    concreta e dignitosa...

    Non dimenticare un cuore grande da campione

    di quelli che scalano montagne, travolgono primati,

    piangono spiando da una fessura una vita appena salvata,

    ricomponendo il tutto con un secchio d’acqua fresca,

    una scaglia di sapone ed una bruschia...

    S/

    Lancialo allo sbaraglio nella mischia,

    fiero del suo messaggio che lo sprona

    a cogliere l’assoluto in una stalla o porcilaia,

    chiedendo aiuto e supporto alla bisogna,

    specie quando arranca e tutto sembra perduto.

    Fa che questo divenga e, soprattutto,

    rimanga la sua unica missione:

    portare la salvezza dove c’era afflizione...

    la consapevolezza che tutto ha una ragione;

    che tocca a lui, col comune conforto,

    trovare una soluzione,

    riportare il sorriso e la speranza,

    smorzare il pianto o la disperazione...

    Fa che si senta fiero, lui per primo,

    del suo apporto generoso e adamantino;

    che mai si spenga questa sorta di umana pietà

    che fa di noi veterinari la culla della dignità...

    Tino.vet

    Parte prima

    Il Mulomedico

    Teorema

    Vuoi vedere che se prendi un terrazzo racchiuso tra Adda, Lambro e Po, lo chiami Ager Laudensis, ci metti gente ostinata che, sgobbando per secoli, trasforma un ambiente ostile ed insalubre in un territorio tra i più produttivi d’Europa, un gioiello organizzato nel lavoro della cascina; che si inventa un miracolo quale un’industria casearia di rilievo internazionale, basata su di un carico bovino eccezionale, funzione dell’ enorme estensione prativa favorita dalla capillare irrigazione, introduci con ciò stesso la figura, l’asse portante di un sistema che tutto il mondo ci invidia tuttora?

    Il Prometeo, l’artifex maximus, il garante di un sistema produttivo che dalla cura del bestiame nelle stalle alla vigilanza sulle medesime e relative derrate alimentari, governa con spiccata abnegazione le pieghe più recondite del nostro vivere civile è e riamane il Medico Veterinario.

    - Nella nostra Milano, nel bar della nostra Facoltà di Veterinaria, come a diecimila metri di quota, quando una hostess serve il pranzo ai passeggeri di un jet dell’Alitalia in volo da o per la nostra bella metropoli lombarda, il contributo del veterinario si profila nel controllo della salubrità del cibo e delle derrate proposte e consumate...

    (Primo giorno di lezioni del corso di laurea 1974 – 79 presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano, prof. Giuseppe Corsico, docente Ispezioni Alimenti di Origine Animale II, nonché direttore del macello di Milano.)

    Quae Gentes...

    A Milàn gh’è ‘l pan, se laura de lena e se sta mai cu’i man in man...

    A Lodi ci siamo superati: da un territorio acquitrinoso abbiamo ricavato prati fertili ed irrigui, foraggi per le mandrie e latte per l’industria casearia che ci ha visti primi attori nel sistema capitalistico nazionale. Un viaggio che partiva dalle valli svizzere e si perfezionava nelle stalle lodigiane dove il latte munto veniva lavorato nei caseifici aziendali o, in seguito, inviato alle performanti latterie sociali che miglioravano il prodotto che finalmente superava con successo i confini nazionali. E’ comprensibilmente induttivo considerarlo un sistema a tre velocità che si concludeva con la caseificazione del latte e relativa produzione di formaggi pronti per la stagionatura e conseguente commercializzazione. Ovvio pensare che uno stuolo di lavoranti partecipasse al conseguimento di tanto successo, scontato eleggere il casaro simbolo di questo miracolo declinato in variegate produzioni fresche e da stagionare, ivi compreso l’allevamento suino annesso al caseificio, condizione necessaria e sufficiente all’utilizzo dei sottoprodotti delle varie lavorazioni.

