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Mergellinapils
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E-book324 pagine5 ore

Mergellinapils

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Info su questo ebook

L’amore, la passione e la nostalgia,
ma anche la violenza, la paura
e un bicchiere di birra fresca come un brivido.

Mergellinapils è un romanzo che accosta il nome di una località napoletana, Mergellina, a quello di una birra chiara, molto famosa in Europa, la pils. In esso s’intrecciano alcune storie che prendono il via in modo sfumato, con un linguaggio quasi sognante, per poi acquistare ritmo e trascinare il lettore in un vortice di grande tensione.
Il romanzo parla di amore, di odio e di paura, mescola la fantasia alla realtà per raccontare la lotta ingaggiata da un poliziotto italo-tedesco contro la piaga internazionale della pedofilia. È quindi un thriller, ma è pure una storia di forti sentimenti e di passione, e anche un romanzo storico che rievoca alcuni eventi che hanno segnato l’Europa nella prima metà del Novecento.
Nel libro s’incontrano storie e culture diverse, leggendo le sue pagine ambientate nella Germania dei giorni nostri, nella Repubblica Ceca e in un’Italia tanto sognata e rimpianta dal protagonista, si colgono spunti culturali che valicano i confini nazionali per porsi al centro dell’Europa.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2013
ISBN9788867555307
Mergellinapils

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    Anteprima del libro

    Mergellinapils - Luisa Pachera

    Armando

    Capitolo primo

    Avrebbe voluto aprire gli occhi, sbattere le ciglia e scacciare l’oscurità che le stava attorno, ma era difficile, qualcosa l’obbligava a tenere le palpebre chiuse, non c’era luce né dentro né fuori la sua mente. Altre volte aveva provato a lasciare quel buio e sempre si era trovata nello stesso punto, immersa nella tenebra più fitta e in bilico oltre la ringhiera di un ponte. Con la mano si teneva stretta al parapetto, sembrava nero ma era blu, blu come il mare che non aveva mai visto, sentiva il cielo pesarle sulle spalle mentre dondolava una gamba nel vuoto, era solo a un passo dall’orrore che l’attirava più sotto. E come sempre c’erano mani che si tendevano verso di lei, che cercavano di trattenerla, avrebbe voluto urlare, chissà se erano di Rom quelle dita affusolate che quasi la sfioravano, sembravano diverse da come le ricordava, avevano le unghie lunghe come artigli.

    Sotto i suoi piedi scorreva il fiume, buio come l’aria che respirava, si mosse per raggiungerlo, la spaventava meno delle mani che cercavano di ghermirla. Staccò le dita dal parapetto, la pelle sembrava incollata dal freddo, alzò le braccia, erano leggere, tutto il suo corpo era leggero, le sembrava di fluttuare nell’aria come una piuma, poteva girarsi e fare una capriola, oplà... non l’avrebbero presa, oplà... l’avrebbero guardata volare al di sopra del filo dell’acqua, scendere piano sbattendo le ali come un germano che torna stanco sulla Labe.

    L’infermiera scosse la testa sfilando piano l’ago dal braccio, con un batuffolo di cotone premette la pelle un po' arrossata, le faceva pena quella ragazza, sembrava un uccello chiuso in una gabbia troppo stretta. Prese una matita dal taschino e scrisse qualcosa su una cartella rigida, la pressione sanguigna era quasi normale e lo stato di agitazione piano piano si stava allentando, l’ultimo eccesso risaliva alle diciotto del primo aprile, quasi ventiquattro ore prima, bene. Le passò una mano sulla fronte, il suo corpo stava guarendo, chissà quanto ci avrebbe messo la sua anima...

    Ancora mani che la toccavano, ma perché non la lasciavano in pace? Il buio si era fatto denso e spesso, le aderiva alla pelle sostenendola e permettendole di volare, nel suo grembo si sentiva tranquilla, al sicuro, nessuno le aveva mai detto quanto fosse dolce la morte, non c’era dolore e nemmeno paura, solo leggerezza, serenità.

    Avrebbe voluto rimanere così per sempre e rifiutarsi di emergere da quel brodo di melassa, ma da un po' qualcosa la spingeva a scostare le palpebre, ad aprirle e non sapeva cos’era. A pensarci bene forse non era morta, i morti non s’addormentano e nemmeno si svegliano al brusio delle voci, nessuno li tocca, li sfrega, li sposta. Dove la stavano portando?

