Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'ultimo dei Mohicani
L'ultimo dei Mohicani
L'ultimo dei Mohicani
E-book535 pagine5 ore

L'ultimo dei Mohicani

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Introduzione di Stanislao Nievo
Traduzione di Martina Rinaldi
Edizione integrale

L’ultimo dei Mohicani è Uncas, il figlio di Chingachguk, del vecchio capo leale e generoso che guida la sua gente fra le battaglie, gli agguati e le carneficine della guerra coloniale tra francesi e inglesi nei territori selvaggi del Nord America, intorno al 1750. Uncas sarà l’ultimo della tribù: così profetizza il padre, che già intravede intorno a sé i segni del genocidio futuro. La storia, riproposta in un film di grande successo interpretato da Daniel Day Lewis, è un’avventura romantica vissuta in paesaggi di grande bellezza, tra nomi e personaggi che attirano per la carica umana ed evocativa. L’ultimo dei Mohicani spazia tra grandi temi attuali, dal razzismo alla politica, all’amore, al tradimento, alla solidarietà tra uomini diversi. È una lezione di vita che, sorgendo da un secolo e da un mondo scomparsi, resta moderna e attraente come poche altre storie per giovani e per adulti.
James Fenimore Cooper
(1789-1851) fu il primo grande romanziere statunitense. Delineò in una cinquantina di romanzi la figura del pioniere americano nel suo rapporto con la natura incontaminata e con i pellerossa. Su questi temi scrisse I pionieri (1823), La prateria (1827), La guida (1840) e L’uccisore di cervi (1841). Pubblicò anche romanzi storici e un ciclo di avventure di mare.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2015
ISBN9788854183124
L'ultimo dei Mohicani
Autore

James Fenimore Cooper

James Fenimore Cooper was born in 1789 in New Jersey, but later moved to Cooperstown in New York, where he lived most of his life. His novel The Last of the Mohicans was one of the most widely read novels in the 19th century and is generally considered to be his masterpiece. His novels have been adapted for stage, radio, TV and film.

Autori correlati

Correlato a L'ultimo dei Mohicani

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Classici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'ultimo dei Mohicani

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'ultimo dei Mohicani - James Fenimore Cooper

    Introduzione

    Da quando è nato nell’uomo il desiderio e il piacere del racconto, cioè da sempre, il libro d’avventura è un’attrazione naturale per chi legge, sotto qualsiasi latitudine, in qualunque lingua.

    Nel mondo occidentale per milioni di ragazzi è stato motivo di grande efficacia per un’apertura sull’esistenza in cui stanno entrando.

    Al di là delle fiabe dell’infanzia, il libro d’avventura da Mark Twain a Salgari, da Vamba (autore di Giamburrasca) a Verne ha costituito un’attrattiva, specialmente fra i maschi, in un grande numero di ragazzi. Alcuni di loro lo porteranno con sé nella vita come un breviario personale, da scegliere tra gli autori che per primi ci hanno rivelato il gusto della vita, la sognata e paventata prova del mondo.

    Oggi, alternative televisive hanno in parte fagocitato questa lettura pur mutandola e ampliandola. Ma la forma letteraria rimane la più personale maniera di seguire una storia, quella meno sensuale e accidiosa, fortemente personale perché non si vede la scena ma la si immagina. In un film vengono offerti gli elementi più acustici e visivi, senza una nostra partecipazione elaborativa. La grandezza del libro sta nell’offrirci la traccia vasta e articolata di una vicenda, il suo paesaggio e l’ambiente morale, lasciandoci nello stesso tempo la libertà di partecipare e anche ideare personalmente quel che succede, pur indirizzandoci con le parole dell’autore.

    Il film d’avventura non ha questo, è forse più facile, ma certo ci appartiene meno del libro. Qui la presenza del lettore è quella di un piccolo scrittore parziale, che a fianco all’autore e a volte con personalità diversa rende originale la storia scritta.

    Per tali ragioni il libro d’avventura, rispetto ad altre forme di conoscenza e apprendimento, non finirà, finché noi vorremo esser testimoni personali della vicenda, nel silenzio della lettura e nella pratica possibilità di risalire le pagine e inventarci la nostra partecipazione diretta che soltanto così rende il libro nostro, autentico.

    L’ultimo dei Mohicani, conosciuto e realizzato cinematograficamente anche in tempi recenti, ha tutte queste caratteristiche. Un vero libro d’avventura.

    È una storia che si svolge più di duecento anni fa, dai risvolti e dalle situazioni fantasiosi, che hanno il pregio di trasformare in elementi attuali vicende di popolazioni, eserciti e coloni stranieri in terre d’emigrazione.

    La vicenda si svolge nell’America settentrionale durante le guerre fra le colonie francesi del Canada e quelle inglesi, attorno al 1750, nella zona che dai monti Allegheny si estende a nord fino alla baia di Hudson.

    Il libro inizia con la descrizione dei luoghi dove si svolgono le vicende, in una regione di montagne e pianure ricoperte di foreste e corsi d’acqua, percorse da diverse tribù d’indiani. I soldati di un accampamento inglese sono impegnati nei preparativi di partenza in soccorso del comandante d’un fortino inglese, Munro, assalito dall’esercito francese del generale Montcalm. Magua, la scolta indiana degli inglesi, ha portato il messaggio. All’alba, queste truppe si incolonnano inoltrandosi nella foresta. Così inizia la marcia e il libro.

    Intanto l’accampamento non si svuota, restano le famiglie, i civili, fra i quali si nota un gruppo anch’esso in partenza. Il teatro dell’azione è il medesimo. L’avventura si mette in marcia da un solo luogo, incolonnando su sentieri intricati persone con intenzioni diverse, guerriere le prime, pacifiche le seconde. È l’inizio dell’intreccio.

