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La Principessa diventata Regina
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E-book317 pagine4 ore

La Principessa diventata Regina

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Info su questo ebook

Racconto romanzato di tre donne, di tre generazioni ed epoche differenti, di tre storie collegate con un sottile filo rosso di un segreto, tramandato e infine svelato.
Maria Vittoria:
«Mi fecero anche uno stupendo abito da regina, che indossai all’arrivo, in modo da prendere ufficialmente l’onore della corona. Scrissi al parroco di Reano, il caro don Ferrero, che quel mio abito sarà donato alla parrocchia, alla mia chiesa, per farne un Santo Paramento, almeno la gloria del vestito non sarà vana.»
Nonna Odilia:
«Sì, aveva anche i capelli rossicci, ma erano un tantino sporchi e sembravano castani, coperti con un berretto di lana… grigio, o forse di altro colore quando era nuovo; occhi profondi, celesti, che mi hanno colpita dal primo sguardo, uno sguardo che trasmetteva sì tristezza, per cose orribili viste, ma che la giovinezza voleva riscattare. Anche lui era stato sicuramente colpito dalla mia giovane età e dal vestito portato. Quel ragazzino appena diciannovenne, con una sigaretta in bocca e il mitra in spalla, due bombe a mano e una pistola appese alla cintola, con le scarpe rotte, ma con tanta voglia di vivere, era tuo nonno, Lucio Amprino.»
Vittoria Calligari:
«Io ora sono qua, sul bastione principale, con il vento che mi soffia nei capelli in direzione del mare, il mare azzurro che abbraccia la terra ed il cielo celeste, con una linea d’orizzonte che separa, ma sembra unire i due elementi. I gabbiani che restano immobili controvento schernendo noi umani che non siamo capaci di volare come loro, senza fatica, cambiando solo poco il profilo delle loro ali, per meglio spostarsi.
La nave che carica di container si allontana dal porto per puntare in una lontana e sconosciuta destinazione.»
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2013
ISBN9788868556433
La Principessa diventata Regina

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    La Principessa diventata Regina - Claudio Cantore

    LA PRINCIPESSA DIVENTATA REGINA

    Romanzo

    di Claudio Cantore

    claudio.cantore@gmail.com

    Racconto romanzato di tre donne,

    di tre generazioni ed epoche differenti,

    di tre storie collegate con un sottile

    filo rosso di un segreto,

    tramandato e infine svelato.

    Un legame che collega Torino, Reano,

    Madrid, Sanremo e Cadiz,

    passando per la storia vissuta e che si può

    vedere e toccare con mano.

    Versione E-BOOK

    PROLOGO

    Ciao, mi presento: sono Vittoria Calligari, nata a Torino il 9 agosto del 1980 e vivo in questa città.

    Sono alta un metro e settanta (senza tacchi), peso sessantacinque chili, capelli biondi, occhi celesti, occhiali da bacchettona con montatura rettangolare nera!

    Un particolare che mi contraddistingue sono le lentiggini sulle guance, a forma di piccole capocchie di spillo, quasi invisibili. Amo la vita, la mia città e… la motocicletta, tanto che, se non fosse per la coda bionda che fuoriesce dal casco integrale e alcune curve femminili celate nella tuta di pelle, tutti mi scambierebbero per il solito spericolato centauro. Sono nata sotto la costellazione del Leone; sono pigra e scontrosa, ma sempre disponibile verso gli altri.

    Faccio parte di quell’esercito di venticinquemila ex volontari di Torino 2006, sento ancora la fierezza di aver concorso a far ben figurare la mia città nell’evento olimpico che ha definitivamente cambiato Torino e i torinesi. Ho partecipato con entusiasmo e questo ha accresciuto certamente l’orgoglio d’essere piemontese; ero nel prato olimpico durante la cerimonia d’apertura, un minuto puntino colorato.

    Ricordo ancora la sensazione di calore del fuoco olimpico, quando c’è passato vicino, per accendere il braciere ritorto, simbolo della Torino Olimpica.

    Per gli amici, che sono tanti, sono la Vichi e così sarò anche per voi che vi disponete a leggere questa mia storia che si sviluppa su cinque generazioni e parte da una regina buona, generosa ma sfortunata.