    Ancora rumori e ancora silenzio, se almeno fosse riuscita a dimenticare... Le faceva male il petto, c’era qualcuno appollaiato sopra di lei che le impediva di respirare, non capiva perché si fosse messo proprio lì, sul suo stomaco. Sentiva l’aria scenderle piano in gola e lì fermarsi, troppo presto per vivere, sarebbe finita come la zia di Rachel che avevano ripescato nella Labe con i capelli impigliati nell’ancora di un rimorchiatore, forse anche lei era in fondo a un fiume e stava annegando. Spalancò la bocca cercando di far uscire l’urlo di paura che la stava strozzando, non ci riuscì ma questa volta sentì l’aria entrare libera nel suo corpo, scendere nei polmoni, riempirne ogni angolo fino a gonfiarli in una massa rosea e compatta. Non era in fondo a un fiume, era in una stanza d’ospedale e aveva gli occhi aperti.

    C’era luce sopra di lei e fuori dalla finestra, una donna in camice bianco le teneva il polso e le cantava una nenia strana, dal taschino pieno di cose appuntite pendeva una targhetta, H.H. Rigenskj, c’era scritto, no, quello era il nome della dottoressa di Ústí che l’aveva curata quando aveva bevuto lo smacchiatore. Non riusciva a leggere, riconosceva le lettere fino a che rimanevano isolate, appena cercava di unirle le sfuggivano lontano come stupide farfalle spaventate. Lo stesso era per le voci, ascoltava parole che le sembrava di capire nonostante fossero diverse dalla lingua dei suoi pensieri, le parevano chiare fino a quando le teneva scostate, vicine tornavano a essere suoni privi di significato. Forse non si sforzava abbastanza. Anche adesso la donna stava parlando, cosa le stava dicendo? Era difficile..., un campanello, un sibilo, qualcosa che trillava dietro le sue orecchie, poi finalmente il buio la riprese tra le braccia.

    Ora era più facile aprire gli occhi, un attimo e tutto si riempiva di luce, era viva e c’era gente attorno a lei. Tre, quattro persone, forse di più, le stavano davanti, erano curve su di lei e le parlavano con gli occhi dilatati dalla curiosità, ne sentiva l’alito, cosa volevano? Ronzavano, Dio, quanto ronzavano, erano api fastidiose che la volevano pungere, ecco cos’erano, alzò un braccio per scacciarle ma era difficile, dov’era andata la leggerezza dei suoi sogni? Qualcuno la stava toccando, le premeva sullo stomaco e sulla pancia, non voleva. Una mano stava avanzando verso di lei, era grossa e rugosa, che intenzioni aveva?, l’indice era teso sopra le altre dita chiuse a pugno, Dio fa che non succeda di nuovo!, al mignolo portava un anello con una pietra rossa, ora il dito le sarebbe entrato in bocca, l’avrebbe strozzata, soffocata... Trasse un urlo che le uscì dalle labbra come un rantolo, fece per alzarsi, per scuotersi di dosso quei pesi che la tenevano legata al letto, un po' di buona volontà, solo un po' di buona volontà e ce l’avrebbe fatta. Sentì l’ago entrarle piano nella carne e di nuovo tornò il silenzio e la pace.

    Adesso la stanza era vuota, finalmente poteva pensare. Da quanto tempo era in un ospedale? Da giorni viveva fluttuando tra la coscienza e il nulla, ogni mattina si svegliava sentendosi un po' meglio, stava guarendo, forse era già guarita, ma guarita da cosa? Provò a muovere i piedi, le ubbidivano senza fatica, anche la presa delle mani era tornata salda, se spostava la testa bruscamente vedeva la stanza girare ma non provava dolore, non era grave. Guardò la parete che aveva davanti, c’era un quadro o forse un calendario, la riproduzione di una città con sopra una scritta, April 1999, finalmente riusciva anche a leggere. April, duben in tedesco oppure in inglese, chissà dove si trovava... Chiuse gli occhi e si rivide sul ponte, sotto c’era l’acqua che scorreva e formava creste di schiuma tra i sassi, corrugò la fronte cercando di non urlare, doveva abituarsi a convivere con i suoi incubi, a non fuggire ogni volta nel nulla.