    In un’altra zona della stessa foresta due uomini, un anziano pellerossa e un europeo dalla pelle bruciata dal sole, discutono sul diverso modo di leggere la realtà che esiste tra un europeo e un autoctono americano. Sono il vecchio Chingachguk, capo della tribù dei Lenni Lenape il ceppo più antico dei Mohicani – e il giovane ricognitore inglese che fin da bambino è vissuto con la tribù dei Delaware anch’essi Mohicani e che vanta sangue incontaminato. L’indiano mostra nel comportamento e nel linguaggio l’autorevolezza e l’orgoglio del capo tribù, ma dolorosamente presagisce anche la fine del suo popolo. Suo figlio Uncas sarà «L’ultimo dei Mohicani», esclama. Appena ne rivela il nome, il giovane balza davanti a loro con l’agilità d’un cervo.

    La vicenda entra così nel vivo e il titolo del libro diventa vaticinio alla storia, L’ultimo dei Mohicani, di J.F. Cooper.

    James Fenimore Cooper è un romanziere americano nato a Burlington (New Jersey) nel 1789, l’anno della Rivoluzione francese, e morto nel 1851 a New York, mentre l’aurora delle indipendenze europee trascina il mondo verso la prima grande stagione di libertà del pianeta. Cooper è figlio d’un ricco colono, la sua esistenza è l’espressione letteraria e avventurosa del periodo romantico in cui vive. Per indisciplina viene cacciato dall’università di Yale, si arruola in Marina e comincia a viaggiare e scrivere. Scrive trentatré romanzi di varia presa e successo, ma sempre in una miscela di avventure e situazioni melodrammatiche, perché questo è il senso possente che avverte in sé e comunica scrivendo. Centro del suo panorama geografico e sentimentale è la prateria americana, i drammi della foresta e della corsa all’Ovest, la lotta fra civiltà e natura, i diritti dell’uomo e la lotta in un ambiente selvaggio fra sfruttati e oppressori. Cooper ottiene gran successo specialmente con L’ultimo dei Mohicani, pubblicato nel 1826, e con L’uccisore di cervi, nel 1841. Suscita entusiasmi che accompagnano milioni di ragazzi in tanti paesi diversi per più di cento anni, e se anche oggi – passati quasi due secoli – traspare da questi libri un profumo di passato, la fragranza delle pagine di Cooper continua ancor oggi.

    «Il silenzio continuò per molti angosciosi minuti, senza che alcuna voce umana lo interrompesse. Poi la moltitudine ondeggiante si aprì e si richiuse, e Uncas si trovò nel cerchio vivente».

    Ecco l’apparizione del protagonista, prigioniero degli indiani amici degli inglesi, e al tempo stesso prigioniero della tribù Delaware, un ramo dei Mohicani.

    Sale il dramma di un uomo prigioniero di due mondi: il suo che vive pienamente nella natura e quello invadente dei nuovi conquistatori, gli inglesi. Ma l’avventura qui tocca l’alba d’un giorno eterno. L’uomo due volte prigioniero si alza tra i suoi carcerieri e li domina con l’autorità del pensiero e dei princìpi, rivelandosi col tono della voce e i segni della stirpe che li soggiogano. Cooper esplode verso l’alto, trascina con la descrizione accurata e pungente del rovesciamento dei valori e con l’uso dell’agnizione il dramma di tanti protagonisti dei libri d’avventura.

    La storia tocca uno dei vertici, quindi la foresta torna padrona e nasconde altre storie, tutte legate. Legato anche il tradimento d’un pellerossa, Magua, che trascina la giovane europea Cora, la quale si sacrifica piuttosto che cedere al traditore.

    «Donna, ripeté Magua con voce rauca, sforzandosi invano di cogliere uno sguardo degli occhi sereni e splendenti di lei, scegli!.

    Ma Cora non lo udì, né diede ascolto alla sua domanda. La figura dell’Urone tremava in ogni fibra e alzò in alto il braccio, lasciandolo però ricadere con aria perplessa, come chi ha dubbi. Una volta ancora lottò con se stesso, risollevando l’arma affilata, ma proprio in quel momento si udì sopra di loro un grido penetrante e apparve Uncas, balzando follemente sulla sporgenza da un’altezza vertiginosa. Magua si ritrasse di un passo…».

    Passioni e odi si scatenano. Nell’anfiteatro romantico e selvaggio la vita corre, si perde, si vendica. È il ritmo, attualissimo, di Cooper.

    Ma altri sentimenti, altri sentieri prende l’avventura. Le armate in lotta, francesi e inglesi, si muovono sulla scacchiera dei loro accampamenti verso la grande partita che si svolge fra tribù e razze, fra antichi americani e nuovi emigrati. Storie di massacri, di duelli mortali, ma anche d’amore.

    Alice, bionda, occhi azzurri, timida e riservata un carattere classico dell’avventura ottocentesca sorellastra di Cora, anch’essa figlia del comandante inglese Munro, diventa protagonista d’una storia sentimentale. È un altro ramo della vicenda avventurosa in cui Cooper lancia i suoi personaggi. Le delicate manifestazioni di tenerezza del giovane maggiore Heyward, scout fidato delle due giovani, si trasformano in eroismo allorché Alice, prigioniera anch’essa, viene condotta nella tribù degli Uroni, alleati con i francesi. Per liberarla, il giovane si insinua nel villaggio indiano recitando la parte di medico dei francesi alleati. Con astuzia l’avvolge in un lenzuolo e aiutato da un amico camuffato da orso, traendo profitto da un’usanza degli Uroni, la porta in salvo.

    È una delle scene pittoresche dell’avventura attraverso le praterie e le foreste che rendono indimenticabile L’ultimo dei Mohicani.

    Ma quello che più rende memorabile questo libro è il grande slancio verso l’ambiente, verso i fiumi e la foresta. Ciò imprime agli eventi, sostenendoli e inquadrandoli, il profondo senso della natura che raggiunge negli indiani per dedizione religiosa e negli europei per smarrimento razionale momenti in cui ogni elemento ha una dimensione assoluta.

