Non guardare nella nebbia
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Non guardare nella nebbia - Lei e Vandelli
Non guardare nella nebbia
PROLOGO
La nebbia è da sempre usata nella fiction per suggerire uno stato di allerta, di possibile pericolo che ancora non è dato vedere, che può prendere alla gola senza un preavviso utile. Ma non è difficile identificarla anche come uno stato dell’anima, se non la rappresentazione dell’anima stessa. Quattro racconti per quattro modi di sentire la lieve inquietudine delle cose nascoste nella nebbia, o nel cuore di ognuno. E per ricordare che non si deve per forza cercare di mettere a fuoco proprio TUTTO.
LA NOTTE DEI FUOCHI
Quell’anno S.Giovanni e solstizio d’estate coincidevano, e il piccolo paese aveva deciso di restituire il necessario lustro alla festa dei pagliai, l’usanza forse più antica di cui si avesse memoria da quelle parti. In verità, poco o tanto, con i fuochi d’artificio o senza, S.Giovanni la gente lo aveva sempre festeggiato; la nuova attenzione dell’Assessorato alla Cultura per l’evento dipendeva direttamente dai fondi stanziati dalla Comunità Europea nell’ambito del progetto di sostegno al recupero etno-folklorico legato al territorio.
In pratica, qualcuno avrebbe pagato per far festa e qualunque Comune fosse stato in grado di dimostrare la consuetudine di una celebrazione pagana o religiosa d’anzianità adeguata si era sentito in dovere di rispolverarla.
Fantoni il Vecchio non aveva niente in contrario, purché nessuno gli rompesse i coglioni: anche lui aveva la sua ricorrenza, ma non era faccenda da condividere con cani e porci e difficilmente i soloni di Bruxelles l’avrebbero ritenuta una manifestazione tipica di usi e costumi, quindi aumentò il ritmo con cui stava passando lo straccio sul pavimento del locale, desiderando solo di sparire nella sua stanza sul retro.
A non conoscerlo, quell’emiliano attempato con pochi capelli lunghi sulle spalle, la sigaretta a penzoloni e il secchio dell’acqua sporca, sarebbe sembrato uno dei tanti quasi pensionati che vivevano lungo la via Emilia, tra espedienti e invalidità risicate. Poi era uno poco socievole, e i musi lunghi non favorivano l’idea di agiatezza: invece, il Wine-bar Emilia Road, già Cantina Fantoni e figli (che poi era uno e sembrava adottato) era suo, nonostante l’avesse passato ad Alfredino, che l’aveva subito trasformato in uno di quei posti dove sembrava non si potesse più bere un semplice bicchiere di vino, mangiando uova sode e tocchetti di Parmigiano.Però Fantoni Guerrino doveva ammettere che da quando suo figlio aveva preso in mano la gestione del posto, procurandogli quasi un infarto per i costi dell’ammodernamento iniziale, gli affari andavano davvero alla grande. Era contento, perché Alfredino aveva avuto parecchie difficoltà ad imboccare una strada tutta sua, ma dai nuovi clienti si teneva alla larga. Quella gente non la capiva, in tutti i sensi: bevevano più di quanto non facessero lui e i suoi amici da giovani, ed era tutta roba carbonata, piena di sciroppi colorati e pseudo-succhi di frutta. Ma porco diavolo, la conoscevano la differenza tra Coca-Cola e prosecchino? O, stando sul local, un Pignoletto?
Un bicchiere di quella roba aveva provato a bersela anche lui, col risultato di ruttare per buona parte delle due ore a seguire. Questione di fisico, probabilmente. E poi non aveva più tanta voglia di trangugiare vino.
La storia della birra fatta in casa era cominciata circa trentacinque anni prima. Cartone (al secolo Luigi Onofri), di ritorno dal Belgio dove era stato spedito dalla ditta di termoidraulica per cui lavorava, si presentò con un fagotto e l’aria da cospiratore.
«Non avete idea di che mondo fantastico mi si è spalancato davanti! Il capo mi ha mandato a studiare gli impianti di produzione... In prospettiva di uno sviluppo del settore, ha detto. Ma la cosa interessante è un’altra: guardate qui.»