    Com’era capitata su quel cornicione di cemento? Faceva freddo, aveva smesso di piovere ma l’aria era gelida e tagliava la pelle, non era aprile, no, era ancora inverno, era febbraio, l’ultimo giorno di febbraio, una domenica e lei era arrivata da poco in quella città. Camminava su una strada larga, era buio ma non tardi, era appena scesa da un’automobile e in mano teneva uno zaino, indossava una giacca che le stava molto bene, era blu con i risvolti chiari, dove l’aveva lasciata? Quando aveva scavalcato la ringhiera del ponte non la portava, ricordava ancora l’aria che attraverso il maglione le increspava la pelle. Scosse la testa dando il via a una vertigine senza fine, cercò di resistere tenendo gli occhi sbarrati, ma il lampadario girava e girava e lei aveva voglia di vomitare. Doveva imparare a fare le cose con calma, che fretta aveva?

    Anche quella sera fredda di fine febbraio si era detta che non c’era motivo di avere fretta, nonostante le sue paure ce l’aveva fatta, era a casa. No, a casa no, quella era una città tedesca che non aveva mai visto, casa sua era da tutt’altra parte, lo sapeva. Eppure era arrivata nel posto dove voleva arrivare, anche di questo era sicura.

    Aveva imboccato una strada laterale, la prima che aveva incontrato alla sua sinistra, era in leggera discesa, aveva superato un incrocio e un distributore di benzina, poi era proseguita fin oltre uno slargo, forse una piazza. Alzò gli occhi su un monumento, una colonna antica contornata da un’alta ringhiera di metallo, in cima c’era uno Zeus con tridente, sembrava fatto di materiale povero, friabile, una targa quasi illeggibile diceva che tanto tempo prima in quel punto c’era un porto romano. Un porto..., allora da qualche parte doveva esserci un fiume, aveva pensato guardandosi attorno, chissà dov’era... Più in là s’intravedeva la sagoma di una chiesa, sembrava antica, era piccola e bassa rispetto alla strada, si spostò e sulla sua destra trovò quello che cercava.

    Entrò in una Gaststätte senza nome che dall’esterno sembrava più un’abitazione privata che una trattoria, c’erano alcuni scalini che portavano in un atrio chiuso, spinse la porta e si trovò in mezzo alla luce e al fumo. C’era gente seduta al bancone, qualcuno si era girato a guardarla senza smettere di parlare e di bere, non erano interessati a lei e questo le piaceva. Aveva chiesto un panino e l’elenco telefonico della città, si sentiva tranquilla, non aveva paura, aveva guardato il grosso libro che teneva in mano, era bianco con un disegno infantile in mezzo, Pforzheim c’era scritto tra le altre cose.

    Ecco dove si trovava, ora capiva perché si sentiva a casa in quella città che non aveva mai visto. Si era seduta all’unico tavolo libero, faceva caldo, aveva appoggiato lo zaino a terra e si era tolta la giacca, adesso poteva cominciare la sua ricerca, ci avrebbe messo poco, era sicura che quella notte avrebbe dormito in un letto comodo tra gente che le voleva bene.

    Un’ombra aveva coperto la pagina che stava sfogliando, era arrivata alla d, Deimar, Drollinger, aveva alzato gli occhi e si era vista davanti una montagna di grasso che le sorrideva. Aveva pensato di aver occupato involontariamente il suo posto, così aveva ricambiato il sorriso cercando con gli occhi un angolo dove spostarsi, poi alle sue spalle era apparso un altro uomo, magro e ben vestito. Non doveva preoccuparsi, si era detta, nessuno l’aveva seguita. Quando aveva sentito il suo nome pronunciato con la dolce cadenza della sua terra, aveva capito. Era corsa alla porta lasciandosi dietro ogni cosa, fuori era buio, aveva attraversato la piazza, poi una strada tra clacson che suonavano rabbiosi, correva incurante di quello che le succedeva attorno, anche di chi le stava dietro.

    C’era un sentiero tra gli alberi che seguivano il fiume, era buio, troppo per lei, era tornata indietro per imboccare il ponte, pochi passi e si era fermata, non pensava a niente, la sua testa era vuota mentre scavalcava il parapetto e spiccava il salto nel vuoto, forse aveva perso l’equilibrio oppure era scivolata, chi poteva dirlo?, lei ricordava solo il buio e poi basta.

