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Madame Bovary
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E-book452 pagine6 ore

Madame Bovary

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Info su questo ebook

Gustave Flaubert pubblicò il romanzo Madame Bovary dapprima a puntate e poi in volume nel 1857. La critica lo accolse, dopo aver suscitato uno scandalo che trascinò Flaubert in tribunale, come una delle opere letterarie più importanti dell’epoca. Flaubert denuncia le stupide convenzioni della mediocrità borghese del tempo. Il saccente, egocentrico e per certi versi pericoloso farmacista Homais ne è uno straordinario esempio. Emma, ansiosa d’amore, sognatrice, perennemente scontenta, desiderosa di elevazione sociale e di una frizzante vita aristocratica, è uno dei personaggi femminili più conosciuti e riusciti della letteratura grazie allo stile e alla capacità di Flaubert di esprimere i sentimenti e la psicologia di questa, con stile secco e asciutto, limitandosi ad esporre i fatti senza prendere posizione. Attorno alla sua tormentata figura lo scrittore ha creato uno splendido romanzo, crudo e spietato, in cui la storia del fallimento esistenziale risulta essere universale.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2012
ISBN9788874171323
Autore

Gustave Flaubert

Gustave Flaubert was born in Rouen in 1821. He initially studied to become a lawyer, but gave it up after a bout of ill-health, and devoted himself to writing. After travelling extensively, and working on many unpublished projects, he completed Madame Bovary in 1856. This was published to great scandal and acclaim, and Flaubert became a celebrated literary figure. His reputation was cemented with Salammbô (1862) and Sentimental Education (1869). He died in 1880, probably of a stroke, leaving his last work, Bouvard et Pécuchet, unfinished.

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    Anteprima del libro

    Madame Bovary - Gustave Flaubert

    XI

    Informazioni

    In copertina: Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Matilde

    © 2018 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata sulla traduzione di Bruno Ohmet del 1933.

    La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    PRIMA PARTE

    I

    Eravamo intenti allo studio, quando entrò il Pre­side seguito da un « novellino » vestito in borghese e da un bidello che portava un grande leggìo. Quel­li che dormivano si risvegliarono e ognuno si alzò come sorpreso nel suo lavoro.

    Il Preside ci fece cenno di rimetterci a sedere e volgendosi all’istitutore:

    — Signor Roger, gli disse a bassa voce, ecco un allievo che vi raccomando, entra in quinta; se il suo lavoro e la sua condotta lo renderanno degno, pas­serà « fra i grandi », dove lo chiama la sua età.

    Rimasto nell’angolo, dietro la porta, così che ap­pena lo si vedeva, il « novellino » era un ragazzo di campagna, di una quindicina d’anni circa e più alto di statura che nessun altro di tutti noi. Aveva i capelli tagliati diritti sulla fronte, come un can­tore di villaggio, l’aria d’un ragazzo ragionevole, molto imbarazzato. Quantunque non fosse largo di spalle, la giubba di panno verde a bottoni neri do­veva dargli fastidio agli incavi delle maniche e la­sciava vedere, attraverso la fenditura dei parama­ni, certi polsi rozzi abituati ad essere nudi. Le gambe in calze blu uscivano dai pantaloni giallastri, molto tirati dalle bretelle. Era calzato di scarpe molto forti, male lucidate e guernite di chiodi.

    S’incominciò il corso delle lezioni. Egli stette ad ascoltare ad orecchie tese, attento come alla pre­dica. senza osare nemmeno d’incrociare le gambe, nè d’appoggiare i gomiti, e alle due, quando suonò la campana, l’istitutore fu costretto ad avvertirlo perchè si mettesse in fila con noialtri.

    Noi avevamo l’abitudine, entrando in classe, di gettare i nostri berretti a terra, allo scopo di avere, in seguito, le mani più libere; bisognava, dalla so­glia. lanciarli sotto i banchi in modo che andassero a battere contro il muro, sollevando gran quantità di polvere.

    Ma sia ch'egli non avesse notata questa mano­vra, o che non osasse sottomettervisi, già la preghie­ra era finita, che il « novellino » teneva ancora il suo berretto sulle due ginocchia. Si trattava di un copricapo di quelli in cui si ritrovali gli elementi del berretto a pelo, del chapska. del cappello ton­do, del caschetto di lontra e del berretto di cotone; una di quelle povere cose, infine, la cui muta brut­tezza assume profondità d’espressione come la fac­cia di un imbecille. Ovoidale e sostenuto da stec­che di balena, cominciava con tre rigonfiature cir­colari. che si alternavano poi. separate da una stri­scia rossa e da losanghe di velluto e di pelo di co­niglio: veniva, in seguito, una specie di sacco che finiva in un poligono cartonato, coperto da un com­plicato ricamo in cordoncino, dal quale pendeva, in capo ad un cordone troppo sottile, un piccolo in­treccio di filigrana d’oro, a guisa di ghirlanda. Il berretto era nuovo, la visiera brillava.