    Il fato l’ha legata a me.

    Ho da qualche mese presentato la tesi di laurea, dopo aver frequentato il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino. La notizia del giorno è che mi è stato riconosciuto un post-dottorato con dei Visiting Professors dell’Università di Madrid, con la possibilità di una trasferta per un anno all’Università di Cadice: Assistente alla cattedra di Storia.

    L’argomentazione della mia laurea si è basata sulla biografia di Maria Vittoria Dal Pozzo, principessa della Cisterna, duchessa Savoia-Aosta e regina di Spagna.

    Il voto? Centodieci con lode e diritto di pubblicazione, ma so che il merito non è tutto mio.

    La scelta della biografia di Maria Vittoria non è stata casuale: sono stata predestinata a svelare un segreto che ha viaggiato nel tempo toccando tre secoli.

    Sono fiera di aver svolto a dovere la mia missione e di esserci riuscita!

    Dedico la laurea alla mia famiglia, ma in particolar modo a nonna Emma e ovviamente a Maria Vittoria, la Principessa diventata Regina.

    Andiamo per gradi. Inizierò a raccontarvi la storia come l’ho vissuta io, proprio come una favola.

    VICHI: Torino

    Siamo ai primi giorni dell’estate del 1989 e io stavo per compiere nove anni. Vivevo in una casa di quattro piani in Via Della Rocca, costruita all’inizio del secolo precedente. Aveva un ingresso carraio chiuso da un portone di legno laccato con i meccanismi in ottone lucido. Era il caratteristico antro a cui si entrava alla soglia delle scale di fronte una grossa vetrata di una stanza della casa della portinaia. Un cancello di ferro battuto permetteva all’androne di schiudersi in un cortile rettangolare dove s’affacciavano i ballatoi degli appartamenti, con ringhiere a vista. Nel centro del chiostro si trovava un piccolo giardino con una palma tropicale svettante a cercare il celeste del cielo che si era maladattata ad un clima non suo e piccoli arbusti con siepi che contenevano un piccolo eden. Un percorso acciottolato contornava quel frammento di paradiso che si rivelava ogni volta che vi entravo, lasciando alle spalle una città sempre più caotica e invivibile.

    Torino era la città dell’automobile, ma era anche una capitale tecnologica, magica e religiosa.

    Una metropoli che vanta storia e tradizioni culturali, molto profonde.

    Il boom economico l’aveva trasformata in una città industriale, cercando di cancellare il passato nobile e reale. Era stato dal capoluogo subalpino che grazie ai Savoia, si era avviata l’Unità d’Italia, ma di questo a Torino erano rimasti soltanto i vaghi ricordi della celebrazione del centenario.

    Nel 1961 a Torino si svolse una grand’Esposizione per quell’evento che vide addirittura la nascita di un nuovo quartiere chiamato semplicemente Italia ’61, costruito sulla discarica delle macerie causate dai massicci bombardamenti subiti dalla città durante l’ultima guerra mondiale.

    Gli anni Sessanta furono quelli del boom economico.

    Torino raggiunse un milione d’abitanti e l’Esposizione doveva servire anche per dotare la città d’alcune strutture d’avanguardia. Vennero perciò costruite una funivia, che scavalcando il Po portava direttamente sulla collina torinese, e una monorotaia avveniristica che trasportava i visitatori all’interno del parco.

    Terminata la manifestazione, fu proposto di utilizzare la monorotaia allungando semplicemente il percorso per collegare Moncalieri a Torino, pochi chilometri. Invece, sia la monorotaia che la funivia furono smantellate. Per il trasporto interno all’Esposizione furono acquistati dodici autobus a due piani, costruiti appositamente dalla torinese Viberti: solo Londra li aveva, ma finito il periodo della manifestazione, furono svenduti.

    Sono invece rimasti inutilizzati tutti gli edifici costruiti per l’occasione: il Palazzo del Lavoro, il Palazzo a Vela, il Cinema Panoramico in una sorta d’eredità ai posteri.