    Da noi si dice che ‘L’è ‘l maèster che suna la müšica’, o meglio, per rimanere in tema, è il caglio che coagula il latte nella caldaia. Nelle fattorie lodigiane, da tempo immemore, è il Veterinario, il Medico degli animali da soma, le Veterine, da vehere, trasportare, vettura - veicolo; per estensione le nostre vacche da latte con annesse porcilaie, greggi, pollai, scuderie, canili etc... Lo Specialista: il Buiatra, lo Zooiatra clinico medico – chirurgo, l’Esperto di alimentazione, di problemi di gestione, di genetica applicata alle produzioni, di scelte imprenditoriali relative alla commercializzazione di particolari tipologie merceologiche...

    In terminis un Consulente a tutto campo che dall’alto del suo ruolo coordina le scelte dell’imprenditore - allevatore da lui assistito nello scenario variegato di un sistema viepiù specializzato.

    Sem tüti ‘ndiferenti, / ognün la sò parlada, / anca ‘n po’ riutenti, / ma gnüdi sü ‘dré Ada / e tüti pien de vöja, / dal prim barlüm fin a basura, / de ‘na giurnàda piena de alegrìa, / che se dubìga cu’ na mader in turtìa / e ’ n baregh de vedlìn cu’ la diarea; / rivà ‘n casina ‘nfularmàd / metegh la pasion che te cunsüma, / capì che và tüt ben, / dal prim mumént, / sentìs cunsideràd, cume ringrasiamént, / fàs in despàrt e fà finta de gnént: / che bèla la mè gent, / quan la se tröva, / al mercàd o l’usterìa, / cul sul o cun la piöva, / semper in armunìa. / Vöia de ‘n piat de buna cera, / d’una pulénta scröia, / de pùcia cul galét, / fritàda cui urtìš, / de riš cun la panìssa. / D’un àrch en ciel pasàd un tempuràl, / e ‘na prumesa s’ceta ‘me ‘na pinta de vin bon…

    Siamo diversi / anche nell’idioma, / anche un po’ burberi, / ma cresciuti lungo l’Adda / e viepiù determinati, / dal sorgere al calar del sole / di una giornata serena che si articola / tra una torsione di un utero gravido / e un recinto di vitelli con problemi intestinali; / che bello arrivare in cascina trafelato / metterci la passione che mi consuma, / accorgermi che tutto da subito riprende a funzionare / e sentirmi considerato come ringraziamento; / farmi in disparte con studiata indifferenza: / che bella la mia gente quando si trova, / al mercato o all’osteria, / col sole o con la poiggia, / sempre in armonia. / Voglia di un piatto di buona accoglienza, / di una polenta rustica, / di pollo alla cacciatora, / frittata col luppolo selvatico, / di riso con la panissa. / D’un arcobaleno passato un temporale / e una promessa schietta come un boccale di vino buono. //

    Origini lontane ma non troppo...

    Dopo il mille, la patria dei tanti campanili, col dissodamento di nuove terre, la rivoluzione agraria e la ripresa del commercio, decretò la fine dell’economia della ‘Corte’. La Muzza ha contribuito a sua volta: ‘Agri ubertate, omnibus Italiae antecedens’, costituendo il territorio più fertile d’Italia. La roggia divenne la molla del sistema lodigiano: acqua, prato, fieno, latte, formaggio, Lodi. Si sviluppò la cultura del prato, cardine del miracolo lodigiano. Con le bonifiche dei monaci e dei comuni, si creò un sistema in equilibrio perché il prato migliorava la sua fertilità con abbondante adacquatura sommata ad una buona concimazione, ‘Totum ruthum et letamen quod fecerint in terra’. Il diritto di allevare bovini o mandrie spettava al Vescovo o al Signore del fondo che dominavano il territorio lodigiano. I Vescovi affittavano i pascoli ai mandriani nomadi in arrivo dalla montagna bergamasca. I Malghesi dovevano fornire al Vescovo mascherpa e pungata¹.