    La foresta e i fiumi non possono essere completamente svelati, ma solo percorsi. La foresta è madre del genere umano, attrae, confonde e unisce le varie razze così distanti che convergono, s’incontrano e si scontrano in essa. I fiumi non sono civiltà, ma miniere antichissime e inesauribili del mondo in cui gli uomini trovano acqua, legni, scie e correnti per cui costruire poi la loro civiltà.

    Il libro si apre con un affresco che è un omaggio alla natura dell’America settentrionale, «Le province nemiche, appartenenti», allora, «alla Francia e all’Inghilterra». Le nazioni coloniali si battono per il dominio delle terre in cui si svolge la storia. «una vasta e impervia zona boscosa» le aree in questione. Così leggiamo nel primo capitolo, che subito si allarga in descrizione possente alle vie fluide che attraversano queste zone e cioè i fiumi, il lago sacro, con le isole nel mezzo.

    È un’epoca di scontri, il terzo anno dell’ultima guerra coloniale tra europei, mentre le tribù indiane, intrecciate nelle alleanze, si battono e si alleano con gli uni e gli altri.

    C’è un senso di rispettosa considerazione degli indiani da parte di Cooper, lui americano inneggiante alla freddezza e allo spirito d’un ragazzo della Virginia, George Washington, che al tempo degli eventi del libro è ancora giovane, e al tempo della scrittura dello stesso ormai è diventato gloria nazionale. Gli indiani sono chiamati selvaggi, in una visione che considera in modo ottocentesco il confine fra natura e civiltà. Ma già si avverte che la crisi dell’uomo bianco, di fronte all’uomo d’altro continente e razza, sta giungendo alle «rapide» nel fiume della storia, quelle che ci hanno portato oggi alle nuove relazioni interrazziali.

    Foresta, praterie, fiumi, cascate. In mezzo gli uomini tracciano sentieri e costruiscono fortificazioni, si battono, fuggono, torna il verde a vincere, il vento a soffiare indifferente e inarrestabile, fra momenti di calma, incendi e nel soffio del Nord che «si riversava sopra la distesa d’acqua con tanta durezza e nitidezza da non lasciare nulla che potesse essere immaginato con gli occhi o modellato dalla fantasia».

    Nel mezzo restano gli effetti provocati dalle lotte degli uomini in armi, l’«orribile spettacolo che si presentava di continuo sul loro cammino verso la riva del lago». I differenti caratteri degli uomini in marcia sono attratti dallo spettacolo drammatico, ma diverso per ognuno. È un libro di lotta, nella natura selvaggia.

    «Il sole aveva nascosto il suo calore dietro a una massa impenetrabile di vapori, e centinaia di forme umane, annerite sotto la feroce calura di agosto, stavano irrigidendosi nella loro deformità sotto le raffiche di un novembre prematuro».

    Questa è la natura, il suo sdegno di fronte alla ferocia umana. La natura diventa personaggio, come avviene nelle grandi epopee e nelle fiabe, e qui Cooper si rivela scrittore d’ogni tempo.

    Rappresentazioni incisive del paesaggio e caratterizzazioni singolari nei personaggi rendono concrete le scene che si susseguono, sempre rapide, dalla descrizione dell’isola con la caverna in mezzo al fiume, alla ricerca delle tracce lasciate nella foresta dal passaggio di un nemico. Il linguaggio offre la realtà sia attraverso l’occhio occidentale che indiano, variando la narrazione coloritamente nell’accostamento del linguaggio dei pellerossa vicino alla natura, ben diverso da quello delle lingue europee che l’hanno distanziato da tempo. Molti personaggi hanno tre nomi diversi, l’inglese, il francese e l’indiano. Il giovane ricognitore inglese, che accompagna nella sua azione esplorativa l’intero racconto, è chiamato dai francesi Longue Carabine e dagli indiani Occhio di Falco. È una storia raccontata da un unico scrittore ma dialogata da popoli diversi.

    Il presente del racconto a volte entra nel passato. All’inizio il presente

    si rende palpabile nella pronuncia del nome Uncas, e l’apparizione del gio-

    vane rappresenta anche l’inizio e la fine di qualcosa che va oltre la sua in-

    dividualità, come pure l’intensità del sentimento che unisce l’anziano Chingachguk e il ricognitore. La loro è solitudine apparente, l’intensità della vita trascorsa insieme rimane parte indelebile, conferendo al libro il carattere dell’avventura.

    Il romanzo ha una forza comunicativa che il tempo conserva nelle tematiche attuali come razzismo e monopolio politico e in quelle di sempre come amicizia, solidarietà e disapprovazione ferma verso ciò che è degradante. L’ultimo dei Mohicani rimane un testo a sfondo naturalmente etico.

    «Una volta dormivamo là dove si udiva il lago salato parlare nella sua rabbia. Allora eravamo i padroni e i Sagamore della terra. Ma quando un viso pallido fu visto in ogni ruscello, seguimmo il cervo fino al fiume della nostra nazione. I Delaware se n’erano andati».

    È il saluto pieno di nostalgia del vecchio Mohicano che lancia un messaggio fino ad oggi, fino a noi. Ma «Quando Manitu sarà pronto e dirà: Venite, seguiremo il fiume fino al mare e riprenderemo quel che è nostro».

    Il tempo dei Mohicani tornerà. Oggi i loro figli vanno incontro ad un avvenire radicalmente diverso. Ma nel fondo del cuore come tanti amerindi superstiti cercano l’antica sorgente perduta. Una sorgente che tante etnie in tanti paesi inseguono nei loro sogni e la nostalgia scuote come un uragano lontano.

    Stanislao Nievo

    Capitolo primo

    Il mio orecchio è aperto e il mio cuore preparato.

    Il peggio che potrai annunciarmi è una perdita terrena.

    Dimmi, il mio regno è perduto?