Slegò lo spago, rivelando alcune buste sigillate e fu così che Fantoni Guerrino fece la conoscenza degli estratti maltati. E di quelli luppolati, in seguito. Poi fermentatore, densimetro, gorgogliatore... Tutto il fantastico mondo dell’homebrewers, insomma: adesso sembrava roba da niente, con le decine di corsi tenuti dalle varie associazioni di settore e le visite guidate ai birrifici artigianali, ma trent’anni fa l’attrezzatura dovevi fartela mandare dall’estero. Comunque, fu così che Fantoni il Vecchio, Cartone e Martino Fabbri s’innamorarono del procedimento e, ovviamente, del prodotto: Pippo cercarono di tagliarlo fuori da subito.
Erano amici da sempre, una di quelle conoscenze nate sui banchi delle elementari, cementate dal continuare a vivere sempre nello stesso luogo, crescendo con un identico background; in pratica, amici perché nessun grosso cambiamento aveva attraversato le loro vite.
Fantoni ricordava benissimo il suo primo incontro con Pippo, e altrettanto se ne rammentavano gli altri, come succede quando accade qualcosa di veramente grave e tutti sappiamo dire dov’eravamo e cosa stavamo facendo. Col senno del poi, un indicatore da non sottovalutare. Difatti Pippo (che all’anagrafe faceva Pierpaolo e non Giuseppe) venne classificato molto presto sotto la voce calamità: calamità in buona fede, per essere precisi.
Il Vecchio mollò secchio e straccio, dopo aver controllato il rotolo della carta igienica nel bagno del wine-bar. Lo faceva ogni sera, nonostante si trattasse di una bobina di dimensioni colossali e per di più all’interno di un contenitore trasparente. Lo apriva comunque e tastava con le mani lo spessore del cilindro di carta, poi richiudeva tutto e si grattava una chiappa; così, per associazione d’idee. Il locale stava cominciando a riempirsi e Guerrino decise che era ora di ritirarsi nel sancta-santorum sul retro.
Era stato Cartone, a suo tempo, a insistere per dedicare più tempo alla produzione di birra casalinga; problemi di spazio neanche a parlarne, visto che il retro della Cantina Fantoni e figli era inutilizzata e la si sarebbe anche potuta riscaldare.
«Donna radiosa, vuoi venir con me nella magica terra dove sono le stelle? Porpora il dorso di ogni pianura, delizia per gli occhi le uova del merlo, se inebriante è la birra dell’isola di Fàl...»
Cartone non poteva esimersi, di tanto in tanto, di declamare versi. Ed era capace di tirarla davvero per le lunghe, salvo poi, d’improvviso consapevole dello scherno appena mascherato di chi lo ascoltava, uscirsene poi con un: «Veh, lo vuoi un cartone di calci nel culo? C’ho anche il formato famiglia e faccio consegne a casa!»
Lui era quello che Pippo riusciva a rendere più nervoso. Difficile dimenticare che era stato capace di fare lo sgambetto alla nonna di Martino, mentre portava in tavola la zuppiera con i tortellini in brodo. Capiamoci: la signora in questione aveva superato gli ottanta e la zuppiera era da dodici, quindi poteva benissimo andare nello stesso modo, ma l’incauto movimento di Pippo aveva garantito un finale da circo. Cartone accettava sempre con entusiasmo gli inviti di Martino, per via di Stella, sorella bonazza di quest’ultimo. Forse era anche un po’ innamorato, ma gli risultava più facile ammettere che si ammazzava di seghe che parlare di sentimento.
Fatto sta che proprio quel giorno aveva intenzione di giocare il tutto per tutto e dichiararsi. A disagio per l’eccitazione che gli pulsava nei calzoni, godeva comunque della vicinanza della ragazza eletta aiuto-cameriera per l’occasione e di quel suo occasionale sfregare di seni contro le braccia nude del ragazzo, mentre serviva due antipastini o si preoccupava di riempire i cestini del pane. La testa leggera e svagata come un palloncino, e la convinzione che quel giorno sarebbe stato indimenticabile: così fu.
La nonna arrivò con la zuppiera bollente tra le mani, il profumo del brodo del dì di festa a riempire la stanza...Pippo scattò subito in piedi, desideroso di rendersi utile: si parò di fronte alla vecchia, le mani protese in avanti in un invito di condivisione dello sforzo. Il gesto mandò in confusione la donna, perché erano le ragazze in età da marito a doversi dar da fare attorno al desco, così che gli eventuali pretendenti potessero ammirarne le capacità e trarre le debite conclusioni. Che voleva quel ragazzone dalle guance rubizze?