    Torino era, e lo è ancora oggi, una città ricca di verde; la collina e i grandi parchi permettono agli abitanti di salvarsi dal soffocante smog cittadino. La casa dove abitavo allora era vicinissima al parco del Valentino, il più bel parco di Torino, carico di storia e di curiosità, per questo ci andavamo spesso a passeggiare e giocare.

    In questo splendido parco vi è anche un monumento raffigurante Amedeo Ferdinando, figlio di Vittorio Emanuele II, re di Spagna e marito della mia Maria Vittoria. Vi consiglio di andarlo a vedere: è raffigurato su un destriero rampante, durante la battaglia di Custoza (24 giugno 1866), nella quale fu ferito al petto in modo grave rischiando la vita stessa, salvatagli casualmente da una fibbia in argento che attutì il colpo della pallottola austriaca.

    Sulla riva del Po, immerse nel parco, vi sono delle costruzioni, sopravvissute dell'Esposizione Generale Italiana svoltasi a Torino dall'aprile al novembre del 1884. Si tratta di una riproduzione di un tipico borgo tardo medievale, in cui furono fedelmente ricostruite vie, case, chiese, piazze, negozi, laboratori artigiani, fontane e decorazioni dell'epoca. Circondato da mura merlate e fortificazioni, il maniero ingabbia nel suo perimetro una Rocca di quattro piani, che ospita le prigioni, le cucine e la sala da pranzo, mentre al primo piano sono sistemate la camera del guardiano dell'accesso al ponte levatoio, al piano superiore l’appartamento reale, sopra ancora i locali della servitù.

    La vera parte antica di Torino è però la parte del periodo di dominazione romana, si estende nel centro della città e la sua pianta quadrata indica l’originale costruzione a forma di campo militare, con le quattro porte d’ingresso e le mura, delle quali si possono ancora vedere alcune testimonianze che tracciavano i confini dell’abitato. La leggenda data la nascita di Torino molto prima di Cristo ad opera degli Egizi: un figlio della dea Iside la fondò in onore alla madre. Dalla leggenda alla storia: le prime tribù chiamate taurine si stabilirono in Torino intorno al III secolo a.C.

    Discesero dalle montagne alla ricerca di un luogo pianeggiante e fertile, questa popolazione si stabilì in quel luogo perché era il centro delle vie principali di comunicazione. Anche Annibale con i suoi elefanti lasciò il segno del passaggio, come commentò Tito Livio nel suo resoconto dell’avanzata del cartaginese nel 219 a.C.

    Giulio Cesare la fece diventare romana, imponendo alla città il simbolo del toro ricavato dal nome della popolazione locale, ma in realtà il nome Taurus, nella lingua celtica, deriva da popolo di montagna (montaurus).

    Il toro rampante è rimasto l’emblema caratterizzante di Torino.

    La vendetta del discendente montaurino sta nell’abitudine di pestare in un punto, particolare e proibito, il povero toro, lì per un errore millenario, sotto i portici della bellissima piazza san Carlo, il vero salotto torinese. Per la cronaca, l’animale in questione non è vero, ma una sua raffigurazione bronzea, posta sul pavimento del portico di fronte ad uno dei tanti caffè storico-artistici di Torino e proprio nella zona di calpestio tradizionale la figura presenta un avvallamento causato dall’abrasione.

    Dopo i Romani, i Barbari, poi Vescovi appoggiati dall’Imperatore Barbarossa e infine i Savoia, che assegnarono a Torino il titolo di Capitale del Regno nel XVI secolo, lasciando tracce della loro presenza in ogni angolo.

    La basilica di Superga è il mausoleo più amato dai Savoia, tanto da farla diventare la custode delle loro tombe fino a Vittorio Emanuele II che, diventando il primo re d’Italia, spostò la capitale prima a Firenze e poi a Roma. Il tempio si erge sull’altura di là dal Po, che scorre pigramente tra città e collina: da lassù si ammira tutto Torino. Lì, nelle tombe dedicate alle Regine Savoia riposa la Maria Vittoria, insieme al suo sposo Amedeo. La basilica fu eretta per volontà del duca Vittorio Amedeo II, primo Savoia, re del regno di Sicilia, poi subito diventato regno di Sardegna, quale ringraziamento alla Vergine per la vittoriosa battaglia contro i francesi che stringevano d’assedio Torino nel 1706, battaglia importantissima che ha deciso le sorti del Piemonte, dell’Italia e dell’Europa.