    William Shakespeare, Riccardo ii

    Una delle caratteristiche delle guerre coloniali in America settentrionale era quella di trovarsi a dover affrontare le fatiche e i pericoli di quelle terre selvagge ancor prima che gli eserciti avversari iniziassero a combattere. Le province nemiche, appartenenti alla Francia e all’Inghilterra, erano separate da una vasta e impervia zona boscosa. Il vigoroso colono, e l’addestrato europeo che combatteva al suo fianco, passavano mesi a superare le rapide dei fiumi o risalire per ripidi passi di montagna prima di trovare l’occasione di mostrare il proprio valore in qualche scontro di natura più specificamente marziale. Tuttavia, ricalcando la pazienza e lo spirito di sacrificio dei migliori guerrieri indigeni, imparavano a sconfiggere ogni difficoltà; e si sarebbe detto che, col tempo, nessun angolo del bosco sarebbe stato così nascosto o isolato da sfuggire all’assalto di quanti avevano fatto voto di sangue pur di esercitare la propria vendetta, o pur di sostenere la politica fredda ed egoista dei lontani regni europei.

    Forse nessun’altra regione degli estesi territori intermedi potrebbe fornire un quadro più fedele della crudeltà e della ferocia con cui gli indigeni combattevano questa guerra, di quella compresa tra gli affluenti superiori dello Hudson e i vicini laghi.

    Le facilitazioni che la natura offriva lì alla marcia dei combattenti erano così evidenti da non poter essere trascurate. Il lungo specchio del Champlain, che partiva dalle frontiere del Canada e si addentrava ben oltre i confini della provincia di New York, formava un passaggio naturale che finiva per abbreviare della metà il cammino che i francesi dovevano affrontare per poter colpire i nemici. Verso la sua estremità meridionale esso riceveva il tributo d’un altro lago, con acque così limpide che i missionari gesuiti le avevano dichiarate le uniche degne di essere usate per il battesimo: tanto che il lago fu chiamato poi «du Saint Sacrement». Gli inglesi, non altrettanto devoti, ritennero invece che fosse un onore sufficiente dare a quelle acque purissime il nome del loro principe regnante, il secondo della Casa di Hannover. E così facendo, i due popoli avevano entrambi defraudato gli ignoranti signori di quell’area selvaggia del diritto di continuare a chiamarlo «Horican»¹.

    Circondato dai monti, il «lago sacro» si estendeva, insinuandosi tra numerose isolette, per un’altra dozzina di miglia verso sud. A quel punto l’altopiano ostacolava il passaggio delle acque, e si apriva un passaggio di altrettante miglia, che portava il viaggiatore fino alle rive dell’Hudson, in un punto in cui – con le consuete ostruzioni delle rapide, o rifts come venivano chiamate nel linguaggio locale – il fiume, a seconda della marea, si faceva navigabile.

    Se, per assecondare i suoi audaci piani di disturbo, l’impavida impresa dei francesi aveva previsto di superare persino le remote e difficili gole dell’Alleghany, è facile intuire che il proverbiale acume di quel popolo non avrebbe certo trascurato le prerogative offerte dalla natura nel territorio che abbiamo appena descritto. Esso divenne, orribilmente, la sanguinosa arena all’interno della quale si consumarono quasi tutte le battaglie per la conquista di quelle colonie. Presso alcuni dei punti che dominavano i tratti migliori di quella strada furono costruite delle fortificazioni, prese e riprese, di volta in volta distrutte e poi ricostruite, a seconda di quale delle due bandiere vinceva quella data battaglia. Se da una parte il contadino restava ben lontano da quei pericolosi luoghi, preferendo restare entro i confini sicuri delle antiche colonie, i soldati – più numerosi ancora di quelli che in patria combattevano per le sorti del regno – andavano invece a seppellirsi in quelle foreste, da cui uscivano solo raramente e in gruppi di scheletri spettrali tanto avevano faticato per averla vinta, oppure atterriti dopo la sconfitta. Sebbene le arti della pace fossero ignote in quella fatale regione, le sue foreste brulicavano di uomini; tra le sue ombre e le radure risuonava la musica marziale, e l’eco delle montagne rimandava le risate, o le grida smodate dei molti giovani brillanti e coraggiosi, la cui allegria andava tramontando in una lunga notte di oblio.

    E fu proprio in questo scenario sanguinoso che si svolse quanto andremo a narrare, nel terzo anno dell’ultima guerra tra Inghilterra e Francia per il dominio di un territorio che nessuna delle due era destinata a conservare.

    L’imperizia dei capi militari in quelle terre straniere, e la grave mancanza d’energia di chi governava in patria, avevano indebolito l’immagine della Gran Bretagna, un tempo tanto ammirata per le capacità e le imprese dei suoi guerrieri e statisti. Ora che non era più così temuta dai suoi nemici, perdeva lentamente anche la fiducia da parte dei suoi servi, che il rispetto porta inevitabilmente con sé. E così i coloni, in questo clima di sconforto, sebbene senza colpa per le stolidezze della loro patria d’origine, e sin troppo semplici per poter esser giudicati essi stessi responsabili di quegli errori, ne erano i naturali partecipi.

    Da poco era arrivata un’armata scelta, proveniente dalla madrepatria, che – nutrendo nei confronti di quest’ultima un rispetto filiale – avevano stoltamente creduto invincibile. Era un esercito, condotto da un capo eletto da un gruppo di guerrieri ben addestrati per le sue singolari doti marziali, che fu però vergognosamente sconfitto da un manipolo di francesi e indiani, salvato da una totale disfatta solo grazie alla freddezza e al coraggio di un giovane della Virginia, diventato in seguito famoso, forse per la forza e la caparbietà della sua onestà morale, sino ai confini più estremi della cristianità². Era molto ampio il territorio che fu distrutto da quel disastro, e i mali peggiori furono preceduti da strani pericoli, talvolta immaginari. Ai coloni angosciati pareva di sentire le grida dei selvaggi mescolarsi con ogni capricciosa raffica di vento, che soffiava potente dalle sterminate foreste del West. La natura spaventosa dei loro feroci nemici distorceva ancora gli orrori già terribili della guerra. Erano molti i massacri recenti ancora vividi nella memoria; e nessun orecchio di nessuna delle province era tanto sordo da non aver udito qualche storia spaventosa di assassinii notturni, quasi sempre ad opera dei crudeli indigeni della foresta. E mentre l’ingenuo, esaltato viaggiatore andava raccontando le impavide vicende di quei luoghi selvaggi, il sangue dei più timorosi si raggelava nel terrore, le madri guardavano ansiose i loro bambini, anche se riposavano tranquilli e al sicuro nelle grandi città. E così, la paura che esaspera i pericoli finiva per neutralizzare il pondero della ragione, rendendo schiavi della più vile delle passioni anche chi non avrebbe dovuto dimenticare la salda difesa della propria virilità. Persino gli animi più fiduciosi e intrepidi cominciarono a credere che l’esito della guerra fosse ormai incerto; e cresceva d’ora in ora il numero di quanti erano convinti che, prima o poi, tutti i possedimenti della corona inglese in America sarebbero rimasti in mano ai cristiani suoi nemici o distrutti dai saccheggi dei loro spietati alleati.