    Preparavano il formaggio solo d’inverno; divenuti stanziali, tutto l’anno. L’erba divenne proteina preziosa per la stalla ed il latte formaggio nelle caldaie lucide come ‘sgüiaröle’² dei nostri numerosi caseifici. Nel 1760 entrò in funzione l’irrigazione con tutto il territorio a coltivo. In meno di un secolo il Lodigiano raddoppiò la produzione e venne più che raddoppiato il suo valore: rivoluzione agraria intesa come integrazione di campagna ed allevamento. Spariscono le piccole proprietà, nascono le cascine coi fabbricati funzionali alla conduzione dei fondi a prato, aziende dimensionate alla produzione del formaggio, con almeno 1100 pertiche ed 80 vacche da latte. La resa sta nell’ottenere la massima estensione di buon prato con la maggior presenza di bergamina, carico di bestiame, sul fondo: più concime più prato, più latte più formaggio… pertanto, campari, capi stalla e, soprattutto, i casari hanno realizzato il Lodigiano.

    Il Veterinario d’antàn...

    Nascita delle Scuole di Veterinaria

    Nei secoli precedenti e nel Medioevo in particolare la Veterinaria era esercitata dai maniscalchi. Il termine maniscalco deriva, passando per il latino medioevale mariscalcus, dal franco marhskalk , che significa servo addetto ai cavalli (dal celtico mark = cavallo più il gotico skalks = servo). Il maniscalco, o mulomedico, si occupava della cura e del benessere degli animali domestici, non solo del cavallo; apprendeva l'arte per tradizione orale, nell'ambito delle botteghe artigiane, ma anche attraverso la frequentazione di opere canoniche come l'Artis veterinariae, sive digestorum mulomedicinae di Publio Renato Vegezio (450-510 d.C.), il Liber marescalciae di Lorenzo Rusio (1288-1347), il Mariscalcia dei cavalli di Giordano Ruffo (1250/60-?). Non tutti i maniscalchi infatti erano illetterati: alcuni possedevano una preparazione culturale di base, come Dino Di Pietro Dini, che così bene rappresentava l'arte sua nella Firenze del Trecento.

    Fu a partire dal tardo Medioevo, come rileva la Veggetti, che le pubbliche autorità presero sempre più coscienza dell'importanza sociale della pratica veterinaria, tanto che in alcune realtà questa fu regolamentata e gestita dalla Società delle Arti, le corporazioni cioè che raggruppavano l'universo artigianale e commerciale del mondo produttivo di allora. I maniscalchi sono presenti, per citare solo due esempi, negli Statuti bolognesi dell'arte dei fabbri del 1397, e già dal 1344 nel corrispettivo fiorentino.

    Valsero ad accrescere in modo decisivo la sensibilità per la salute degli animali le grandi epidemie che imperversarono in tutta Europa dal XV al XVIII secolo. Fra le epizoozie, quella che più segnò il patrimonio zootecnico fu la peste bovina o febbre bosugarica, come venne definita da Michele Buniva (1761-1834) docente della Scuola veterinaria di Torino. Si calcola che l'epidemia di peste bovina del 1711, descritta per la prima volta dal medico carpigiano Bernardino Ramazzini (1633-1714) nella sua opera De contagiosa epidemia, determinò la morte, in tutta Europa, di non meno di un milione di capi. La paura nei confronti della peste bovina era alimentata anche dall'erronea credenza che questa fosse trasmissibile all'uomo, tanto era radicato nella coscienza dei popoli il terrore della peste nera. L'equivoco si reggeva sulla memoria di grandi epidemie di peste del passato, che erano state seguite o anticipate da grave mortalità negli animali.

    I Governi delle nazioni europee, nel XVIII secolo, furono obbligati ad occuparsi di salute animale se non altro perché si resero conto che non poteva esserci miglioramento dell'economia se non si provvedeva alla salvaguardia del patrimonio zootecnico. Le istituzioni poste a far fronte alle epizoozie furono in Italia gli Uffici o Magistrature di Sanità, sorti a partire dal XV secolo in seguito all'incalzare dell'epidemia di peste umana del 1347-51, e presi in seguito a modello da altri Stati europei nell'organizzazione sanitaria moderna. Le Magistrature di Sanità avevano il compito di suggerire ed imporre le misure terapeutiche e profilattiche nei confronti delle epizoozie istruendo con le grida e gli editti i maniscalchi che operavano sul territorio.