    — Alzatevi, gli disse il professore. - egli si alzò, il suo berretto cadde a terra; tutta la classe si mise a ridere.

    Si abbassò per raccattarlo; un vicino lo fece rica­dere per un colpo di gomito: egli lo raccolse un’al­tra volta.

    Sbarazzatevi dunque del vostro berretto, disse il professore ch'era un uomo di spirito.

    Scoppiò una risata strepitosa di tutta la scolare­sca e sconcertò talmente il povero ragazzo ch’egli più non seppe se bisognava tenere il berretto in mano, lasciarlo cadere a terra o metterselo in testa. Si rimise a sedere e se lo pose nuovamente sulle gi­nocchia.

    - Alzatevi - riprese il professore - e ditemi il vostro nome.

    Il « novello » articolò con voce barbugliante un nome inintelligibile.

    - Ripetete!

    Si fece sentire ancora lo stesso borbottamento di sillabe, coperto dagli schiamazzi della classe.

    - Più forte - gridò il maestro - più forte!

    Il « novello » prese allora una risoluzione estre­ma, aprì una bocca smisurata e lanciò a pieni pol­moni. come per chiamare qualcuno, questa parola: « Charbovary ».

    Un baccano enorme si sollevò di colpo, aumentò vieppiù con scoppi di voci acute (si urlava, si abbaiava. si scalpitava, si ripeteva: « Charbovary! Charbovary! ) che poi ruzzolarono in note iso­late, calmatesi a gran pena, che di quando in quando riprendevano all’improvviso lungo qual­che banco, donde saliva ancora, qua e là, come un petardo male acceso, qualche scoppio di risa sof­focate.

    Tuttavia. sotto la pioggia dei richiami, a poco a poco l’ordine si ristabilì nella classe, ed il profes­sore. riuscito ad afferrare il nome di Charles Bo­vary essendoselo fatto dettare, compitare e rileg­gere. comandò subito al povero diavolo di andare a sedersi al banco della pigrizia, ai piedi della cat­tedra. Egli si mise in moto, ma prima di avviarsi esitò.

    - Cosa cercate? - gli domandò il professore.

    - Il mio be… - disse timidamente il « novelli­no » girando attorno a sé i suoi occhi inquieti.

    Un « Cinquecento versi a tutta la classe! » escla­mò con voce furiosa, fermo, come il « Quos ego », una nuova burrasca.

    - State tranquilli, dunque! - continuò il profes­sore indignato e asciugandosi la fronte con il faz­zoletto, tratto fuori allora dalla tasca - Quanto a voi « novellino » mi copierete venti volte il verbo « ri- diculus sum ».

    Poi. in tono più dolce:

    — Eh! via. lo ritroverete il vostro berretto; non ve l’hanno rubato di certo!

    Tutto ritornò alla calma, le teste si chinarono sulle cartelle e durante due ore il « novellino » tenne un comportamento esemplare, quantunque di tempo in tempo qualche pallottola di carta lanciata dalla punta di un pennino arrivasse a inzaccherar­gli la faccia. Egli si asciugava con la mano e rima­neva immobile, con gli occhi bassi.

    Ea sera, allo studio, mise in ordine le sue piccole cose e riassettò accuratamente le sue carte, vedem­mo che lavorava coscienziosamente, cercando tutte le parole nel dizionario e dandosi molto da fare. Senza dubbio in grazia della buona volontà di cui dava prova non era sceso alla classe inferiore, per­ché, anche se conosceva passabilmente le regole, non aveva nessuna eleganza nel formare le frasi. Era stato il curato del suo villaggio che lo aveva iniziato allo studio del latino; i suoi parenti, per economia, non lo avevano mandato in collegio che il più tardi possibile.

    Suo padre, il signor Charles-Denis-Bartholomé Bovary, vecchio assistente chirurgo maggiore, com­promesso, verso il 1812, in certi affari di recluta­mento e costretto in quell'epoca ad abbandonare il servizio militare, aveva approfittato allora dei suoi vantaggi personali per cogliere al volo una dote di sessantamila franchi, che gli si offriva nella figlia d’un mercante di maglierie innamoratasi della sua divisa. Bell’uomo. millantatore, faceva sempre tin­tinnire forte gli sproni; portava, oltre i baffi, i fa­voriti: le dita sempre ornate di anelli, e vestito di colori vistosi, aveva l’aspetto d’un prode e la facile vivacità d’un commesso viaggiatore. Una volta spo­sato. visse fine o tre anni su la dote di sua moglie, mangiando bene, alzandosi tardi, fumando in certe grandi pipe di porcellana, non rientrando la sera che a spettacolo teatrale finito e frequentando i caffè.

    Morto il suocero lasciando ben poca cosa, egli ne fu indignato, si lanciò nell’industria, vi perdette il suo denaro e si ritirò in campagna, dove si pro­poneva di « farsi valere ». Ma siccome non sapeva d’agricoltura più di quanto sapesse d’indiano e montava i suoi cavalli invece di mandarli al lavoro, beveva il vino in bottiglie invece di venderlo, man­giava il pollame più bello del suo cortile ed ingras­sava le suo scarpe da caccia con il lardo dei maiali, non tardò inoltre ad accorgersi ch’era meglio finirla lì con le speculazioni.

