Del giorno e della notte: IV Antologia di racconti del XXI secolo
Di AA. VV.
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Anteprima del libro
Del giorno e della notte - AA. VV.
Rame
NOTA INTRODUTTIVA
Del giorno e della notte, chiude un ciclo, quello dei Dittici. Questa quarta antologia di racconti che sviscera il giorno e la notte, quelli reali e quelli dell’anima, presenta una libertà totale e un amore assoluto per la parola.
Questa volta i vincitori del concorso sono due: Barbara Cannas e Marco Bartoli. Il lettore si troverà di fronte a narrazioni che fotografano e inventano giorni e notti, a volte tremendi, a volte meravigliosi; che evidenziano erotismo, romanticismo, sogni, delusioni, insomma un campionario di bella scrittura e di ottimo divertimento
. Grazie anche all’intervento di quanti facenti parte di altri mondi hanno contribuito. Un doveroso ringraziamento va a: Anna Mazzamauro, Pino Strabioli, Sebastian Maulucci, Stefano Cortelletti, Ignazio Gori, Giancarlo Governi, Barbara Rosso, Vincenzo Incenzo, Ivan Cattaneo, Guido Marcelli, Tina Cipollari, Francesco Pomponio, Enzo Salvi, Simone Pozzati, Ettore Comi, Valerio Vitale, Leandro Castellani, Barbara De Santi, Antonio Veneziani, Maurizio Valtieri, Simone Romano, Filippo Kulberg Taub, Angelo Favaro, Franca Rame. Questa antologia è uno schiaffo al perbenismo editoriale e al solipsismo imperanti. È un insieme di note che diventano una melodia suonata da un violino dimenticato nei boschi.
Ci siamo divertiti a confondere le carte, a trasgredire le regole, a scompaginare l’impaginato.
Siamo andati oltre, un po’. Questa volta siamo stati laterali, forse. Tutto per svelare, prima a noi stessi e poi ai lettori, qualcosa in più del buio
e del sole
; del profondo
e dell’epidermico
.
C’è poi una pagina bianca che altro non è, che la parteci pazione e al tempo stesso un omaggio alla pacifica guerriera, Franca Rame, che ci ha abbandonati in corso d’opera. E ora leggete, rubando respiri e sogni, sorrisi e lacrime.
Grazie
Simone Di Matteo
LA MADRE
ANNA MAZZAMAURO
In televisione tutto fa spettacolo, ma purtroppo non c’è solo il grottesco ad affascinare. Fanno ascolto persino le interviste di certe giornaliste che massacrano di domande quelle povere disgraziate alle quali hanno già massacrato una figlia, una donna. Ma c’è bisogno di sangue, di dolore, di lacrime per sedurre, stregare, incatenare il pubblico davanti a quella scatola con un lato trasparente! Mi sono sempre chiesta: ma come si fa, dopo che ti hanno ucciso una figlia, a vivere il quotidiano? La spesa la devi fare, perché ci sono altri da amare. Devi mangiare, sennò muori pure tu. Devi dormire, anche se con i brutti sogni. Devi parlare con gli altri, senza sentirli. Insomma, far scorrere il nastro sforbiciato della tua vita. Ma non riesco a darmi una risposta quando mi chiedo: Mio Dio, e se io fossi in lei?!
. La vita no, ma lo consente il teatro.
Sora Mati’, sora Mati’, sora…
(la madre come risvegliandosi da oscuri pensieri alza lo sguardo verso un invisibile macellaio) – Eh?
– Sora Mati’, comme a vulite a carne? La vulite ammacinata o volete ‘nu piezzo grosso pe’ facce ‘nu bello rosbif? Sora Mati’, sora Mati’, nun m’arrispundite? (anche se la voce è sempre di Anna, la voce del macellaio sarà molto rispettosa e piena di delicatezza. La madre riprende a guardare la carne tagliata a pezzi sul bancone.).
È ‘n’animale? (macellaio meravigliato)
Eh, sì –
E che animale è? –
’Na vacca, donna Mati’. –
E l’avete accisa vuie, l’avite massacrata vuie? E comme l’avite accoppata?" –
Cu’ ‘nu curtiello, donna Mati’
– "E come l’avite fatto, accussì, accussì, accussì (fa gesti come per indicare cortellate)
– Sora Mati’, ‘o saccio ca nun è facile, ma nun ve straziate ogni momento!
– E comme se fa?! ‘O sapite vuie?