    Vi ho detto Torino città magica, perché qui hanno vissuto personaggi famosi e inquietanti, da Paracelso a Nostradamus, a Cagliostro, al conte di Saint-Germain e, tra gli ultimi, Gustavo Rol che ha attirato a Torino importanti personaggi di fama mondiale.

    Torino è considerata magica perché vertice dei due triangoli della magia nera e della magia bianca, in una sorta d’eterno dualismo che si percepisce ovunque in Torino. Il triangolo della magia nera ha nei suoi apici oltre che la mia città anche San Francisco e Londra, ha il suo riferimento in Piazza Statuto, presso una stele con astrolabio che determina il punto del passaggio del 45° parallelo. Mentre il triangolo della magia bianca (Torino-Praga-Lione) ha invece il proprio culmine tra piazza Castello e piazzetta Reale, tra le due statue dei dioscuri, figli di Leda: Castore e Polluce, regalate a Torino da Napoleone. Il punto benefico è ben individuato, ma il problema è potersi fermare. Il traffico, infatti, è così caotico, che è impossibile e rischioso sostare per riceverne gli influssi positivi. Chissà che un giorno si possa rendere pedonabile questa piazza, così che i torinesi potranno fermarsi a piacere sul punto magico, sempre che il sito non sia già occupato da turisti di tutto il mondo attratti dalla fama prodigiosa di quel luogo.

    A conferma dell’ipotesi di Torino magica, oltre il Po, si trova una chiesa neoclassica dedicata alla Gran Madre di Dio, per i torinesi semplicemente La Gran Madre. Il mito decreta che la chiesa è stata costruita sull’ara dedicata alla dea egizia Iside dal figlio e che nei sotterranei di questo duomo sia custodito il Sacro Graal.

    È soprannominata Chiesa dei Tre Re: fu iniziata, infatti, da Vittorio Emanuele I, Carlo Felice morì prima dell’inaugurazione e solo Carlo Alberto la potè inaugurare a maggio 1831. A molti ricorda il Pantheon, e d’altronde proprio a quella costruzione romana s’ispirò l’architetto. Sui lati della scalinata che conduce all’ingresso ci sono due statue raffiguranti la Fede e la Religione.

    Nella Torino magica va annoverato il Museo Egizio che, come quello del Cairo, è dedicato esclusivamente all’arte e alla cultura dell’antico Egitto. Molti studiosi di fama internazionale l’hanno visitato, a partire dal decifratore dei geroglifici egizi Jean-François Champollion, il quale, nel 1824, affermò che:

    «…la strada per Menfi e Tebe passa da Torino».

    L’eredità dei Savoia a Torino, passa anche dalla splendida Biblioteca Reale che si trova nell’ala laterale destra del palazzo Reale, con libri, manoscritti preziosi e un mobilio d’eccezione. In questa biblioteca sono custoditi alcuni schizzi di Leonardo, tra cui l’unico e famosissimo autoritratto, che ci tramanda la figura dell’artista nella maturità degli anni nel periodo francese. Questo autoritratto, realizzato con disegno a sanguigna, viene raramente esposto ma la sua figura è anche legata in modo alchemico e misterioso alla Sindone, conservata a poche centinaia di metri… una ipotesi infatti segnala che il Santo Lino sia uno dei più grandi e misteriosi scherzi di Leonardo.

    Il vero simbolo di Torino, tuttavia, è la Mole Antonelliana. La costruzione del famoso manufatto, destinato inizialmente ad ospitare una sinagoga, iniziò nel 1863 su progetto dell'architetto Alessandro Antonelli, ma l’edificio subì in corso d’opera numerose modifiche e ampliamenti. L’Antonelli decise l'inserimento della grande volta, sormontata dall'elegantissima guglia, che portò l’altezza del possente monumento dai quarantasette metri originali agli attuali oltre centosessantasette.