    Per duecento franchi all’anno trovò d’affittare in un villaggio, sui confini del paese di Caux e della Piccardia, una specie di abitazione metà cascina, metà casa padronale e afflitto, roso dai rimpianti, accusando il cielo, invidioso di tutti, vi si rinchiuse all’età di quarantacinque anni, disgustato egli diceva degli uomini e deciso a vivere in pace.

    Sua moglie era stata innamorata pazza di lui in altri tempi, lo aveva amato con mille servilità che lo avevano distolto ancor più presto da lei. Un tem­po gaia, espansiva e tutta amorosa, era diventata, invecchiando, (alla maniera del vino guasto che si trasforma in aceto) d’umore difficile, piagnucolosa, nervosa. Aveva tanto sofferto senza lagnarsi, quan­do. nel passato, lo vedeva correr dietro a tutte le sottane del villaggio e venti luoghi infami glielo rinviavano, la sera, logoro e fetente d’ubriachezza. Poi l’orgoglio s’era rivoltato. Allora s’era moral­mente uccisa, inghiottendo la sua rabbia con tacito stoicismo, che conservò fino alla morte. Era senza tregua in giro, in faccende. Era lei che andava da­gli avvocati, dal presidente, che si ricordava delle scadenze delle cambiali, che otteneva le proroghe; ed in casa non faceva che stirare, cuciva, faceva il bucato, sorvegliava gli operai, saldava loro i conti: mentre il signore, senza mai occuparsi di nulla, con­tinuamente intontito in una sonnolenza imbroncia­ta. dalla quale non si svegliava che per dirle qual­che parole sgarbata, se ne stasa a fumare presso il fuoco ed a sputare nella cenere.

    Quando ella ebbe un bambino, bisognò metterlo a balia. Tornato in casa, il marmocchio venne vi­ziato come un principe. La madre lo nutriva di marmellate; suo padre lo lasciava correre senza scarpe e per darsi arie da filosofo, diceva inoltre che poteva benissimo andare anche tutto nudo co­me i piccoli delle bestie. In contrasto con le ten­denze materne, egli aveva nella testa un certo idea­le virile dell’infanzia, secondo il quale procurava di formare suo figlio, volendo che lo si allevasse du­ramente. alla spartana, per dargli una buona costi­tuzione. Lo mandava a dormire senza fuoco, gli in­segnava a tracannarsi certi grossi bicchieri di rhum e ad insultare le processioni. Ma di natura timido e tranquillo, il piccolo rispondeva male ai suoi sfor­zi. Sua madre se lo traeva sempre dietro, gli rita­gliava pezzi di cartone, gli raccontava le vecchie favole, s’intratteneva con lui in monologhi senza fine, pieni di malinconica gaiezza e di chiacchiere leziose. Nell’isolamento della sua vita, jella riportò su quella testa di bambino tutte le sue vanità di­sperse. frantumate. Sognava per lui alte posizioni, lo vedeva già grande, bello, sistemato nell’amministrazione del Genio civile o nella Magistratura. Gli insegnò a leggere e, nello stesso tempo, su di un vecchio piano che possedeva, gli insegnò a cantare due o tre piccole romanze. A tutto questo il signor Bovary, che di lettere s’intendeva punto o poco, obiettava ch’era tempo sprecato. Avrebbero esse mai posseduto quanto sarebbe stato necessario per mantenerlo nelle scuole governative? per assicurar­gli una carica o rilevargli una piccola azienda com­merciale? D’altronde. « con un po' di faccia tosta, l’uomo riesce sempre a far strada nel mondo ». La signora Bovary si mordeva le labbra ed il ragazzo vagabondava per il villaggio.

    Egli seguiva i contadini e con pezzi di terra secca dava la caccia ai corvi che si involavano al passag­gio. Mangiava le more lungo i fossi, faceva la guar­dia ai tacchini con una pertica, rivoltava le messi falciate, correva per i boschi, giocava a zoppo sotto il portico della chiesa, nei giorni di pioggia e di gran festa supplicava lo scaccino di lasciargli suonare le campane, per potersi appendere con tutto il corpo alla grande corda e sentirsi da essa trasportare nella sua volala.

    Si sviluppò così come una quercia, acquistò vivi colori e le sue mani si fecero robuste.