    Così, quando al forte che dominava l’estremità più a sud dei territori tra lo Hudson e i laghi giunse la notizia che Montcalm era stato avvistato lungo il Champlain mentre si avvicinava con un esercito «fitto come le foglie degli alberi», venne accolta con la ritrosia nervosa tipica della paura, più che con la rude gioia che un guerriero dovrebbe provare sapendo che un nemico sta avanzando. La notizia era stata riferita al tramonto, in una giornata d’estate, da una staffetta indiana, che portava anche una richiesta urgente da parte di Munro – a capo di un forte sulla sponda del «lago sacro» – di inviare rinforzi solleciti e vigorosi. I due forti, come abbiamo accennato, non distavano più di cinque leghe. Il piccolo sentiero che li collegava era stato allargato per consentire il passaggio dei carri, cosicché la distanza che il figlio della foresta copriva in due ore, poteva facilmente essere percorsa da un distaccamento di truppe, con relativo bagaglio, tra l’alba e il tramonto di una giornata estiva. I leali servitori della corona britannica avevano chiamato i due forti rispettivamente William Henry e Edward in onore del principe, appartenente alla famiglia reale, più caro al cuore di ciascuno. Il veterano scozzese che abbiamo già nominato era a capo del primo, con un piccolo esercito di truppe regolari e qualche rinforzo locale; una milizia davvero troppo modesta per affrontare l’eccezionale potenza con cui Montcalm si stava avvicinando. Nel secondo si trovava invece il generale Webb, a capo delle armate del re nelle province settentrionali, con un corpo di oltre cinquemila uomini. Riunendo i vari altri distaccamenti, avrebbe potuto averne quasi il doppio da schierare contro l’intraprendente francese, avventuratosi tanto lontano dai propri rinforzi con un esercito solo di poco numericamente superiore.

    Tuttavia, sconfortati dalla loro avversa fortuna, sia i comandanti che i loro soldati sembravano più disposti ad aspettare che quel formidabile nemico arrivasse fin lì piuttosto che a interromperne l’avanzata (emulando l’esempio fortunato dei francesi al Fort du Quesne) e assaltare le sue truppe in marcia.

    Quando l’iniziale sorpresa suscitata dalla notizia si fu un poco quietata, per tutto il campo trincerato – che formava una catena attorno al forte e lungo la riva dello Hudson – si sparse la voce che un distaccamento scelto di millecinquecento uomini sarebbe dovuto partire all’alba per il Forte William Henry, all’estremità più a nord di quella regione. Quando i comandanti in capo ai diversi corpi selezionati per l’impresa impartirono l’ordine di prepararsi velocemente alla partenza, la voce divenne una certezza. A quel punto ogni dubbio sulle intenzioni di Webb scomparve, e nelle due ore successive i soldati si diedero da fare, tra passi affrettati e volti carichi di ansia. Il novellino correva da una parte all’altra, preprandosi goffamente e al tempo stesso con zelo febbrile; mentre il veterano si dedicava alle necessarie sistemazioni con una fermezza che non tradiva alcuna fretta; sebbene i lineamenti severi e l’occhio ansioso rivelassero che non nutriva grande entusiasmo professionale per quella guerra ancora nuova eppure già temuta in quelle terre selvagge. Alla fine il sole tramontò in uno sfavillio di colori dietro ai lontani monti a ovest; e mentre il buio andava lentamente avanzando in quel luogo solitario, il rumore dei preparativi andò attenuandosi; si spense l’ultima luce nelle capanne di legno dei comandanti; gli alberi proiettarono ombre sempre più cupe sui terrapieni e sul fiume gorgogliante, e presto il campo cadde in un silenzio non meno profondo di quello che regnava nella vasta foresta circostante.

    Secondo gli ordini impartiti la sera precedente, il sonno dell’esercito fu interrotto dal rullo dei tamburi: era il segnale. L’eco dei colpi sembrava rotolare direttamente dall’umido del mattino, dal bosco, mentre le prime luci illuminavano appena il profilo degli alberi più alti, contro un cielo morbido e terso. Nel giro di un attimo, tutto il campo era in movimento, mentre anche il più umile soldato si alzava dal suo giaciglio per assistere alla partenza dei compagni e condividere l’eccitazione di quei momenti. L’allineamento della squadra selezionata fu presto completo. I soldati reali, quelli regolari e addestrati, si disposero fieri sulla destra della linea, mentre i coloni, con un atteggiamento meno presuntuoso, sulla sinistra, con la fluidità tipica di chi l’ha già fatto molte volte. Partirono per prime le avanscoperte: guardie robuste di scorta ai pesanti veicoli che trasportavano i bagagli; poi, prima che la grigia luce del mattino fosse raggiunta e ammorbidita dal sole, anche il corpo principale dei soldati, disposti in colonna, lasciò l’accampamento, con un tale sfoggio di portamento militare sufficiente a sopprimere le preoccupazioni di più d’un novizio in procinto di misurarsi per la prima volta con le armi, tanta era l’ammirazione per quei fieri compagni, quel fronte orgoglioso, quell’ordinato allineamento. La musica dei pifferi, infine, sempre più debole e lontana, parve aiutare la foresta a inghiottire quella massa vivente che lentamente penetrava fin dentro al suo cuore.