    Nel 1877 la comunità ebraica di Torino, a causa dell’incremento dei costi per la costruzione, cedette l'edificio non finito al comune di Torino che lo completò nel 1900. Nel ’53 un violento uragano fece precipitare al suolo la guglia. Venne perciò ricostruita con strutture metalliche rivestite di muratura. I lavori di ricostruzione terminarono nel ’61 e fu inserito all'interno della grande aula un ascensore panoramico con dispositivo di sollevamento a funi.

    Dalla magia alla religione: si avverte la gran fede di Torino nella basilica della Consolata, iniziata da Guarino Guarini che non riuscì a terminarla, toccò a Filippo Juvarra disegnare la grande cupola che venne poi affrescata da Bortoloni. L’interno del tempio, decorato da marmi preziosi, è ricoperto da moltissimi ex voto che testimoniano l’affetto e la devozione dei torinesi verso questo Santo Luogo.

    Di fronte alla basilica sorge una colonna votiva, alta venticinque metri, in cima fu collocata nel 1835 la statua della Vergine, per ringraziarla d’aver tenuto lontano dalla città il flagello del colera che in quell'anno colpì l'Europa provocando stragi.

    Da questa chiesa sono passati i santi più famosi di Torino, il Cottolengo, Cafasso, Allamano, don Bosco, il Murialdo, tutti fondatori d’opere e missioni che si sono sviluppate nel mondo, istituendo o ampliando le opere missionarie di cui Torino è indubbiamente la capitale.

    Nel pieno centro di Torino, in Piazza Castello vi è Palazzo Madama, che è stato per l’appunto residenza delle due Madame Reali, che furono reggenti del regno in nome dei propri figli. È un castello che ingloba una delle quattro porte romane, porta Fibellona. Alle spalle della costruzione, oltre il fossato verso Via Po, si erge, di fronte al teatro Regio, un monumento all’intrepido comandate Emanuele Filiberto, secondo Duca d’Aosta, del quale ve ne parlerò nel prosieguo. Lui è il primogenito di Maria Vittoria. Il monumento, è stato voluto dall’Esercito Italiano per onorare il proprio glorioso comandate e commemorare i caduti della prima guerra mondiale; è fatto di bronzo, ricavato dalla fusione di quattro cannoni nemici, un modo intelligente di riciclare le armi da guerra.

    I torinesi, miei concittadini, sono definiti, con un termine dialettale, bogianen (si legge bugianen) che significa letteralmente non ti muovere. Questo termine pare sia stato forgiato durante alcune storiche battaglie che hanno visto protagonisti i Savoia al comando di soldati piemontesi. Alcuni fanno risalire il termine alla battaglia di San Quintino, roccaforte nel nord della Francia, dove Emanuele Filiberto, soprannominato dai suoi Testa d’ Fer (Testa di Ferro, per la sua caparbietà tipicamente piemontese o per la sua armatura), era il comandante dell'esercito spagnolo di Carlo V d’Asburgo, passò in rassegna il suo battaglione incitandolo con la frase diventata famosa: Bogé nen! (non muovetevi). Conquistò così un’importante battaglia da renderlo un mitico personaggio, fondatore del ducato e oggi eternato in una bellissima statua equestre ’l caval ’d bronz, (il cavallo di bronzo) situata al centro di piazza san Carlo, nel cuore di Torino.

    La storia si ripete due secoli dopo e, sempre contro i francesi cugini veramente scomodi, durante l’assedio del 1706 quando dopo lunghi e duri mesi gli assedianti decisero l’attacco finale. La città era ormai agonizzante e sperava solo più nell’arrivo delle truppe fresche austriache, comandate da un Savoia: il principe Eugenio. Il conte Daun, comandante della guarnigione difensiva torinese, ripeté alle truppe la storica frase affinché difendessero, allo stremo, la fortezza; gli uomini non si mossero riuscendo nel loro intento glorioso.

    Ma l’ufficialità del conio di questa frase è attribuita alla battaglia dell’Assietta, il colle che divide la Val di Susa con la Val Chisone, verso la Francia; pure in questo caso le truppe nemiche erano francesi.