    A dodici anni sua madre ottenne che incomin­ciassero i suoi studi. Se ne incaricò il curato. Ma le lezioni erano così brevi e così mal disposte che non poteva servire a gran che. Venivano impartite a tempo perso, nella sagrestia, ritti in piedi e con gran fretta, fra un battesimo ed una sepoltura; op­pure il curato mandava a chiamare il suo allievo dopo l’Angelus, quando non aveva da uscire. Allora bisognava salire di sopra ed accomodarsi nel­la sua camera; i mosconi e le farfalle notturne tur­binavano attorno la candela. Faceva caldo, il ra­gazzo si addormentava; il brav’uomo si assopiva con le mani sul ventre e non tardava troppo a russare con la bocca aperta. Altre volte , quando il signor curato, tornando dall’aver portato il viatico a qual­che ammalato dei dintorni, intravvedeva Charles che faceva il monello per la campagna, lo chiama­va, lo rimproverava per un quarto d’ora e profit­tava dell’occasione per fargli coniugare i verbi a piè d'ini albero. Veniva ad interromperli la pioggia o qualche conoscente che passava. Del resto egli era sempre contento di lui e diceva pure che il « giova­notto » aveva molta memoria.

    Charles non poteva fermarsi a questo punto; la madre fu energica. Confuso, o piuttosto stanco, il padre cedette senza resistenza e si attese ancora un anno finché il ragazzo avesse fatta la prima Comu­nione.

    Passarono altri sei mesi, e l’anno seguente Char­les venne mandato definitivamente al collegio di Rouen, dove lo accompagnò suo padre, verso la fine di ottobre, all’epoca della fiera di Saint- Romain.

    Ad ognuno di noi sarebbe ora impossibile ram­mentarci su di lui qualche fatto importante. Era un ragazzo di temperamento moderato, che giocava durante le ricreazioni e lavorava nelle ore di studio, ascoltando in classe, dormendo sodo al dor­mitorio, mangiando forte al refettorio. Aveva per corrispondente un chincagliere all’ingrosso della rue Gàuterie, che lo faceva uscire una volta al mese, di domenica, dopo che la sua bottega fosse chiusa;

    lo mandava a passeggiare al porto e guardare le navi, poi lo riaccompagnava al collegio, verso le sette, prima della refezione serale. La sera di ogni giovedì egli scriveva una lunga lettera a sua madre con l’inchiostro rosso, e vi applicava tre sigilli; poi ripassava i suoi quaderni di storia, oppure leggeva un vecchio volume d ’Albacharsis che si portava allo studio. Durante la passeggiata chiacchierava con il domestico, ch’era della campagna come lui.

    A forza di applicazione egli si mantenne sempre verso il mezzo della classe; tuttavia una volta si gua­dagnò una menzione onorevole in storia naturale.

    Ma alla fino del suo terzo anno i parenti lo ritira­rono dal collegio per farlo andare a studiare medicina, per­suasi ch’egli sarebbe riuscito ad arrivare da solo fino alla laurea.

    Sua madre gli trovò una camera ad un quarto pia­no su l’Eau-de-Robec, presso un tintore di sua co­noscenza, concluse il prezzo di pensione, si procurò qualche mobile, cioè un tavolino e due sedie, fece venire da casa un vecchio letto di ciliegio ed acqui­stò in più una piccola stufa di ghisa, con la provvi­sta di legna che doveva riscaldare il suo povero ra­gazzo. Alla fine della settimana ella partì, dopo mil­le raccomandazioni di comportarsi bene, ora che stava per essere lasciato a sé stesso.

    Il programma dei corsi ch’egli lesse sul mani te­sto, gli produsse uno stordimento: corso di anato­mia. corso di patologia, corso di fisiologia, corso di farmacia, corsi di chimica, di botanica, di clinica e di terapeutica, senza contare l'igiene e la materia medica: tutti nomi dei quali ignorava il si­gnificato e ch’erano come altrettante porte d’un santuario piene di anguste tenebre.

    Non ne capì niente! Aveva un bell'ascoltare, non riusciva ad afferrare. Egli lavorava tuttavia, aveva un mucchio di quaderni rilegati, seguiva tutti i cor­si. non perdeva mai una sola lezione. Compiva la sua piccola opera quotidiana alla maniera d’un ca­vallo da maneggio, che gira sul posto, ad occhi ben­dati. ignorando cosa stesse facendo.

    Per economia di spese, sua madre gli mandava ogni settimana, con il corriere, un pezzo di vitello arrosto con il quale egli desinava al mattino, quan­do, a grandi passi, rientrava dall’ospedale. Dopo gli toccava correre alle lezioni tenute nell’anfiteatro, poi all’ospizio, e ritornare a casa attraverso un de­dalo «ii strade. La sera, dopo il magro desinare del suo padrone di casa, risaliva alla sua camera e si rimetteva a lavorare, con gli abiti inzuppati, che gli rimanevano addosso davanti la stufa arrossata.

    Nelle belle sere d’estate, all’ora in cui le strade sono vuote, quando le servette giocano al volano su le soglie delle case, egli apriva la finestra e si affacciava a guardare. Il canale, che fa di quel quartiere di Rouen una specie d’ignobile piccola Venezia, scorreva in basso, sotto di lui. giallo, vio­letto e blu fra i suoi ponti e le sue cancellate. Grup­pi di operai, raccolti sui margini, si lavavano le braccia nell’acqua. Appese a lunghe pertiche in­fisse negli alti solai, pesanti matasse di cotone si ra­sciugavano all'aria. Di fronte, al di là dai tetti, si stendeva il gran cielo puro, con il sole rosso che tra­montava. Come si doveva star bene laggiù! Quale frescura sotto i faggi! Ed egli dilatava le narici per aspirare i buoni aromi della campagna, che non giungevano però fino a lui.