    La colonna era ormai invisibile, e il vento non trasportava più neppure i suoni più alti, anche l’ultimo ritardatario era già scomparso all’inseguimento dei commilitoni; sussistevano tuttavia i segni di un’altra partenza imminente in una capanna di tronchi insolitamente ampia e comoda, davanti alla quale le sentinelle della guardia personale del generale inglese camminavano su e giù. C’era una mezza dozzina di cavalli, di cui almeno due erano attrezzati per il trasporto di persone di sesso femminile, e d’un rango che non si è soliti incontrare in quelle terre selvagge. Un terzo cavallo trasportava l’equipaggiamento e le armi di un ufficiale del comando, gli altri, data la semplicità delle bardature e i sacchi da viaggio di cui erano carichi, erano chiaramente destinati ai sottoposti. A riguardosa distanza dall’inconsueto spettacolo si era radunato qualche gruppo di curiosi, alcuni ammiravano pigramente la forza e la robustezza del valoroso destriero, altri osservavano i preparativi con la stolta meraviglia della curiosità più popolare. C’era un uomo, tuttavia, che nei tratti e nel comportamento rappresentava una decisa eccezione tra i componenti di quel pubblico, non essendo egli né pigro né ignorante all’apparenza.

    Una creatura impacciata, sebbene assolutamente non deforme, giacché aveva ossa e giunture come la maggior parte degli uomini, ma non distribuite nelle solite proporzioni. In piedi appariva più alto di tutti i suoi compagni; mentre da seduto appariva inferiore alle misure normali della razza umana. Come nel caso dei suoi arti, anche il resto del corpo pareva segnato dalla medesima contraddizione. La testa era grossa, le spalle strette, le braccia lunghe ma le mani piccole, per quanto nient’affatto delicate. Gambe e cosce erano magre, quasi ossute, eppure lunghissime; le ginocchia si sarebbero dette da gigante, non fosse stato per quelle basi ancor più larghe su cui, in maniera così stonata, si innalzava una corporatura tanto incongruente. Per non dire dell’abbigliamento, scompagnato e strambo, che non faceva che sottolineare la goffaggine generale. Una giacca azzurra, con falde corte e larghe, e una mantella striminzita, da cui sbucava un collo lungo e esile, e gambe ancor più lunghe e più esili, che certo non passavano inosservate alle malelingue. Di sotto, l’abito era di tela gialla, piuttosto stretto e legato alle ginocchia con un nastro bianco chiuso a fiocco, sporco e usurato. C’erano poi calze di cotone macchiate e scarpe (una delle quali con sopra uno sprone di ferro), a completare la parte inferiore della tenuta di questa strana figura, che non nascondeva nulla di sé, neppure la più piccola curva, ma anzi esibiva con vanto, o forse con ingenuità. Da sotto lo sporco panciotto di seta imbottito, con un merletto d’argento tutt’attorno, ormai scolorito, spuntava un oggetto che, considerata la situazione, si sarebbe potuto facilmente prendere per un bizzarro e pericoloso strumento di guerra. Per quanto piccolo, quello strano attrezzo aveva suscitato la curiosità di quasi tutti gli europei, ma anche molti dei nativi erano stati visti mentre lo maneggiavano non solo senza alcun timore, ma con grande confidenza. A sormontare il tutto un ampio tricorno civile, del genere in uso nel clero da trent’anni a quella parte, che accordava ai suoi tratti bonari e anonimi una certa dignità, necessaria evidentemente per sostenere la gravità della sua carica, o dell’impegno cui era chiamato.

    Mentre la massa si teneva a riguardosa distanza dagli alloggi di Webb, l’uomo che abbiamo appena descritto si accostò a lunghe falcate agli inservienti, formulando critiche e lodi sui vari cavalli, a seconda che incontrassero o meno il suo favore.

    «Questo animale, amici, non sembra affatto di qui, deve venire da fuori, forse proprio dalla nostra piccola isola oltre mare», affermò con un tono di voce dolce e morbido, strano rispetto alle sue proporzioni fisiche, in linea con tutto il resto. «Ne parlo, senza presunzione, poiché sono stato in entrambi i porti: quello alla foce del Tamigi, che si chiama come la capitale della Vecchia Inghilterra, e quello detto invece Haven con l’aggiunta della parola New. Ho visto vascelli e brigantini imbarcare branchi, come l’Arca di Noè, per salpare verso la Giamaica e commerciare in bestiame; ma non avevo mai visto un animale altrettanto simile al cavallo da battaglia descritto nelle Scritture: Scalpita nella valle giulivo e con impeto va incontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede, davanti alla spada. Che il cavallo d’Israele sia arrivato fino ai nostri giorni? Che ne pensi, amico?».

    Non ricevendo alcuna risposta alla sua strana domanda (che in tutta sincerità, per l’ardore con cui era stata formulata, avrebbe meritato almeno un po’ di considerazione) dopo aver declamato le parole del sacro libro, si girò verso il silenzioso personaggio cui si era appena distrattamente rivolto, e incontrò con lo sguardo qualcosa di inaspettato che suscitò la sua ammirazione. Vide infatti la sagoma ferma, dritta e rigida, della staffetta indiana che aveva riferito all’accampamento le pessime notizie della sera precedente. L’atteggiamento era disteso, quasi indifferente e tipicamente imperturbabile, rispetto all’agitazione generale; era un indigeno fiero e al tempo stesso serio e pacato, e attirava l’attenzione di quanti lo studiavano con evidente stupore. Portava il tomahawk e il coltello caratteristici della sua tribù; ma non aveva l’aspetto di un guerriero. Appariva anzi trascurato, come se non avesse ancora smaltito qualche grande fatica. I colori della guerra si mescolavano sul suo volto fiero in una cupa confusione, rendendo i suoi tratti scuri ancor più selvaggi e detestabili di quanto si sarebbe riusciti a ottenere con l’arte. Solo gli occhi, che luccicavano come stelle infuocate tra nuvole basse, risaltavano in tutta la loro selvaggia ferocia. Per un attimo quel suo sguardo cautamente indagatore incontrò quello dell’altro, ma in un istante, da un lato per scaltrezza da un altro per dispregio, cambiò subito direzione fermandosi a contemplare l’orizzonte.