    «Noi autri i bogioma nen» (Noi non ci muoviamo), disse il conte di san Sebastiano, quando gli si ordinò di retrocedere, difendendo eroicamente il territorio e bloccando, di fatto, la strada alle truppe francesi.

    Era il 19 luglio 1747.

    I Savoia furono dapprima conti, poi duchi e quindi re di un regno, diventato stato. Posto a cavallo delle Alpi, in un territorio montano, che lasciava presagire uomini forti e grossolani, abituati a terreni scoscesi di montagna, ove il piccolo pascolo o la coltivazione sono rubati al monte con immensi sforzi.

    Originari di Chambery, sottrassero la città di Torino ai Vescovi, per avere territori ricchi e pianeggianti.

    Il trasferimento della capitale a Torino lo fece proprio il Testa d’Fer il duca Emanuele Filiberto.

    I Savoia erano i proprietari della Sacra Sindone, acquistata in Francia all’inizio del quattordicesimo secolo, la trasferirono a Torino erigendo una apposita cappella costruita di fianco al Duomo, capolavoro del Guarini, alta oltre 60 metri.

    La fine della reggenza dei Savoia avviene con l’ultima guerra, dove il re Vittorio Emanuele III, soprannominato re cit, il re piccolo, non solo per la sua statura, ma anche per la poca lungimiranza politica, si compromise fortemente con il regime fascista, appoggiandone le vergognose leggi razziali e accompagnando l’Italia in una guerra disastrosa. Da questa guerra l’Italia si riscattò con la resistenza partigiana, che tanti confondono con una guerra civile mentre fu una vera guerra di liberazione, concorrendo in modo determinante alla affrancazione dell’Italia e alla fondazione della Repubblica, che ha come base una delle Costituzioni più moderne al mondo.

    C’è una frase, scritta da Pietro Calamandrei nel gennaio 1955, che aiuta a meglio capire l’importanza della Resistenza:

    «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».

    Ma Torino è anche una città dolce, quella che preferisco in fondo. Tra il cioccolato e Torino si è intrecciata una lunga storia d’amore che dura da quasi cinque secoli. Una storia con personaggi, racconti e curiosità, che ha varcato i secoli per lasciare in eredità una nobile tradizione. Una storia con pagine più o meno note, ma tutte dolcissime.

    Galeotto fu quel matrimonio…

    La storia del cioccolato a Torino sarebbe diversa senza il matrimonio del 1587 tra Caterina, figlia di Filippo II di Spagna e Carlo Emanuele I, figlio di Emanuele Filiberto di Savoia (‘l’Testa d’ Fer). Per queste nozze, i cuochi di Casa Reale si diedero un gran da fare per preparare e servire una bevanda scura calda e non zuccherata, la cioccolata: Il cibo degli Dei.

    Ci volle ancora un secolo per diventare dolce come quella che conosciamo oggi, infatti fu Maria Giovanna Antonia Nemours, la Madama Reale, che dette la prima patente di cioccolatiere a monsù Giò Antonio Ari, autorizzandolo a vendere oltre che a produrre e lavorare la cioccolata. Ma solo nel XVIII secolo i cioccolatieri torinesi avevano cominciato a servirsi di macchine rudimentali che permettevano la solidificazione del cioccolato, consumato fino allora unicamente come bevanda. Nasce così l’industria cioccolatiera. Molti di questi maestri dolciari erano valdesi rifugiati in Piemonte, tra questi Francois Luis Cailler, che, durante la diaspora valdese a Sion, avrebbe trasferito in Svizzera i dolci segreti appresi a Torino.

    Il Gianduja e il giandujotto sono le specialità tipiche di Torino, ma la paternità si può dare, seppur indirettamente, a Napoleone. A causa del blocco continentale imposto dai francesi nel 1806, per fronteggiare la forza mercantile inglese, fu difficile rifornirsi di merci provenienti dall'altra parte dell'Atlantico o dall’Africa. Il blocco perdurò per un lungo periodo, perciò i semi di cacao divennero una merce rara e costosa, rendendo quasi impossibile il lavoro del cioccolatiere.