    Come afferma De Sommain, due sono le grandi condizioni che indussero la creazione delle Scuole veterinarie: l'esigenza di migliorare la lotta alle epizoozie, soprattutto di peste bovina e la necessità degli eserciti di disporre di maggiori quantità di cavalli e quindi di curarli.

    È chiaro però come suggerisce Ballarini, che queste due cause, insieme alla richiesta di una maggior produzione agro-zootecnica dovuta all'aumento demografico ed al mutamento dei costumi alimentari, non sono sufficienti a determinare una risposta di tale qualità. Non è un caso che le Scuole di Veterinaria nascano nel secolo dell'Illuminismo, quando cioè l'evoluzione del pensiero non solo investì tutti i campi del sapere ma pretese, programmaticamente, di intervenire con i lumi della ragione sugli aspetti, anche i più concreti, della vita e della convivenza umana. Veniva ribaltata la concezione, fino ad allora dominante, che aveva portato il medico di Luigi XV, François De Quesnay (1694-1774), ad affermare che ‘Il bestiame è un male necessario’. Ora il bestiame doveva essere trasformato in un bene di sviluppo. In questo contesto socio-economico e culturale vi fu poi l'esigenza di elevare a scienza un'arte empirica spesso esercitata da rozzi praticoni. Sorsero così in Europa le Scuole veterinarie, prima fra tutte la Scuola di Lione, fondata da Claude Bourgelat nel 1762. Soprattutto alle istituzioni francesi guardarono i vari Stati italiani, inviando allievi o richiedendo docenti al fine di fondare le proprie scuole.

    Relativamente isolata nel panorama degli istituti sanitari di età napoleonica fu la Scuola Veterinaria, creata per decreto del Viceré Eugenio del 1 agosto 1805 e aperta nei locali del monastero soppresso di Santa Francesca Romana dal 1808: vera passione di Eugenio, soprattutto per quanto riguardava la cura e l’ educazione dei cavalli, la scuola contò oltre al direttore Pozzi un corpo di 4 docenti di cui almeno due esperti francesi, Leroy e Collaine, coi quali peraltro furono continue le beghe e gli attriti. E tuttavia va contata anch’essa tra gli indubbi successi del cinquantennio 1765-1815, perché continuò a fiorire anche durante la Restaurazione, non solo offrendo al pubblico i servizi di Veterinari governativi, ma moltiplicando gli allievi patentati sino a suggerire al governo asburgico, nel 1826-28, di creare una rete di condotte veterinarie e così sostituire (o piuttosto integrare) coi veterinari professionalizzati grazie all’istruzione nella Scuola, i rozzi maniscalchi sino ad allora padroni del mestiere nelle campagne. Anche la Scuola veterinaria, insomma, va annoverata tra i successi dell’età asburgica e napoleonica, e si può considerare la sia pur lontana antenata della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’odierna università. Il 28 agosto 1924 nella prefettura di Milano si stipula la convenzione per la costituzione ed il mantenimento della Regia Università degli Studi.

    Viene istituita, fra le altre, la Facoltà di Scienza Agraria e Medicina Veterinaria, che entreranno in funzione nel novembre dello stesso anno.

    Da Portale Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma

    Per diletto, predilezione o vocazione...