    La dottoressa Heißmann era preoccupata, c’era qualcosa di strano in quella ragazza, nel modo in cui reagiva alle cure. Cure..., ormai si limitava a somministrarle un sedativo ogni qual volta cominciava ad agitarsi, nient’altro. Non capiva perché stentasse tanto a riprendersi, tutti gli esami erano buoni, avrebbe dovuto essere in piedi da un bel po' e invece si limitava ad aprire gli occhi e a guardarla in silenzio. Il suo corpo stava bene ma non altrettanto la sua mente, da quando l’avevano portata in reparto non aveva detto una parola. Eppure non era muta, il suo cervello non aveva subito particolari lesioni e pareva una ragazza normale, capace di ascoltare e anche di capire, era ancora sotto shock, per questo non parlava, ci voleva tempo per guarire le ferite dell’anima.

    Per la polizia il caso non presentava alcun interesse, non c’era niente su cui valesse la pena di indagare. Della ragazza trovata sull’Enz sapevano già tutto quello che volevano sapere, a parte naturalmente chi era e da dove veniva. Il suo era stato un semplice ed evidente tentativo di suicidio, due persone avevano assistito a tutta la scena dal greto del fiume, avevano sentito un rumore e alzato gli occhi giusto in tempo per vedere la ragazza staccarsi dal parapetto, allargare le braccia e lanciarsi nel vuoto, niente grida o lamenti, niente mani che la spingevano, solo lei che precipitava ai loro piedi. L’impatto con il suolo era stato terribile, doveva la vita a un cespuglio di sambuco che caparbiamente aveva scelto di crescere a filo dell’acqua.

    Sulla stampa erano apparse solo poche righe, giovane immigrata senza documenti cerca il suicidio lanciandosi dall’Altstädter Brücke a due passi dall’ospedale, seguiva un articolo in odore di xenofobia, i toni erano velati ma sottintendevano l’argomento del giorno, la questione immigrati doveva essere risolta drasticamente e il governo sbagliava a voler concedere la nazionalità ai figli di stranieri nati in Germania, era una follia.

    Che la sconosciuta del ponte non fosse tedesca nessuno lo metteva in dubbio, eppure non si poteva esserne certi, ad avvalorare quell’idea c’era solo un ritaglio di giornale che le avevano trovato in tasca, era scritto in ceco e questo era bastato per ricondurre il tutto al dramma dell’immigrazione clandestina. A lei sembrava poco, ma la polizia era partita da lì e lì era arrivata, neanche un passo avanti era stato fatto in quasi due mesi dall’incidente.

    La dottoressa Heißmann scosse la testa, se solo avesse avuto una ventina d’anni in meno si sarebbe tirata su le maniche e avrebbe scavato e scavato fino a trovare un appiglio che tirasse fuori quella ragazza dal buco nero in cui si trovava, non sarebbe stata la prima volta che si buttava in avventure del genere. Nel ‘79 era riuscita a rintracciare una paziente che era scappata dall’ospedale con una commozione cerebrale non ancora guarita, era una prostituta, qualcuno era venuto a prenderla e se l’era portata via, forse lo stesso delinquente che l’aveva buttata dalle scale. L’aveva ritrovata a Monaco con l’aiuto di un investigatore privato, stava male e quando le era andata incontro si era messa a piangere. Ogni Natale le mandava gli auguri, aveva un figlio ormai grande e tante ferite che sanguinavano ancora.

    Si lasciò andare sulla sedia a fianco del letto e aprì la cartella clinica. L’avevano ricoverata domenica 28 febbraio attorno alle venti, la sua faccia era coperta da una maschera di sangue e tutti pensavano che sarebbe rimasta sfigurata, invece c’era solo qualche graffio e un taglio poco profondo appena sotto l’attaccatura dei capelli, aveva due costole incrinate, l’omero sinistro rotto e una commozione cerebrale molto seria, era grave ma poteva andarle peggio. Era rimasta in coma per più di un mese, all’inizio di aprile aveva mostrato i primi segni di ripresa e martedì sei aveva aperto gli occhi. Da quel giorno erano passate tre settimane, ora fisicamente era guarita, le costole e il braccio erano tornati a posto, il fisioterapista aveva fatto un buon lavoro per cui anche le articolazioni e il tono muscolare sembravano discreti. Unico problema era il suo silenzio e l’umore che ogni tanto si alterava portandola a eccessi che sembravano dei veri attacchi di panico.