In evidente imbarazzo, l’anziana donna fece per scartare di lato, mentre Pippo compiva lo stesso movimento. Dall’altra parte, allora: stessa identica mossa. Di nuovo, poi di nuovo ancora... Il ragazzo forse ebbe la sensazione che lei volesse sfuggirgli, impedendogli di compiere la sua buona azione, e mise in atto un colpo di mano per impossessarsi della zuppiera. Nella sala uno sbigottito silenzio, poi la donna intimò la fine della danze, sibilando qualcosa in dialetto. Pippo ritirò le mani, rosso in faccia per la vergogna, dimenticando però di togliere il piede da dove si trovava in precedenza, in quella posizione un po’ da minuetto. Errore fatale.
La vecchia, anche lei col viso in fiamme per la stizza, partì verso il tavolo con spinta eccessiva, decisa a riappropriarsi del proprio ruolo. Così, un po’ per la foga e un po’ per quel piede malandrino, inciampò salvando la zuppiera ma non il suo contenuto. Un fiume di brodo e tortellini roventi fugò le romantiche intenzione di Cartone che, con grido d’immane potenza, fu visto fuggire nell’angolo del cortile, verso le botti piene d’acqua piovana che il padre di Martino usava per mille cose. Chiaro che, dopo essersi fatto vedere con i gioielli a mollo dalla ragazza dei suoi sogni e relativo parentado, qualunque velleità da conquistatore era archiviata per sempre.
E quello fu solo uno dei tanti casi caratterizzati dalla potenza distruttrice del loro amico: c’era chi ricordava ancora un matrimonio in fumo, diverse macchine chiuse con le chiavi dentro e due traslochi terminati con la vetrata di un negozio in frantumi. Quando uscì il film francese La capra
tutti furono d’accordo: il regista doveva essere venuto a conoscenza delle gesta di Pippo. Eppure, magari in modo un po’ contorto, Fantoni Guerrino, Cartone e Martino erano davvero affezionati a quella sorta di tsunami. Diciamo che cercavano di prenderlo a piccolo dosi, specie in certi periodi.
Il Vecchio diede un’occhiata al gigantesco orologio pubblicitario proprio sopra al bancone e decise che era tempo di darsi una mossa e sparì nel retro.
«Tuo padre è proprio in gamba, Alfredo! L’ultima Ipa che mi è passata tra le mani aveva almeno cinque o sei luppolature a freddo, e io l’ho detto subito, che doveva essere roba di Fantoni il Vecchio!...» In realtà, le luppolature erano tredici, a distanza di un quarto d’ora l’una dall’altra, e siccome Guerrino non metteva in commercio le sue creazioni ma le condivideva con un ristretto gruppo, era piuttosto improbabile che il fighetto coi bermuda e i mocassini avesse avuto occasione di berne, o anche solo annusarne, una pinta. Ma sembrava intenzionato a esprimere ancora tutta la sua ammirazione e tratteneva il polso del giovane uomo indaffarato dietro il bancone.
«Certo, certo...Però io lo lascerei perdere, stasera.»
Alfredo conosceva l’importanza di quella data, che non aveva proprio niente a che spartire con i fuochi accesi all’imbrunire, l’acqua delle sette fonti raccolta per poter divinare il futuro con l’albume dell’uovo e l’amore consumato nei pagliai, rifatti ad arte per l’occasione. Ovvero, col solstizio d’estate e la festa di S. Giovanni. No, quella sera suo padre e i suoi amici avrebbero celebrato ben altro.
Di lì a poco il primo dei personaggi attesi attraversò il locale, e s’infilò nella porta che conduceva alla stanza sul retro. Alfredo Fantoni serrò le labbra senza commentare, ma al fighetto molesto la smorfia non passò inosservata. L’uomo è un animale curioso e l’alcool ha il potere di accentuare caratteristiche già presenti, così la domanda diventò impossibile da evitare.
«Ehi, dove dà quella porta?»
Forse l’uomo dietro al bancone avrebbe anche risposto, ma l’arrivo di un secondo soggetto catalizzò l’attenzione di entrambi, ma il gestore del locale si guardò bene dal darlo a vedere: stessa scena e stessa misteriosa sparizione. L’avventore finì quello che aveva nel bicchiere, lo sguardo che tentava di essere pensoso e che cocktail e spritz già consumati rendevano ridicolo, prima di tornare a rivolgersi al giovane Fantoni.
«Non ti ci vogliono mica, vero?»
Magari l’uomo lo aveva sentito, o forse no; in ogni caso non rispose. Siccome il fighetto non aveva intenzione di demordere, passò dalla domanda all’affermazione certa.
«E’ proprio così: ti tengono