    Nel rispetto di una realtà scaturita da un’ equazione: Muzza, prato irriguo, bestiame, latte, formaggio... Laus Pompeja, latte e pannerone... ovvero stalle di animali sempre più specializzati, bisognosi di cure ed attenzioni da parte di professionisti latori di una missiva di gran lunga superiore all’ empirismo latente nelle fattorie di campagna, si staglia la figura di Tecnici che si rifanno al trinomio fondato sulla salubrità degli alimenti che, trasformati dalle bovine in latte di qualità, innescano l’industria della trasformazione casearia. La rivoluzione agraria del primo Ottocento aveva promosso una lenta quanto inesorabile trasformazione, anche, se non soprattutto, nell’ambito zootecnico specifico; il Medico Veterinario, figlio d’arte, spinto dalla passione o, spesso, a sua volta gestore di un’impresa analoga a quelle seguite come medico curante – consulente, diventa il personaggio integrante la compagine rurale, nonché l’esperto e il garante chiamato in causa nelle molteplici vicende imprenditoriali, quali la scelta dei capi da rimonta, dei riproduttori e relativa compravendita di prodotti, strutture e tecnologie. In buona sostanza, un amico che faceva sempre piacere avere in azienda e per casa. Un gentleman che si dilettava di tutto un po’, spesso un poeta della vita assaporata nella sua schietta semplicità; piuttosto burbero se confrontato col collega della Mutua, sempre distaccato e scevro di simpatie per quel mondo tanto sincero e pacato quanto crudo nella sua ineffabile fatalità... un microcosmo dove tutto gira a manetta anche se a volte sembrerebbe sonnecchiare, un po’ sopravviversi prima di precipitare... guai calare la guardia! l’imponderabile è in agguato, pronto a ghermirti come un nibbio che si scaglia sul nido facendone scempio. E, quando succede, tocca a Noi ‘prendere il toro per le corna’ e riportarlo nel recinto che ripristina l’equilibrio indispensabile al funzionamento della vita della cascina. Il deus ex machina della tragedia greca, calato con argani e canapi nel bel mezzo del palcoscenico, stavolta è un uomo in carne ed ossa, ben piantato sui suoi principi e convincimenti, che fa della anamnesi la sua preziosa alleata; si ferma, ragiona, propone, dispone, istruisce e coglie l’assoluto in una dimensione che spazia dal recinto di una stalla o scuderia ad una camera operatoria di una clinica per animali d’affezione; da un campo in mezzo al nostro mondo trasognato al luogo dove tutto si compie nel disegno universale della vita, il macello che ancora ci vede protagonisti, arbitri incontrastati del vivere civile.

    Missionari? Un po’ sì, concedendo che anche stavolta l’etimo ci conforti nel compimento del dovere che più ci sta a cuore: la felicità dei nostri simili...

    Vi sembra poco? Chissà che questo mio lavoro, un po’ di parte ‘in grazia dell’impiego’, possa produrre nei lettori una condizione personale di maggior favore nei rispetti di noi veterinari, professionisti innamorati della vita in ogni sua battuta.

    Papà, Mamma e Minnie, can da paié cremasch...

    Where are you come from?

    Da dove salti fuori?

    Da un piccolo villaggio lungo il fiume Adda, nato in un nebbioso venerdì mattina di sessant’anni or sono; figlio di una facina di San Martino gettata di volata nel camino, quasi come Gesù Bambino...¹

    Ludešàn largh de buca e stret de man, /fiöl de casìna / mesa e dutrina; / la mè maestra bèla, / el cerghetìn festa matina... / la šmania d’la curtìna / fai sü ‘n d’la puešia / tame ‘na cartulina / quarciada d’armunia...// Lodogiano largo di bocca e stretto di mano, / ragazzo di cascina / messa e dottrina; / la mia maestra bella / il chierichetto la domenica mattina… / la smania dell’ortaglia del padrone / avvolta nella poesia / come una cartolina / pervasa d’armonia… //

    Armonia utopica

    Monticelli come un giardino: davanti casa, lungo i fossi, sui pendii, lungo l’Adda, per ogni dove, era uno spettacolo profumato: tutto era fiorito, come a dire:

    - Ci siamo anche noi, fiori bianchi, gialli, celesti e rossi, lungo le porcilaie, dietro la stalla, sulle rive dei fossi, a lato della concimaia, nelle giunture dell’aia.

    Maggio è il mese dei figli: nei campi macchie di colori, vita pulsante pigolava dai nidi, saltava nei prati, nuotava nelle rogge ormai alla massima portata.

    Una dimensione propedeutica confortata da uno scenario di fiaba, impreziosito da un fiume che ogni tre per due bussava per venire a sentir messa e dalla romantica disposizione della frazione stretta intorno alla sua chiesa e accovacciata in cima a un rilievo dal fascino pacato di stradine per le quali si arrampicavano carri trainati da cavalli bai e barette di qualche ambulante di giornata.