    Dimagrì, la sua statua si allungò, la sua faccia acquistò una specie di espressione dolente, che la rese quasi interessante.

    Naturalmente, per noncuranza, avvenne ch’egli abbandonasse tutte le risoluzioni già prese. Una volta mancò ad una visita , il giorno dopo al suo corso e lasciatosi vincere dalla pigrizia, a poco a fioco non vi ritornò più.

    Prese l'abitudine dell’osteria ed insieme la pas­sione per il domino. Chiudersi ogni sera in un lu­rido locale pubblico, per disporre sul marmo dei tavolini le piccole ossa di montone marcate di punti neri, già gli sembrava una preziosa dimostrazione di libertà, che lo rialzava nella stima di sé stesso, ai piaceri proibiti, ed entrando in quei locali, egli posava la mano sulla porta con una gioia quasi sen­suale. Allora, molte fra le pacioni oscure in lui soffocate, si dilatarono; mandò a memoria alcune strofette che poi cantava ai nuovi venuti, s’entusia­smò per Béranger. imparò a fare il ponce e co­nobbe infine l'amore.

    Grazie a questi lavori preparatori, egli fallì com­pletamente ai suoi esami d’ufficiale sanitario. La sera stessa, a casa, lo si attendeva invece per festeg­giare il suo successo!

    Egli partì a piedi e si fermò vicino all'entrata del villaggio, dove mandò a chiamare sua madre e le raccontò tutto. Questa lo scusò incolpandolo lo scacco all’ingiustizia degli esaminatori e lo ricon­fortò assumendosi d’aggiustare ogni cosa.

    Solo cinque anni più tardi il signor Bovary co­nobbe la verità: ma era vecchia ed egli l’accettò, non potendo d’altronde ammettere che un uomo nato da lui fosse uno sciocco.

    Charles si rimise dunque al lavoro e si preparò senza interruzione alle materie d'esame, di cui, per prima cosa, imparò a memoria tutte le domande. Venne promosso con una buona votazione. Che bel giorno quello, per sua madre! Venne dato un gran pranzo.

    Dove sarebbe andato ora ad esercitare la sua pro­fessione? A Tostes. Non vi era là che un vecchio medico; da molto tempo la signora Bovary atten­deva la sua morte, ed il brav’uomo non aveva an­cora fatta la valigia che Charles gli si era installato di fronte come successore.

    Ma l’avere allevato suo figlio, l'avergli fatto ap­prendere la medicina e l’avere scoperta Tostes come luogo dove la potesse esercitare, non era tutto: gli era necessaria una donna. Gliene trovò una: la ve­dova di un usciere di Dieppe, che aveva quaranta­cinque anni e milleduecento franchi di rendita.

    Quantunque fosse brutta, secca come uno stecco e bitorzoluta come una pianta a primavera, alla signora Dulrie non mancavano certo i partiti da scegliere. Per raggiungere il suo scopo, mamma Bovary si trovò obbligata a soppiantarli tutti e riu­scì pure a sventare con molta abilità gli intrighi di un pizzicagnolo ch’era sostenuto dai preti.

    Charles aveva sperato che dopo il matrimonio si verificassero per lui condizioni molto migliori, im­maginando che sarebbe stato più libero e che avreb­be potuto disporre della sua persona e del suo de­naro. Ma sua moglie diventò subito la padrona. Da­vanti alla gente egli doveva dire questo e non quel­lo, doveva mangiare di magro tutti i venerdì, ve­stirsi come lei voleva, citare, dietro suo ordine, i clienti che non pagavano. Lei apriva le sue lettere, spiava i suoi passi, ed attraverso l’assito ascoltava i consigli ch'egli dava nel suo gabinetto, quando si trattava di donne.

    Tutte le mattine aveva bisogno di prendere la cioccolata, ed esigeva inoltre una quantità di ri­guardi da non finirla più. Si lamentava senza posa dei suoi nervi, del suo petto, dei suoi umori. Il ru­more dei passi le faceva male; se il marito se ne andava, la solitudine le diventava odiosa; se ritor­nava presso di lei. era per vederla morire, senza dubbio. La sera, quando Charles rientrava, traeva da sotto le coperte le sue lunghe braccia ma­gre, gliele passava attorno al collo e, dopo averlo fatto sedere sul bordo del letto, si metteva a parlargli dei suoi dispiaceri: « Egli la dimenticava, ne amava un altra! Glielo avevano ben detto che sa­rebbe stata infelice... » e finiva chiedendogli qual­che pozione per la sua salute ed un po' più di amore.