    Se avesse avuto vent’anni di meno non si sarebbe limitata a iniettarle un sedativo, si sarebbe data da fare per cercare di scoprire chi era, da dove veniva e cosa ci facesse su quel ponte.

    Secondo la polizia dai vestiti non si poteva ricavare niente, erano dei più comuni, jeans e maglione presenti sul mercato di mezza Europa, ai piedi portava degli stivaletti di camoscio di poco prezzo, erano prodotti in Corea per la Germania ma esportati anche all’Est.

    Di lei non si sapeva nulla, dimostrava vent’anni ma forse ne aveva di più, o di meno, chissà..., era longilinea, un metro e settantacinque per cinquantanove chili al momento del ricovero, carnagione chiara, occhi azzurri e capelli lunghi e biondi, glieli avevano tagliati corti e ora erano una peluria morbida che a toccarla dava il solletico, non era truccata. Non aveva documenti, nella tasca dei jeans c’era solo un fazzoletto di carta con ripiegato all’interno il ritaglio di giornale che l’aveva catapultata nel mondo dell’immigrazione clandestina.

    Prese in mano la fotocopia del trafiletto, era da lì che bisognava partire. Secondo gli agenti con cui aveva parlato si trattava dell’inserzione pubblicitaria di una scuola privata, poche frasi prive di significato e dal sapore un po' provocatorio, in ogni caso di nessun aiuto. La polizia ceca non aveva trovato nessuna istituzione o associazione registrata con il nome di Škola Plus, né da loro né in Slovacchia. Così sembrava che alla fine di febbraio una bella ragazza senza nome né radici, si fosse sentita triste abbastanza da scavalcare il parapetto di un ponte e saltare nel vuoto, forse aveva litigato con il fidanzato o era appena stata licenziata. A lei sembrava un’enorme sciocchezza.

    Aveva bisogno di una traduzione completa di quell’inserzione, in tutto erano quattro righe scritte in caratteri piccoli ma molto chiari. La prima frase era in grassetto e terminava con un punto di domanda, con il vocabolario e l’aiuto di un’infermiera che ne sapeva poco più di lei, era arrivata a qualcosa del tipo Sai quanto è profonda la Vltava che scorre sotto i tuoi piedi?, non era andata oltre, non capiva cosa volesse dire. Per ultimi c’erano dei numeri di telefono che non portavano a niente, li aveva controllati uno a uno usando prefissi diversi. Sembrava uno scherzo, ma non si tengono scherzi piegati con cura all’interno di un fazzoletto Tempo.

    Si girò a guardare la ragazza, teneva gli occhi chiusi, ma da qualche istante aveva cambiato ritmo di respiro e cominciato a muoversi, forse stava per iniziare un’altra delle sue crisi, sperava di no, l’ultima risaliva a sette giorni prima. Si allungò per prenderle una mano, la tenne stretta, era fredda. Benedetta figliola, cosa poteva fare per aiutarla?, era giovane e si meritava qualcosa di più della sua sterile comprensione. Si sedette sul letto e provò ad avviare una conversazione, era dell’idea che se ogni giorno qualcuno si fosse fermato a parlarle o a leggerle qualcosa, prima o poi sarebbe uscita dalla sua abulia e abbandonato il silenzio.

    Ancora una volta le disse il suo nome, si chiamava Clara Heißmann, era un dottore, una neurologa per la precisione, era vecchia e piena di acciacchi, abitava poco lontano, proprio dietro l’ospedale, sulla Römerstraße, in una casa piccola ma stupenda, immersa nel verde e con grandi finestre rivolte a sud, aveva un cane e due gatti che facevano a gara a rovinarle i mobili, erano adorabili. Aveva anche una figlia e due nipoti adulte che passavano il tempo a importunarla, loro non sporcavano le poltrone di casa e tuttavia le amava meno dei suoi animali. Una volta era tutto più semplice, i figli crescevano, diventavano adulti e si sposavano, i genitori soffrivano per il distacco, ma poi si abituavano e tornavano a vivere, ora non era più così. Se non aveva mai sentito parlare di una donna che fuggiva la figlia e le nipoti come il diavolo l’acqua santa, allora doveva aprire gli occhi e guardarla, ce l’aveva davanti.