– (sospiro del macellaio) Si ‘o sapessi! Io ve posso solo combina’ ‘na bella coradella ca ve ricrea a vocca. Ecco, guardate, chiste so’ ‘e budella e chiste so’ i polmoni, chiste è ‘o fegato
– A figlia mia nun era ‘n’animale, nun era ‘na vacca! (lunga pausa, forse arriva il pianto) –
E chisto è ‘o core –
Pare ca sbatte, Pasca’! (tocca il cuore dell’animale squartato e ritrae il dito spaventata) È vivo! –
No, sora Mati’, diciamo ca ‘o core more pe’ urtimo. –
Allora po’ esse che a’ fija mia tiene ancora ‘o core ca sbatte? –
È passato tanto tiempo, donna Mati’! –
Nun passa ‘o tiempo, nun passa! –
Pe’ i muorti si, donna Mati’ – (la madre lo zittisce)
No, chilla dorme ancora… poi si sveglia e ritorna. Certe volte me la sogno, sapite? E me rinfaccia: Oi ma’, manco ‘na carezza m’hai dato, nu vaso, oi ma’, pe’ urtimo
! (sospira come una tempesta che sta per scoppiare) Tengo ‘nu dolore ca smove l’alberi! Me so’ scucciata! Si nun ‘o sapisse chi l’ha accisa, allora uno cerca s’arrecorda, immagina, s’impegna! E per un attimo te sparisce ‘o pensiero. Ma t’o vide là, dint’alla televisione co’ chilla faccia ‘i mierda: Songo innocente, songo innocente
! E chiagne! Tu chiagni?! Vulite sape’ che me consola? Ca ‘o carcere mio è pe’ sempre, ma chillo ha da usci’. Ha da usci’! –
Donna Mati’ scorda’ no, ma ‘o perdono! –
Eh! Primma ‘o guardo… (sorride come se volesse perdonarlo) e poi l’accido! L’aggio a vede’ comme ‘na lumaca ca sbava sangue a terra! –
Donna Mati’, pensate alla madre sua che è una brava persona… –
E io ca so’, ‘na zoccola?! (lunga pausa di sospiri) –
Donna Mati’, siete bianca comma ‘na pezza e vitello! –
No, è ca ci sta qua fuori ‘na giornalista cu ‘nu cazzo ‘e microfono in mano ca quasi mo mangio. Me corre sempre appriesso e me domanda sempre: Come si sente, come si sente
? Comme me siento?! (la madre la guarda a lungo. Comincia martellante il tamburo del rap) E comme m’aggio a senti’?
Come ‘o silenzio!
Se sapessi che dolore
che dolore ho in fondo al
cuore tu hai bisogno di parlare
di capire di frugare prova
invece ad affogare
dentro al mare in fondo al mare
che ho allargato col mio pianto
forse allora mi sei accanto
e capisci veramente senza
i giochi della mente
che mi scoppiano i polmoni
non mi rompere i coglioni
ODORI ROMANI
PINO STRABIOLI
1
Giorno.
Una casa qualsiasi alle porte di una piccola città di provincia. Una donna è seduta su una sedia di paglia e racconta. Ha superato gli ottanta. Ha una vivezza assopita. La voce è ancora intatta e chiara.
In via Simeto c’era una caserma e una fontanella. Ogni tanto andavo a lavarmi le mani. A sciacquare qualcosa. Mangiavo quello che mi portavo da casa. Non mi piaceva entrare nel bar, troppe guardie che facevano commenti. Lui era l’unico che non mi salutava. Sembrava il più scemo. Giocava con il cane del calzolaio accanto. Lo sentivo mentre andavo alla fontanella a lavarmi le mani o a sciacquare qualcosa, ha un bel culo
diceva ai suoi amici mentre mi chinavo.
Si è appena concluso un normale pranzo di famiglia. Pasta al forno, pollo in padella, patate e insalata. Probabilmente è domenica. Una domenica di dicembre. La stanza è luminosa. La donna ripete più volte caserma e fontanella.
Un uomo sulla cinquantina la ascolta. È seduto su un divano rosso. Dalla posizione che assume non si direbbe un divano comodo. Il colore però è bello. Accanto a lui una bambola di plastica bionda e un ragazzo con gli occhi chiari. L’uomo mentre la donna parla pensa a quante saranno le fontanelle di Roma. Al perché le chiamano nasone.
La donna continua il suo racconto. Il ragazzo con gli occhi chiari ascolta. Vorrebbe fumare una sigaretta.
Via Simeto è una traversa di via Po. A via Po c’era il signor Piperno, lui mi voleva bene. Esiste ancora la circolare rossa? La prendevo al mattino prima delle otto, scendevo a viale Regina Margherita. Per non entrare in quel bar mi tenevo la pipì tutto il giorno. Il cameriere si chiamava Nestore. La sera mentre il tram mi riportava a casa cercavo di non pensarci. Rischiavo di farmela addosso. Arrivata a Porta Maggiore sapevo di avercela fatta, di lì a poco avrei incontrato papà che faceva la guardia al mio bagno. Soltanto io potevo entrare a quell’ora. Erano centottanta i gradini che dovevo salire di corsa.
Qualcuno in cucina ha preparato il caffè. Si sente il borbottio e il profumo. Sono le prime ore di un freddo pomeriggio di dicembre. Ci starebbe bene il vassoio con le paste della domenica. Ma forse domenica non è, e quella delle paste è un’ abitudine che questa casa non conosce...
2
Notte.
L’uomo sulla cinquantina è alla guida di una piccola macchina, accanto a lui il giovane ragazzo con gli occhi chiari. La bambola bionda è rimasta sul divano rosso.