    Già da qualche tempo si fabbricava cioccolato alla nocciola, ma si utilizzavano nocciole a pezzetti non tostate. L’idea di amalgamare al cioccolato la farina di nocciole torrefate venne a Michele Prochet. Il risultato di quest’amalgama è il giandujotto.

    All’inizio, questo speciale cioccolatino dall’irregolare forma a barchetta non era chiamato così, ma givu, che in piemontese significa cicca da sigaretta. Occorre aspettare il 1865 perché questa specialità prenda il suo vero nome.

    Sarà proprio Gianduja in persona, la tipica maschera torinese, in occasione del Carnevale di quell’anno, a battezzare il nuovo cioccolatino. Detiene anche un primato: è stato il primo al mondo ad essere incartato!

    Dai semi dell'albero del cacao delle civiltà Maya e Azteca, fino alla patente reale per vendere la cioccolata, e poi via via fino ai celebri giandujotti ottocenteschi, che restano i cioccolatini più tipici e più buoni di Torino.

    Infine c’è la Nutella, che ha permesso di far conoscere al mondo il caratteristico gusto del gianduja.

    …che mondo sarebbe senza Nutella!

    Slogan pubblicitario che tutti conoscono.

    La Nutella fa parte della nostra vita, con il suo dolce sapore, il suo gusto di nocciola e la sua cremosità senza eguali che ne fanno il prodotto più riconosciuto, amato ed acquistato.

    La Nutella vera e propria, come la conosciamo tutti noi oggi, nasce nel 1964, ma le sue origini risalgono al periodo postbellico e più precisamente nel 1949, nel retrobottega della pasticceria Ferrero, ad Alba in Piemonte.

    In quel periodo, la popolazione si trovava in gravi ristrettezze economiche e di certo non poteva permettersi l’acquisto di dolci. Mastro Ferrero ebbe l’idea di amalgamare l’impasto già noto del cioccolato gianduja con il burro di cocco, molto più economico, e ciò che ne venne fuori, fu una sorta di marmellata al cioccolato. Una volta raffreddato, in uno stampo rettangolare, l’impasto si trasforma in panetto solido, il Giandujot, da tagliare a fette.

    … ma nella torrida estate del 1949 i panetti di Giandujot già prodotti si sciolsero e così che il prodotto fu immediatamente travasato e venduto in bicchieri e barattoli di vetro con il nome di Supercrema.

    Fu quindi un errore a rendere così mondialmente conosciuto questo prodotto, anche se ad inventare la Nutella, così come oggi l’apprezziamo, fu il figlio di Pietro Ferrero, Michele, che decise di perfezionare la formula della Supercrema rendendola ancora più morbida e attribuendole un nuovo nome Nutella.

    Da ottimi imprenditori che sono, i Ferrero, idearono questo azzeccato nome al prodotto per avere un grande effetto, forse si ispirarono al termine inglese Nut, che significa noce ed il vezzeggiativo, per darle un nome semplice, piacevole e italiano. Piace ricordare che il termine nocciola in latino medievale era Nuceolas o anche Nucellas, da cui l’assonanza può portare più facilmente al nome Nutella.

    Ecco perché, con un barattolo di Nutella ed un pacchetto di grissini al mio fianco, ho deciso di prendermi una piccola pausa ristoratrice. Anche i grissini sono torinesi, e c’entrano con i Savoia, eccome, ma per ora basta, rischio di far ingrassare o peggio, far emergere il peccato di gola ai miei lettori e il mio racconto non è ancora neppure iniziato.

    Torniamo a noi e al 1989.

    Io vivevo in quel palazzo di Torino, dove al piano terra trovava posto l’abitazione della portiera Lina, che scrutava, dall’ampia vetrata, chi entrava e chi usciva, smistava la posta e faceva le manutenzioni ordinarie delle parti comuni. Vi era anche un piccolo laboratorio d’orologeria, ma era da qualche tempo chiuso, perché il proprietario ormai anziano e pronto per la pensione non aveva trovato chi lo sostituisse, così che l’attività era stata sospesa. Ricordo ancora che il

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