    Chissà quali bizzarre parole avrebbero ispirato il bianco nella conversazione con quell’uomo tanto singolare, se di nuovo la sua attenzione sempre vigile non fosse stata catturata da altro. Una improvvisa confusione tra i domestici e il suono di voci gentili palesarono l’arrivo di chi ancora mancava all’appello perché il gruppo prendesse finalmente le mosse. L’ingenuo ammiratore del cavallo si fece subito da parte e si avvicinò ad una piccola giumenta tutta pelle e ossa e con una lunga coda che stava brucando lì accanto; si appoggiò alla coperta che copriva una specie di sella e restò a guardare la partenza da lì, mentre di fianco a lui, proprio dall’altro lato, un puledrino stava facendo la sua colazione.

    Un giovane, abbigliato da ufficiale, stava conducendo ai cavalli due donne che, a giudicare dal modo in cui erano vestite, si preparavano ad attraversare la foresta. Di una di loro in particolare – apparentemente la più giovane, sebbene fossero giovani entrambe – si intuiva la carnagione luminosa, i capelli dorati e brillanti occhi azzurri, mentre l’aria del mattino sollevava il velo verde che le ricadeva sul viso dal feltro. Il rossore che ancora indugiava oltre i pini a ovest non era più luminoso né delicato di quello che le colorava le sue guance; e quell’inizio di giornata non era in sé più gioioso del sorriso allegro che la ragazza rivolse al giovane che la stava aiutando a montare in sella. L’altra, anche lei guidata dalle premure dell’ufficiale, celava le proprie grazie alla vista dei soldati con una attenzione tanto appropriata da apparire più adulta. Si vedeva infatti che la sua figura, sebbene proporzionata tanto quanto l’altra (proporzioni non troppo nascoste dall’abito da viaggio che indossava), era leggermente più piena, più matura, di quella della sua compagna.

    Sistemate le due donne in sella, l’ufficiale montò con agilità sul cavallo da battaglia, e tutti e tre s’inchinarono in direzione di Webb, che aveva cortesemente atteso la partenza sulla porta del suo alloggio; poi, girati i cavalli, partirono con la scorta al seguito verso l’ingresso settentrionale dell’accampamento. Non dissero una parola, in quel breve tratto, ma la più giovane delle donne si lasciò scappare qualcosa di impercettibile, quando la staffetta indiana le si avvicinò inaspettatamente e andò a mettersi di fronte a lei. Il movimento imprevisto e conturbante dell’indiano non strappò all’altra donna alcuna esclamazione, ma dietro il velo si intravide uno sguardo profondo, di grande benevolenza, rispetto e paura, mentre seguiva con gli occhi scuri i movimenti svelti del selvaggio. Le sue trecce erano nere e lucenti come le piume di un corvo. Non aveva una carnagione scura, ma appariva comunque scaldata da un sangue ricco, quasi pronto a sprizzare. Non c’era ombra di rozzezza in quella fisionomia così delicatamente regolare, distinta e bella. Sorrise, come a volersi benevolmente compiangere per quella distrazione momentanea, scoprendo denti così bianchi da reggere il confronto anche con l’avorio più puro. Poi si risistemò il velo, chinò il capo e si allontanò cavalcando in silenzio, quasi che i suoi pensieri fossero lontani dalla scena circostante.

    1 Le diverse tribù di indiani possedevano ciascuna una propria lingua o un proprio dialetto, ed era frequente che chiamassero magari gli stessi luoghi con nomi diversi, nomi che in genere ne descrivevano le caratteristiche. Questo bel lago, infatti, veniva chiamato dalla tribù che ne abitava le rive, «la coda del lago», letteralmente. Il Lago George – com’è volgarmente e, oggi, legalmente chiamato – a guardarlo sulla cartina forma una sorta di coda del Lago Champlain.

    2 George Washington che, dopo aver avvisato invano il generale europeo del pericolo cui stava andando incontro, salvò grazie alla sua decisione e al suo coraggio quel che restava dell’esercito britannico. Washington conquistò una grande fama in quella battaglia, e fu proprio grazie a questo che fu scelto in seguito per guidare l’esercito americano. Degno di nota è il fatto che, mentre l’America risuonava di tale sua meritata fama, il suo nome non appare mai nei resoconti europei di quella guerra o, quanto meno, dalle ricerche condotte dall’autore non risulta. Ecco che con questo sistema la madre patria si appropria persino della fama dei suoi sudditi.

    Capitolo secondo

    Sol la, sol la, u a o, sol la!

    William Shakespeare, Il Mercante di Venezia

    Mentre una delle dolci creature che abbiamo appena presentato al lettore si perdeva in tal modo nei suoi pensieri, l’altra, dopo essersi ripresa da quello spavento che le aveva strappato un’esclamazione, ridendo della propria debolezza chiese al giovane che le cavalcava accanto:

    «Capita spesso, nella foresta, di imbattersi in simili fantasmi, Heyward? O avete ordinato uno spettacolo apposta per noi? In tal caso, dovremmo tacere per amor di gratitudine, ma se invece è corretta la prima ipotesi, Cora e io dovremo attingere a piene mani da quella riserva di coraggio ereditario di cui ci gloriamo tanto, ben prima di incontrare il famigerato Montcalm».

    «L’indiano che avete visto è una staffetta dell’esercito; secondo i canoni del suo popolo, è considerato un eroe», le rispose. «Si è offerto di guidarci fino al lago seguendo un sentiero poco conosciuto, più veloce di quello che seguirà invece la colonna ufficiale; e, di conseguenza, più piacevole».