    Le palpebre erano rimaste chiuse, forse un po' più serrate di prima, le labbra però si erano mosse, per un attimo si erano tese in una smorfia che poteva sembrare un sorriso. Così la dottoressa aveva deciso di continuare, forse quello era un buon argomento.

    Voleva bene a quelle donne, per carità, Trude era sua figlia, come non amarla?, e Jessy e Karla erano le sue uniche nipoti, da piccole erano un sogno e le aveva amate senza riserve, poi erano cresciute ed erano diventate aride, erano alla perenne ricerca di denaro, per quello le aveva sempre tra i piedi, l’assegno del padre bastava appena a coprire le spese per l’affitto, così avrebbero voluto che appena in pensione lei si trasferisse nella casa di campagna, un posto più adatto per una donna anziana, erano gentili vero? Quando non le vedeva stava meglio, ci aveva messo del tempo ad accettare quell’idea sgradevole ma preferiva la solitudine alla loro compagnia.

    Ora la ragazza la stava guardando, aveva aperto gli occhi e la fissava senza espressione. Tornò a parlarle dei suoi reumatismi, della paura della pensione, dei narcisi che in quei giorni erano sbocciati nel suo giardino e di tutto quello che le passava per la testa. La sua mano era calda, lentamente il sangue aveva preso a circolare in quelle dita affusolate dalle unghie tagliate diritte, poi l’aveva sentita allontanarsi. Per un attimo era stata con lei e aveva ascoltato le sue parole, ma adesso chissà dov’era.

    - Come ti chiami? - era inutile chiederglielo, lo sapeva, ma tanto valeva provare - dimmi chi sei, lasciati aiutare - la vide spostare di nuovo lo sguardo su di lei, aveva occhi di un azzurro mai visto, bellissimi.

    Irina, mi chiamo Irina Býkev, e vengo da Ústí, conosci Ústí nad Labem? chiese la ragazza guardandola in silenzio. Le piaceva quella donna, era simpatica e dolce, spesso nella sua fantasia parlava con lei, le rispondeva come avrebbe potuto fare in una situazione normale, diversa dall’inferno in cui si trovava. Sapeva riconoscere il tocco delle sue mani a occhi chiusi, nessuno era come lei, avrebbe voluto accontentarla, dirle qualcosa, se lo meritava, ma non l’avrebbe fatto, non voleva essere identificata. Doveva schiarirsi le idee, riprendere le forze e poi andarsene senza lasciare alcuna traccia, aveva commesso un errore nel credere di essere al sicuro in quella città, un grosso errore.

    La dottoressa Heißmann la vide richiudere gli occhi e girare la testa di lato, era un commiato, ormai la conosceva. Le passò una mano sulla peluria soffice del capo e se ne tornò nel suo studio. Sorrideva, sentiva in fondo al cuore un sottile senso di soddisfazione, di eccitazione anche, era andata meglio del solito! Quella ragazza aveva bisogno di stimoli, di gente che parlasse la sua lingua, se era vero che era ceca allora doveva trovare un ceco e portarlo all’ospedale. Non sarebbe stato facile, lo sapeva, ma valeva la pena di provare. Peccato non poter rivolgersi all’infermiera del quinto piano, sosteneva di aver vissuto a Praga per tre anni e magari era anche vero, però davanti al ritaglio del giornale aveva fatto una magra figura, capiva quanto lei se non addirittura meno. E allora a chi poteva rivolgersi?

    C’era Emma, certo, a lei aveva pensato subito, era una donna in gamba, un’amica non solo una paziente e aveva la sensibilità giusta, ma era ancora più anziana di lei, e di tanto anche, l’ultima volta che l’aveva vista le era sembrata più stanca del solito, il tremore si era accentuato e anche se lei faceva finta di niente si vedeva che non stava bene. Avrebbe voluto che si fermasse qualche giorno in ospedale per dei controlli, ma lei si era rifiutata, era in ottima forma, aveva detto, e se n’era andata.

    L’avrebbe chiamata, era originaria dei Sudeti e forse conosceva qualcuno che poteva aiutarla, avrebbe lasciato passare un’oretta, erano le nove ed Emma aveva bisogno di tempo per i suoi rituali mattutini, poi, prima di tornare in corsia per le visite, le avrebbe telefonato.