    II

    Una notte, verso le undici, vennero svegliati dal rumore di un cavallo che si fermò proprio alla porta. La domestica aprì l'abbaino del solaio e par­lamentò qualche tempo con un uomo rimasto giù nella strada. Egli veniva a cercare il medico, aveva una lettera. « Nastasie » scese con passo tremolante e andò ad aprire la serratura ed i catenacci uno dopo l'altro. L’uomo lasciò il suo cavallo e seguen­do la domestica entrò di colpo dietro di lei. Trasse dall’interno del berretto di lana a fiocchi grigi una lettera avviluppata in un cencio e la presentò de­licatamente a Charles, che si sollevò sul guanciale per leggerla. Nastasie, vicino al letto, teneva il lu­me. La signora, per pudore, rimaneva voltata verso il muro e mostrava la schiena.

    Quella lettera, sigillata da un piccolo sigillo di cera turchina, supplicava il signor Bovary di recar­si immediatamente alla fattoria dei Bertaux per ri­mettere a posto una gamba rotta. Ora, da Tostes ai Bertaux, vi sono sei buone leghe di strada passando per Longueville e Saint-Victor. La notte era buia. La signora Bovary paventava capitasse qualche ac­cidente a suo marito. Venne infine deciso che il gar­zone di scuderia sarebbe partito per primo e Char­les tre ore più tardi, al sorgere della luna. Un ra­gazzo gli sarebbe stato mandato incontro per inse­gnargli la strada della fattoria ed aprirgli i recinti.

    Verso lo quattro del mattino, ben avvolto nel suo mantello, Charles si mise in cammino per i Bertaux. Ancora mezzo addormentato dal calore del sonno, egli si lasciò cullare dal trotto pacifico della sua bestia. Quand’essa si fermava da sola davanti ad una delle siepi spinose che seguivano il bordo dei fossi, Charles, risvegliandosi di soprassalto, ricor­dava subito la gamba rotta e procurava di richia­marsi alla memoria tutte le fratture che conosceva. La pioggia non cadeva più ed il giorno incomincia­va a sorgere; sui rami dei meli spogli di fronde gli uccellini stavano immobili rizzando le piccole pen­ne al vento freddo del mattino. La campagna piatta si stendeva a perdita di vista ed i gruppi d’alberi macchie d’un violetto scuro su quella grande su­perficie grigia, si perdeva all’orizzonte nel tono cupo ed uniforme del cielo. Di tanto in tanto Char­les apriva gli occhi, poi, aumentando in lui la stan­chezza dello spirito e ritornando spontaneo il son­no, si lasciava immediatamente invadere da una specie di sopore, in cui le sensazioni recenti si confonde­vano con lontani ricordi: si vedeva sdoppiato egli stesso in due personalità, ad un tempo studente ed ammogliato, coricato nel suo letto come poco prima e nel mezzo d’una sala d’operazioni, come l’altra volta. L’odore caldo dei cataplasmi si mescolava nella sua testa al fresco odore della rugiada; udiva scorrere su le loro guide le rotelline di ferro dei letti, e sua moglie dormire... Mentre passava per Vassonville vide sul margine d’un fosso un garzon­cello seduto sull’erba.

    — Siete voi il medico? - domandò il ragazzo.

    Alla risposta di Charles prese i suoi zoccoli fra le mani e si mise a correre davanti a lui.

    L’ufficiale sanitario, cammin facendo, comprese dai discorsi della sua guida che il signor Ronault doveva essere un agricoltore fra i più benestanti. S’era rotta la gamba la sera prima, tornando da un vicino. Sua moglie era morta da oltre due anni, non aveva con sé che la « signorina », la quale lo aiu­tava a tenere la casa.

    Le carreggiate diventarono più profonde, ci si avvicinava ai Bertaux. Il ragazzino, calatosi nel buco di una siepe, scomparve; poi tornò dall’estre­mità di un cortile per aprire il cancello. Il cavallo scivolava su l'erba molto bagnata; Charles si abbas­sava per passare sotto i rami; i cani da guardia ab­baiavano furiosamente dai canili tirando la catena; quando entrò dai Bertaux. il cavallo ebbe paura e fece un grande scarto.

    Era una fattoria di bella apparenza; nelle scude­rie si vedevano, attraverso le porte aperte, i grossi cavalli da lavoro che mangiavano tranquillamente dalle rastrelliere nuove. Lungo le costruzioni, si stendeva un grande letamaio, dal quale si innalzava una nube di vapori ed in mezzo a polli e tacchini spigolavano pure cinque o sei pavoni, lusso dei pollai. L’ovile era lungo, il granaio allo e costrui­to in mura lisce come il marmo. Sotto la tettoia c’e­rano due grandi carri e quattro aratri con le loro fruste, le collane ed i loro finimenti completi, in­sudiciati nelle parti rivestite di lana blu dalla pol­vere che cadeva dal solaio. La corte era in salita, piantata d’alberi disposti simmetricamente e presso uno stagno si faceva sentire il gaio rumore d’un branco d’oche.