    Ospiti neanche tanto graditi della benemerita ‘Colombina’, effige della Cà Granda, l’Ospedale di Milano al quale il territorio di Monticelli era stato donato dall’Ospedale di S. Ambrogio che lo aveva ricevuto a sua volta in dono il 23 marzo 1359 da Barnabò Visconti, allora signore della città meneghina.

    Strumenti temprati dalla fatica imposta dal sistema produttivo che fondava la propria efficienza sulle tante braccia che quotidianamente confezionavano il miracolo che galleggiava due mesi nella salamoia, girava un’ora nella zangola o grufolava nei recinti dietro il caseificio.

    Semplice no!? Le vacche andavano munte tutti i giorni ogni 12 ore? Il capostalla si alzava a notte fonda, batteva col bastone la porta dei bergamini e cominciava la mungitura; il latte appena munto finiva in caseificio per essere lavorato? Era atteso dal casaro che si era levato di buon’ora; nel frattempo si udivano i primi rumori provenire forse... dall’aia: i contadini erano arrivati puntuali coi loro attrezzi o macchinari trainati dalle bestie da soma; parimenti sfilava la baretta del mugnaio nel mentre si udivano le grida dei maiali dalla porcilaia: evidentemente qualcuno li accudiva da par suo. Il tutto sovrastato dal Landini a testa calda che faceva vibrare i vetri alle finestre delle nostre povere case. Dov’è il problema!? O meglio, azione... reazione, ehm... soluzione: una schiera di lavoranti, comandata a bacchetta e sfruttata fino all’osso, tüt chì, sic et simpliciter.

    – Ricordati di Ciro... mi diceva il capo di tutti loro, che se mai avesse una sola volta, perlomeno raccolto una scopa o una pannocchia caduta da un carro, si sarebbe macchiato d’infamia al cospetto di tanta carne da macello che lo compativa proprio per la sua inettitudine!? O, forse, avrebbe recuperato quel minimo di rispetto indispensabile a chi impartisce ordini non sempre graditi perché forieri di fatiche immani... Voglio, posso, comando... io uscivo dal nostro recinto, passavo guardingo e mi recavo a scuola dalla maestra tencia, cercando di eludere la guardia dei cani dei padroni... altrimenti... gambe in spalla fino alla fine del muro della stalletta del Teto e relativo sbocco verso la libertà, spesso affollata da macchine agricole o cavalloni giganteschi in attesa della ferratura. Era il mio quarto di miglio a manetta con dietro i cani che non ho mai saputo di cosa sarebbero stati capaci se mai fossi caduto sul selciato non sempre regolare della pista di lancio vista officina di Rinaldo la Biunda e Pulver sò papà, velucista cun la biga negra de cališna... velocista con la bici nera di fuliggine…

    Ma allora, nella compagine rurale, erano tutte marionette comandate a bacchetta dal padrone che una ne faceva e cento ne inventava a danno dei poveri cristi che componevano il suo organigramma di sfigati senza speranza? Tutti i giorni che il Buon Dio mandava sulla terra, senza tregua e remissione?... Questo era il sistema: Ciro cun la gianèta e’l rat tupòn, il talpone, a spacàs la vita... Tintarella di luna... tintarella color latte... oibò... in mezzo a tanta umanità consumata dal bieco dispotismo e bruciata dai raggi inclementi del sole c’è n’era uno che, impunemente, prendeva la luna!