    Mentre la dottoressa Heißmann aspettava il momento giusto per telefonare a un’amica che conosceva da quasi vent’anni e poco più in là una ragazza sola e spaventata si riprometteva di proteggere con il silenzio la vita sua e dei suoi cari, dall’altra parte della città una signora dai capelli chiari, bianchi con un riflesso biondo appena accennato sulle punte, finiva la sua colazione, ricca e abbondante come sempre. Sulla fronte portava due bigodini di plastica dal rivestimento autobloccante che si muovevano al ritmo del suo tremito leggero, la pelle era chiara, quasi trasparente, lo strato sottile di crema che la copriva la rendeva lucida e morbida nonostante i segni lasciati dal tempo. Non era stato un buon risveglio, per niente.

    Aveva dormito inquieta come tutte le volte che mangiava asparagi, non che soffrisse di particolari problemi digestivi, fortunatamente il suo stomaco non risentiva dell’età come le sue ossa, solo che non si era accontentata di qualche punta appena intinta in una cucchiaiata di olio e sale come sembrava giusto per una donna di quasi novant’anni, no, la sera prima si era concessa il lusso di mezzo chilo di germogli odorosi immersi in una crema densa e profumata di burro che ancora adesso le faceva correre la saliva in bocca. Così aveva dormito male e verso l’alba era scivolata in un dormiveglia inquieto popolato di sogni che affondavano le radici nei suoi ricordi. A dir il vero per risvegli del genere non aveva bisogno degli asparagi bianchi dell’Alsazia e nemmeno dell’insalata di Lyoner e scalogno della notte precedente, per essere disturbata dai ricordi non le serviva un bel niente, aveva tutto in testa, al primo chiarore lei lasciava Pforzheim e andava a visitare luoghi e persone che normalmente s’illudeva d’aver dimenticato.

    Da anni ogni giorno, al primo barlume di luce, l’Elba tornava a scorrere lenta sotto i ponti grigi della sua memoria. C’erano macerie, rovine nei ricordi che la visitavano all’alba, e c’era un sentore di nebbia e di fumo che solo l’aroma caldo del caffè riusciva a disperdere. Anche quella mattina Emma aveva aperto gli occhi e spostato la testa all’indietro verso la finestra, era presto per alzarsi, dalle fessure della tapparella filtrava una luce opaca, umida, forse pioveva. Avrebbe voluto girarsi e riprendere sonno, ma era difficile fermare lo scorrere muto dell’Elba, tanto valeva lasciarlo andare.

    Lentamente scivolò su un fianco, trattenne il respiro aspettandosi il solito dolore vecchio compagno di tutta una vita, invece niente. Forse non stava piovendo, forse quella sarebbe stata una buona giornata.

    Il fiume era popolato di cose strane. Alligatori con la cresta verde nuotavano nella corrente senza alzare gli occhi dal filo dell’acqua, venivano da sud, da oltre le colline, filavano diritti sorridendo contenti della desolazione che avevano attorno.

    Nell’ombra scura della stanza la parete mandava bagliori che si confondevano con le immagini della sua mente, alligatori nell’Elba..., roba da matti!

    Ora anche lei si trovava nell’acqua, piccole onde di schiuma danzavano alla sua destra, alla sua sinistra e anche oltre la punta dei suoi piedi, stava galleggiando, doveva rimanere ferma e mantenersi calma, qualche istante e sarebbe tornata nel suo letto, non era la prima volta che succedeva. Sopra la sua testa stava passando l’arcata sbrecciata dell’Albertbrücke, trasse un respiro profondo, pochi metri e avrebbe scorto la cupola dell’Opera, oro, stucco, marmo, seta, Dio che sogno!

    Doveva sbrigarsi, alzarsi da quel letto bagnato dalle sorgenti del sud, quanto tempo aveva?, sembrava già buio..., avrebbe indossato l’abito lungo di broccato rosa e la veletta con il fermaglio che Erich le aveva regalato a Natale, sulle braccia avrebbe infilato dei lunghi guanti di seta bianca che l’avrebbero protetta dall’aria fredda d’autunno, sul letto era adagiato il cappotto nuovo con gli alamari dorati, avrebbe indossato quello, era ancora presto per il mantello di volpe.

    Sulla riva correvano briciole di palazzi, pezzi di torri e scaglie di chiese che graffiavano l’aria come unghie smaltate di

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