    «Non mi piace», esclamò la ragazza con un brivido di paura in parte ostentato e in parte sincero. «Ma di sicuro lo conoscete bene, Duncan, per aver messo la nostra sicurezza nelle sue mani».

    «Diciamo, Alice, che non gli affiderei voi. Lo conosco, è ovvio, altrimenti non avrebbe la mia fiducia, soprattutto in questo caso. Dicono che sia canadese, ma ha militato con i nostri amici Mohawk, che, come sapete, appartengono a una delle sei nazioni alleate. È entrato in contatto con noi a seguito di un avvenimento in cui è stato coinvolto vostro padre, durante il quale il selvaggio pare sia stato trattato con particolare durezza; non ricordo bene i dettagli della storia, poiché non era molto interessante. Ad ogni modo, ora è dalla nostra parte».

    «Se è stato nemico di mio padre, mi piace ancora meno!», esclamò la ragazza con crescente preoccupazione. «Parlategli, maggiore Heyward, cosicché possa udirne la voce. So che può sembrare sciocco, ma sapete quanta fiducia io riponga nei diversi toni della voce umana!».

    «Sarebbe inutile: probabilmente si limiterebbe a rispondere con un monosillabo. Comprende quasi sicuramente l’inglese, ma finge di non conoscerlo, come è costume del suo popolo, e di certo non accetterebbe di parlarlo in un momento come questo, in cui la guerra gli richiede di ostentare al massimo il suo orgoglio. Ecco, vedo che si sta fermando, evidentemente la nostra scorciatoia dev’essere ormai vicina».

    Il maggiore Heyward aveva ragione. Quando raggiunsero il punto in cui si era fermato l’indiano, indicando la siepe che costeggiava il sentiero, si trovarono davanti a una stradina piuttosto stretta e in ombra, in grado di far passare, neppure troppo comodamente, una persona alla volta.

    «Ecco che inizia la strada», disse il giovane sottovoce. «Non mostratevi tanto timorose, o rischiate di provocare voi stesse quello stesso pericolo che temete».

    «Cora, cosa ne pensi tu?», domandò la bella recalcitrante. «Viaggiare con i soldati sarebbe certamente spiacevole, ma non ci sentiremo più sicure di uscirne sane e salve?»

    «Non avete grande familiarità con il modo in cui vanno le cose qui, Alice, e confondete la reale fonte di pericolo», disse Heyward. «Se i nostri nemici fossero già arrivati (cosa improbabile, dato che le avanscoperte stanno facendo un buon lavoro), di sicuro sarebbero comunque nei pressi della colonna ufficiale, dove troverebbero una maggior abbondanza di scalpi. La colonna si sta muovendo lungo una strada ben nota, mentre quella che andiamo a seguire noi, stabilita appena un’ora fa, è ancora segreta».

    «Dovremmo dubitare di quell’uomo solo perché i suoi modi sono diversi dai nostri e la sua pelle è scura?», chiese Cora freddamente.

    Alice non esitò oltre, e con un colpo di frusta al suo Narragansett³ fu la prima ad allontanare fuscelli e cespugli per seguire la staffetta lungo quel sentiero scuro e disagevole. L’ufficiale guardò con grande ammirazione la ragazza che aveva parlato per ultima, e lasciò che la sua più bionda compagna – sebbene non più bella – procedesse da sola, sforzandosi senza dar troppo nell’occhio di agevolare il cammino alla giovane che aveva risposto al nome di Cora. I domestici avevano avuto istruzioni precise: di non andare con loro nel fitto della foresta, ma di seguire la colonna ufficiale. Una decisione, disse Heyward, ispirata dall’astuzia della loro guida, che voleva in tal modo evitare di lasciare troppe tracce lungo il passaggio, a uso di eventuali selvaggi canadesi che si fossero appostati nei dintorni. Per diversi minuti quel sentiero accidentato non consentì grandi conversazioni; poi, finalmente, il piccolo corteo riemerse da quella striscia tra i cespugli ed entrò nel fitto della foresta. Lì si procedeva più comodamente, e la guida, dopo aver constatato che le ragazze avanzavano senza problemi, prese un’andatura tra passo e trotto per tenere gli animali calmi e al tempo stesso avanzare più veloci. L’ufficiale si era appena rivolto a Cora, la ragazza dagli occhi neri, quando un lontano risuonar di zoccoli lungo il sentiero alle loro spalle lo convinse a fermare il cavallo. Anche le sue compagne tirarono le redini, e l’intero gruppo si arrestò, nella speranza di capire cosa stesse accadendo.

    Dopo un istante videro un puledro infilarsi, come un cerbiatto, tra i rami dei pini; e, nel giro di poco, spuntò lo strano personaggio descritto nel capitolo precedente, lanciato alla velocità che riusciva a cavare dalla sua magra cavalla senza arrivare a farla impuntare. I viaggiatori non l’avevano notato fino a quel momento, ma se era vero che egli aveva la capacità di attirare l’attenzione anche dell’occhio più distratto quando girava a piedi ostentando la sua statura, a maggior ragione ci riusciva quando cavalcava. Pur incalzando continuamente la cavalla con lo sprone, non otteneva che un incerto galoppo e solo con le zampe posteriori, che quelle anteriori seguivano per pochi metri per poi tornare a uno strano trotto allungato. Forse la velocità con cui cambiava andatura creava una sorta di illusione ottica, che confondeva l’osservatore circa le capacità effettive dell’animale. Persino Heyward, dall’alto della sua esperienza, non fu in grado di determinare con che velocità o passo l’inseguitore stesse facendosi faticosamente strada dietro di loro.

    Il fervore e i movimenti del cavaliere non erano meno appariscenti di quelli della sua cavalla. A ogni nuovo cambiamento di andatura di quest’ultima, si sollevava sulle staffe in tutta la sua altezza, e, data la lunghezza eccezionale delle gambe, con tutto quell’alzarsi e abbassarsi, andava creando uguale confusione circa le sue effettive dimensioni. Se consideriamo anche il fatto che andava spronandola con un solo calcagno, non sarà difficile concludere il ritratto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1