I pensieri dell’uomo attraversano l’autostrada del sole.
Me la ricordo quella casa. Anzi c’è un odore che me la fa ricordare. È l’odore del pane di Roma, di certa pizza che si mangia a Testaccio, del detersivo che usa il portiere per lavare le scale, è l’odore di Dante e dei giocattoletti.
Sesto piano, centootto scalini. Io prendevo l’ascensore. M’incantava quella scatola di legno appesa a due fili di acciaio che una mano invisibile tirava su. Avrò avuto tre anni. La porta del bagno era alta, bianca. Bisognava salire un gradino di marmo grigio. Era di marmo e dello stesso colore anche il tavolo della cucina. Una donna con la crocchia in testa mi dava la seggioletta. Restavo seduto per ore. Da quell’altezza vedevo la chioma di un albero piantato al centro del cortile, seguivo le mani che pulivano i fagiolini, tagliavano i pomodori, stendevano la pasta, si confondevano nel bianco della farina. In fondo al corridoio appeso al muro c’era un telefono nero. Squillava di rado. Ricordo ancora il numero: 271493.
Il viaggio prosegue. Il ragazzo ascolta la musica da due piccole cuffie. Vorrebbe una birra. La macchina attraversa in silenzio la valle del Tevere. Intorno è buio pesto. L’uomo continua il suo pensiero.
Al primo piano ci abitava un certo Attilio. Era stato in carcere. Ne parlavano sempre a tavola la domenica. Mi ricordo la casa della sora Peppa, la signora della porta accanto. La penombra delle stanze e l’ordine. I piedi in quelle che si chiamavano pattine, suole di lana che scivolavano una dopo l’altra sul pavimento di marmo lucidato a specchio.
La voce del giovane interrompe i pensieri dell’uomo.
Zio, secondo te papà è felice? Non credo.
Sono contento, mi imbarazzano le persone felici. Mai incontrata una in questi cinquant’anni. Neanche io adesso che ci penso.
Ma tu ne hai appena venti, corri ancora il rischio di incontrarla.
Ridono.
Eppure stasera l’Italia ha vinto. Dovresti esserlo. Sono contento. Felice è un’altra cosa. Ridono ancora.
Potremmo contarle le fontanelle di Roma. Ti va?
Ho un esame martedì. Da mercoledì possiamo iniziare. Andremo a contarle di notte.
Va bene, mi compri una birra?
Si fermano in un’area di servizio. Scendono. Con loro c’è un cane bianco che sbadiglia. Ordinano una birra e un caffè. Il ragazzo si accende una sigaretta.
Perchè ti è venuta l’idea di contare le fontanelle? Non ti piace?
Sì. Dovremmo comprare un quaderno e iniziare ad appuntarle.
Tu quante ne conosci? Ci devo pensare.
Risalgono in macchina. Proseguono il viaggio verso la città.
Il ragazzo da un piccolo zaino tira fuori un cd.
Senti che bella questa canzone. Chi è?
Vinicio Capossela. Lui mi piace.
Quando c’è la musica non ho paura della notte.
3
Le dieci di un mattino di febbraio. La luce del giorno è accecante. La donna, nella casa qualsiasi ai bordi della piccola città di provincia, ha un fortissimo dolore alla schiena. Un uomo anziano è seduto al tavolo della sala da pranzo. Indossa una camicia di jeans. Di tanto in tanto controlla il suo telefonino. Sembra in attesa di un segnale. Alle pareti molte foto, fra queste il ritratto di un bambino biondo. Ha gli occhi chiari. Gli stessi del ragazzo che sta facendo l’esame. Oggi è martedì.
Parlano.
Verranno tutti a pranzo?
Chiede la donna.
E chi lo sa?
Risponde l’uomo seduto.
Comunque non prima delle due. Porteranno anche il cane? Penso di sì.
Lei sbuffa.
Ma che fastidio ti dà? Non mi sono mai piaciuti.
A me invece piacciono tanto.
Lo so, giocavi sempre con quello del calzolaio accanto.
L’uomo sembra non aver sentito. Si alza dal tavolo e decide di apparecchiare per quattro.
La donna entra in cucina.
Oggi la schiena non mi regge, non ho mai sentito tanto dolore. Sei riuscita a dormire?
La notte non finiva mai. Mi giravo continuamente nel letto.Inizia a cucinare.
Scendo a prendere il pane e la frutta. Ma hai già apparecchiato a quest’ora?
Lui non risponde. Esce. Lei da un’occhiata alla sala da pranzo. L’orologio segna le undici. È sveglia da molte ore. Taglia sedano e carote. Prende una pentola bassa, ci versa dell’olio e aggiunge gli odori tritati. Soffrigge. Apre un cartoccio di carne macinata, la unisce al soffritto. Un odore buono si sparge per la casa. Pensa.
Non mi ricordo il nome del calzolaio all’angolo e nemmeno quello del suo cane, era piccolo,