    Una giovane, con una veste di merinos blu guar­nita di tre volanti, venne sulla soglia della casa per ricevere il signor Bovary e lo fece entrare nella cucina, dove fiammeggiava un gran fuoco. La colazione della gente bolliva in giro entro piccole sco­delle di varie dimensioni. Molti vestiti umidi sta­vano ad asciugare nell’interno del camino. La pa­letta, le molle ed il soffietto, tutti di proporzioni co­lossali, brillavano come acciaio pulito e lungo i muri si stendeva un'abbondante batteria da cucina, su cui si rifletteva ineguale la chiara fiamma del fuoco unita ai primi raggi del sole che penetravano attraverso le inferriate delle finestre.

    Charles salì al primo piano per vedere l’amma­lato. Lo trovò nel suo letto, tutto in sudore sotto le coperte, senza il berretto di cotone che aveva getta­to molto lontano. Era un uomo piccolo e grasso d una, cinquantina d’anni, dalla pelle bianca, gli occhi azzurri, calvo sul davanti della testa, e por­tava cerchietti d’oro alle orecchie. Aveva al suo fianco, sopra una seggiola, una grande caraffa d’ac­quavite, dalla quale, ogni tanto, si versava un bic­chierino per ristorarsi il ventre. Ma appena vide il medico la sua esaltazione cadde e invece di sacra­mentare come faceva da più di dodici ore, si mise a gemere debolmente.

    Charles non avrebbe mai osato sperare in una cosa tanto facile. Allora, ricordando il com­portamento dei suoi maestri presso il letto dei fe­riti, si mise a confortare il paziente con ogni spe­cie di buone parole; carezze chirurgiche che sono come l’olio con cui s’ingrassa il bisturi. Per prov­vedere le assicelle che occorrevano, andò a pren­dere nella rimessa un mucchio di panchette. Char­les ne scelse una, la fece a pezzi e la ripulì con un pezzo di vetro, mentre la domestica lacerava qual­che panno per trarne le bende, mentre la signorina Emma si occupava a confezionare i cuscinetti. Sic­come ci volle molto tempo prima che trovasse la sua borsetta da lavoro, suo padre s'impazientì. Ella non rispose nulla, ma cucendo si punse le dita e le portò alla bocca per succhiarsele.

    Charles fu sorpreso dalla bianchezza delle sue unghie. Esse erano brillanti, fini in punta, più pu­lite degli avori di Dieppe e tagliale a mandorla. Tuttavia la sua mano non era bella, non abbastanza pallida, forse, e un po' troppo asciutta nelle falan­gi; era forse anche troppo lunga e priva di morbide inflessioni di linee nei contorni. Ciò ch’ella aveva di bello erano gli occhi: benché bruni sembravano neri a causa delle ciglia ed il loro sguardo arrivava francamente a voi con una candida arditezza.

    Finita la fasciatura, il medico venne invitato, dal signor Ronault stesso, a « prendere un boccone » prima di partire.

    Charles scese nella sala al pian terreno. Due co­perti. con delle coppe d’argento, erano disposti so­vra una piccola tavola, ai piedi d’un grande letto a baldacchino rivestito di una tela indiana con su dei personaggi che rappresentavano dei turchi. Si sentiva un odore d’iris e di panni umidi che sfug­givano dall’armadio in legno di quercia, posto di fronte alla finestra. Per terra, negli angoli, stavano disposti, ai piedi, alcuni sacelli di frumento. Era l’esuberanza del vicino granaio al quale si saliva per dei gradini di pietra. Come decorazione l’am­biente c’era, nel mezzo della parete, dove la tinta verde si squamava sotto l’azione del salnitro, una testa di Minerva in carboncino, inquadrata in una cornice dorata, che portava scritto alla base in let­tere gotiche: « Al mio caro papà ».

    Si parlò prima dell’ammalato, poi del tempo che faceva, dei grandi freddi, dei lupi che scorrazza­vano per i campi durante la notte. La signorina Ronault non si divertiva troppo in campagna, ora so­pra tutto, che si trovava pressoché sola a dover cu­rare la fattoria. Siccome la sala era fredda, ella tremava tutta mangiando e ciò le scopriva un po' le labbra carnose, ch’ella usava mordicchiarsi nei momenti in cui rimaneva silenziosa.

    La nuca le usciva da un collo bianco ripiegato; i suoi capelli, di cui le due compatte bande nere sembravano d’un sol pezzo, tanto erano lisce, ve­nivano divisi nel mezzo da una scriminatura sot­tile, che si affondava leggermente fra il loro spes­sore seguendo la linea del cranio e lasciando ap­pena intravedere i lobi delle orecchie, andavano a riunirsi dietro la nuca in un nodo abbondante, con un movimento ondulato verso le tempie, che il me­dico dì campagna rimarcò per la prima volta in vita sua. I suoi zigomi erano rossi, portava, come un uomo, passato per due occhielli del suo corsetto, un occhialino di tartaruga.