    Tö, el cašè, ma non da solo: con lui prendeva la luna il capostalla e qualche volta il fattore, specie quando ritenuto responsabile delle anomalie riscontrate prima nei secchi della mungitura e successivamente nella cagliata del granone che non coagulava a dovere. Qui si imponeva l’ingresso, come nelle tragedie di Euripide, dell’arbitro che, usando cervello e dottrina, indagando e abbozzando potenziali errori, accertava il danno, le responsabilità e relativi rimedi. Il Mulomedico, armato fino ai denti, prendeva il solito toro per le corna e, prodigo di pazienza, ricomponeva la compagine fremente dei lavoranti viepiù inclini allo scaricabarile che a postulare una variante nella loro pratica spesso e volentieri disarmante. Stavolta Ciro si grattava in testa e il casaro si alleava immantinente col Veterinario quanto all’applicazione dei rimedi, allora quasi mai reperibili in farmacia ma frutto di preparazioni officinali alla bisogna condite con olio di gomito e buon senso. Al pari di un film western, dove l’eroe, il giovane, vinceva sempre, il Veterinario era il semidio che sbaragliava il male e faceva trionfare quanto di buono si potesse trovare in un mondo di ‘vita vivente in meš a tant laurà’... vita pulsante nel bel mezzo di tanto lavoro…

    La Passione tinge di colore tutto ciò che sfiora...

    alias ‘Ars gratia artis’...

    ‘Ciari ‘me l’aqua del Lamber’, chiari come l’acqua del Lambro, lodigiani da generazioni, dediti all’allevamento del bestiame e piccoli coltivatori, i Pitalö del cunt de Milàn, fabbricatori di formaggio e mungitori; fabbri, mugnai, osti, imprenditori, persino un po’ signori, appassionati di motori e inventori... forieri di una tradizione radicata nelle tante testimonianze che compongono la storia della mia famiglia, dolce ed appassionata come una poesia che ti urge nell’animo e ti promuove in un impeto di emulazione e riconquista di un tempo perduto che per poco non ti è appartenuto; vivido nei ricordi del nonno, della mamma e del papà che lasciano ancora a bocca aperta per quanta umanità trapeli dalle intime pieghe della loro narrazione appassionata... quanta dignità prorompe dai racconti a volte intrisi di mestizia e sofferenza, ahimè... sempre contro quel maledetto muro!

    Ma era bella, bella davvero... la mia cascina sotto il mio cielo... in riva al fiume avvolto nel suo mistero, talvolta un po’ forestiero, talaltra amico sincero...

    Nüm Basaröi, Quèi d’la basa... tüti stes, nasüdi dedré dal

    cül d’la vaca...

    Noi bassaioli, Quelli della bassa… tutti uguali, nati dietro il culo della vacca

    E dove se no... magari… suta le ale d’la pita o mej amò ‘n d’el bastìn d’la lögia... che rasa..., ..... sotto le ali della chioccia o meglio nelricovero della scrofa… che spasso… diversamente sarebbe stato come essere al mare e non accorgersi dei flutti che si infrangono sulla battigia, ai monti ed ignorare i saliscendi che si alternano a boschi inviolati e burroni mozzafiato...

    E a che pro non lasciarsi compenetrare dalla fragranza di un mondo incantato dove tutto sapeva di tuo, ti apparteneva come o più del sole che accendeva di colori gli angoli più reconditi dell’aia dove una chioccia razzolava coi pulcini, della stalla dove era appena nato un vitellino, della siepe dove trionfava un glicine coi suoi fiori compositi e leggiadri, spruzzi di cielo nel verde incantato della cortina del padrone, prodromo del giardino di città, che nascondeva i misteri di un mondo a noi precluso?

    Le case, le pietre ed il rumore di una pala che scava, che scava... paura, terrore!?

    Macché, da noi le pietre erano raccolte ed eliminate prima dell’inizio dei lavori dei campi; l’unico rumore lo faceva il Landini che ansimava per la cascina violentando col suo impeto l’intima poesia di un mattino d’aprile;le pale le usavamo per ammucchiare la granella sull’aia per l’essiccazione... soprattutto, non c’erano paura e terrore di sorta ed il viso chiaro di una mamma serviva il sole sul tagliere tutte le sere di un intero anno di lavoro. Monotono? Assolutamente no: la nostra famiglia allargata tutti i santi giorni si svegliava con un ricciolo fuori posto: la pioggia che si faceva desiderare, il cielo che minacciava grandine, la stalla che soffriva per una nuova epidemia, il caseificio che arrancava di conserva, la porcilaia dove non mangiava manco la coda di un maiale... i puj cu’ la pevìda... i polli con la Pipita… e tutti i giorni era una nuova sfida; nell’ambito della cascina o nei campi che la baciavano con religiosa compostezza, cinti da rogge piene in barba, ruote di mulini sempre all’opra e capitozze che incorniciavano di armonia le marcite rigogliose della nostra antologia...