    Quando Charles, dopo essere salito a salutare il padre Ronault, rientrò nella sala prima di partire, la trovò dritta in piedi, con la fronte contro i vetri della finestra, che guardava nel giardino, dove i pali che sostenevano le piantine di fagiolini erano stati rovesciati dal vento. Al suo entrare si voltò, - il mio frustino, per favore, - egli rispose.

    E si mise a frugare sul letto, dietro le porte, sulle sedie; era caduto a terra, fra i sacchi e la pa­rete. La signorina Emma lo vide, si chinò sui sacchi di frumento; Charles, per galanteria si precipitò e poiché egli pure allungava il braccio nello stesso mo­vimento, sentì il suo petto sfiorare la schiena della giovane, curva sotto di lui. Lei si raddrizzò tutta rossa e lo guardò al di sopra della spalla tendendogli il suo nervo di bue.

    Invece di ritornare ai Bertaux tre giorni dopo, come aveva promesso, egli ritornò il domani stes­so, poi due volte la settimana regolarmente, sen­za contare le visite inattese che vi faceva ogni tan­to, come per combinazione.

    Tutto, del resto, andò bene; la guarigione av­venne secondo le regole e quando, alla fine dei quarantasei giorni, si vide papà Ronault che ten­tava di camminare da solo per la sua « casupola », si incominciò a considerare il signor Bovary come un uomo di grande capacità. Papà Ronault andava dicendo che non sarebbe stato curato e guarito me­glio dai primari medici di Yvetot e neppure da quelli di Rouen.

    Quanto a Charles, egli non cercò affatto di chie­dersi perché veniva ai Bertaux con piacere. Ma, quando se lo fosse chiesto, si sarebbe detto che ciò si doveva attribuire al suo zelo per la gravità del caso, oppure al profitto che sperava di trarne. Era tuttavia per questo che le sue visite alla fattoria co­stituivano, in mezzo alle misere occupazioni della sua vita, un’eccezione cara e gradita? Quei giorni egli si alzava di buon’ora, partiva al galoppo, inci­tava la sua bestia, poi scendeva per pulirsi i piedi nell’erba ed infilava i guanti neri prima d’entrare. Amava vedersi arrivare nel cortile, sentire dietro le sue spalle la barriera che si richiudeva, il gallo che cantava sul muro ed i garzoni che gli venivano in­contro. Amava il granaio e le scuderie, amava il papà Ronault che gli picchiava sulla mano chiaman­dolo il suo sapiente; amava i piccoli zoccoli della si­gnorina Emma sulle piastrelle ben lavate della cu­cina; i suoi tacchi alti la ingrandivano un po’e quando lei camminava davanti a lui, le suole di legno, alzandosi rapide, battevano con un secco ru­more contro il cuoio degli stivaletti.

    Lei lo riconduceva sempre fino al primo gradino della scalinata e finché non gli avessero condotto il cavallo, rimaneva lì con lui. Si erano già salutati e non si parlavano più: il vento li avvolgeva solle­vando disordinatamente i piccoli riccioli folti sulla sua nuca, o scuotendo sulle sue anche le gale del grembiule, che si attorcigliavano come banderuole. Una volta, al tempo del disgelo, i rami degli alberi gocciolavano nella corte, la neve si fondeva sui tetti delle costruzioni. Lei era su la porta, andò a cer­care l’ombrello da pioggia e l’aprì. L'ombrello di seta cangiante, attraversato dal sole, rischiarava di mobili riflessi la pelle bianca della sua faccia. Ella sorrideva, sotto quel luminoso tepore e si udivano le gocce cadere, ad una ad una, su la seta distesa.

    Durante i primi tempi che Charles frequentava i Bertaux, sua moglie non mancò d’informarsi del­l'ammalato ed inoltre, sul libro ch'ella teneva a partita doppia, aveva scelto per il signor Ronault una bella pagina bianca. Ma quando seppe che vi era una ragazza, andò a chiedere maggiori informa­zioni ed apprese che la signorina Ronault, allevata nel convento delle Orsoline, aveva ricevuta, come si dice « una bella educazione » e conosceva, di con­seguenza, la danza, la geografia, il disegno; sapeva ricamare a telaio gli arazzi e suonare il piano. Fu il colmo!

    — E per questo dunque; lei si diceva, che Char­les ha la faccia tanto lieta quando la va a vedere e si mette il gilè nuovo, a rischio di guastarlo sotto la pioggia? Ah! quella donna!.., quella donna!...

    E d’istinto, la detestò. Al principio si sfogò a fu­ria d’allusioni, che Charles non comprese; poi con riflessioni ad alta voce, ch’egli lasciava passare pei timore della burrasca; infine con domande a bru­ciapelo cui egli non sapeva che rispondere.

    Come mai che egli tornava ai Bertaux, ora che il signor Ronault era guarito e quella brava gente non aveva ancora pagato? Ah! era che aveva laggiù « una persona », qualcuno che sapeva conversare, lui gradiva; gli occorrevano le signorine di città!... E riprendeva.

    La figlia di papà Ronault. una signorina di città! Andiamo dunque! Il loro nonno era un pa­store ed hanno

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