    Oggi è difficile immaginare di aprire la porta di casa e trovarsi sull’uscio il cane che ti aspetta con mille progetti da attuare entro sera, il corvo allevato a primavera che ti vola sulla spalla, la talpa che ti fa l’occhiolino dal vaso di terra dove ha trascorso la nottata... il muggito delle bovine che arriva dalla stalla sita a settanta metri dal tuo ‘ricovero’, lo strepito dei maiali che arriva da almeno trenta metri più in là, ma... con la fame che si ritrovano sempre... chi li poteva fermare!? Sicché, che ce ne poteva fregare del mare o di qualcosa che non ci poteva appartenere come il nostro giardino infinito dove tutto sapeva di buono, persino il letame che concimava la campagna, an de erba an de merda, le piogge che accarezzavano i coltivi, quan ven šu ven sü, e la neve immacolata che attanagliava la cascina, sotto la neve pane... Tutto si spiegava in chiave positiva... Quèl che Dìu vör… anche la morte o una disgrazia si accettava come parte integrante della vita... fatalismo o filosofia della realtà!?

    Comunque andasse, anche in questi rispetti il Mulomedico aveva la sua importanza in quanto fautore di un ‘partito del fare’ illuminato da almeno 20 anni di studi:

    - Vün ch’l’eva fai le scole alte, cumpàgn del pret e del dutur d’i cristiàn.

    - Uno che aveva studiato almeno quanto il prete o il dottore degli umani.

    - Un om d’la leg, bon da stà ‘nsema ‘l siur e al pueret, capace di slanci di una generosità immane che ridava speranza ad una famiglia piegata da una disgrazia quale la malattia o, peggio, la morte della vacca o del maiale... prossima alla fame

    - Mi pagherai da bere... fai come ti ho insegnato e... se mai... dammi la voce...

    - Te me mandarè i benìši quan te se spuši... ma quel là el gh’èva bèle 4 o 5 fiöi e ‘na fila de cagnöi.

    - Mi manderai i confetti quando ti sposi… anche se quello aveva già quattro o cinque figli e una sfilza di appendizi.

    Olter che dutur d’i müj o masacavaj.. ./ driti ‘me sufranèj, / lüghìdi ‘me ‘l pes d’Ada / i balèvu sü ‘na palanca, / cu’ na man sü la cuisciensa, / in stala ‘me ‘n d’la curt d’le cà ‘n filada. / E l’era semper ch’la bügada, / ‘na lota per salvà ‘na vita... //

    Hai voglia dottori di muli o dozzinali… / dritti come fiammiferi / veloci come il pesce dell’Adda, / campioni di destrezza / con una mano sulla coscienza, / in stalla come nelle corti delle case a schiera. / Ed era sempre lo stesso ritornello, / una lotta per salvare una vita…//

    Friendly & lovely

    Amicizia e simpatia con un pizzico di magia, un cuore da gitano e un coraggio da leone si materializzavano nei racconti e nelle tante imprese da campione delle sere passate in stalla o davanti al fuoco del camino... e nelle gesta di questa gente onesta spuntava ad un dipresso la figura adamantina dell’amico comune, il Veterinario di cascina nella sua livrea profumata di ottimismo e poesia...

    - O tes patridos sotèr, éu, o salvatore della patria, juvet... un peana, un canto di guerra in favore del primo cavaliere... lo avrei imparato poi, sui banchi del liceo, lasciapassare per la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano, funzionante dal 1924, il genetriaco del mio mentore, mio padre, il casaro amico del Mulomedico di corte, suo alleato ad oltranza e con buona pace del padrone che delegava chi pelava l’oca giorno e notte, il

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