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Quello che le Muse non cantano
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E-book160 pagine2 ore

Quello che le Muse non cantano

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Info su questo ebook

Esiste una sottile linea fra i due mondi; esiste un canto in grado di spezzarla per chi sopporta il peso di ascoltare. Lei è una ragazza come le altre, persa nelle proprie riflessioni, quando accade: Ipno, un angelo nero, la troverà per rivelarle la verità: c'è una guerra fra due schiere angeliche e lei è la prescelta della fazione opposta alla sua; insieme devono combattere per ristabilire la pace, ma prima di ciò deve sbarazzarsi delle proprie catene umane, attraverso una serie di prove. Senza troppe difficoltà lei riuscirà a vincere le istanze del proprio corpo, ma all'ultimo la realtà finirà per smembrarsi in miliardi di frammenti e si ritroverà a fare i conti con la propria mente.

"Quello che le Muse non cantano" è un fantasy con un risvolto psicologico in cui, ramificandosi nel tessuto della trama, prendono voce le massime contraddizioni dell'animo umano.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2017
ISBN9788892618756
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    Anteprima del libro

    Quello che le Muse non cantano - Chiara Del Tavano

    Skillet

    IL CANTO DI UN ANGELO

    Guardava alla finestra catatonica, mentre avvertiva il mondo girare. Le voci dei suoi compagni, della professoressa Martino, apparivano distanti come provenienti da un altro mondo. Fissati là sullo sfondo di quelle pareti di un mesto giallino opaco. Ripensava alla sera prima e poi improvvisamente nella testa iniziarono a mescersi giorni passati, ricordi e aspirazioni. E tornarono le domande affiorando dal fondo del baratro in cui aveva deciso di gettare la propria anima. La immaginava opaca e allo stesso tempo cristallina nell’erebo¹.

    Poi si scosse da tali pensieri tetri e puntò un attimo lo sguardo argenteo sul volto della professoressa: davanti a lei una donna di mezza età magra con i lineamenti spigolosi, i capelli scuri e lo sguardo acceso di una bambina davanti a dei dolcetti. Era lo sguardo a non rendere quella professoressa così sottile e abbigliata come una ragazza il grottesco ritratto di se stessa, ma anzi quasi una bella donna. Parlava e gli occhi le brillavano. Sembrava fosse per la passione del proprio lavoro, ma i malpensanti dicevano che li guardava come un leone fissa una gazzella prima di sbranarla. Non era importante alla fine: dalla dimensione in cui si trovava queste cose non la toccavano.

    Suonò la campanella e fu improvvisamente catapultata nella realtà: ora c’era matematica.

    ***

    - Hey, non puoi stare qua! - un uomo sulla quarantina mi guardava con aria di biasimo

    - Sono venuto per portare una persona con me

    - No Ipno, ti ho riconosciuto. È inutile che nascondi quelle ali. Non ti permetterò di portarla fuori di qui. - mi guardò in cagnesco ed iniziò ad avvicinarsi.

    - Ahahah non puoi impedire alla gente di sognare, Elio - mi sentii dire prima che le mie enormi ali cineree si facessero strada partendo dalle scapole, squarciando la pelle e i vestiti, e che con un grido mi librassi in volo. Librarsi ricorda il latino libero e volo il verbo volere. Mi sono sempre chiesto se fosse una coincidenza.

    Mentre l’uomo si accasciava a terra con le mani sulle orecchie e delle persone accorrevano alle finestre rotte, io mi buttai dentro l’edificio alla ricerca di colei che non temesse il canto di un angelo.

    ***

    Immediatamente si fece strada dalla porta l’altra professoressa. Puntuale come la morte. Sembrava anche arrabbiata. Aveva i capelli grigi e gli occhi castani e uno sguardo omicida che fu puntato subito su di lei. Capì all’istante che non c’era scampo.

    Ti prego dimmi che non chiama me, ti prometto che studierò per la prossima volta, anzi mi offrirò volontaria

    - Tu, vieni alla lavagna.

    Fantastico

    - Li hai fatti i compiti?

    Se per caso esistesse il mio angelo custode questo sarebbe un bel momento per farsi vedere

    - Ci sei? Allora?

    ti prego

    - Ehy !!

    In quel momento le porte si spalancarono per un colpo di qualcosa che non sembrava essere vento e tutti si gettarono a terra cercando di coprirsi le orecchie. Tutti tranne lei.

    Poi si fece strada all’interno dell’aula una figura scura con i capelli neri e gli occhi verdi. Un angelo nero, io.

    La ragazza mi fissava con la bocca spalancata. Iniziò a grattarsi la testa castana e puntò gli occhi sulle mie ali.

    - Andiamo - la presi per mano ed iniziai a correre. Ma ormai il bidello aveva preparato l’offensiva e, dopo aver procurato a tutti dei tappi di cera, aveva iniziato ad inseguirci insieme all’intero personale ATA² più un paio di professori, probabilmente di educazione fisica.

    Era alta e sembrava anche abbastanza in forma. Non avrebbe avuto problemi a stare al passo, se non fosse stato che, ancora incredula, si voltava indietro e a tratti inciampava. Probabilmente si stava chiedendo se tornando indietro subito si sarebbe risparmiata la punizione, o almeno ne avrebbe avuta una minore. Ma lei in fondo lo sapeva di non appartenere a quel posto e presto iniziò a correre anche quasi più velocemente di me. Ma ad un certo punto ci ritrovammo ad essere circondati e l’unica via di fuga era una finestra mezza rotta che dava sul cortile. La osservammo prima di scambiarci uno sguardo. Il suo era terrorizzato. Prima che potesse ribellarsi la presi in braccio e in un attimo sorvolammo quel suo piccolo mondo inospitale.

    SOGNO

    Si svegliò, aprì gli occhi. Le iridi erano di un verde opaco, annebbiato da tutti quei farmaci: malvagie pillolette rosse e blu che provavano diletto nello scendergli giù, calarsi, nella gola scorticata per il troppo gridare; le sentiva effervescenti che sghignazzavano, trovando esilarante torturarlo e prendersi gioco di lui. Puntò quei fanali rotti nel bianco opaco della nuvola artificiale in cui era stato rinchiuso. Cercava lei. Luce non c’era ieri, non c’è oggi, non c’è più. Pensò a quel cappello che lo attendeva nella piccola camera dove dormiva con lei.

    Luce non c’è mai stata. Ormai era immerso nella nuvola da mesi. Ma ricordava troppo vivido il riflesso di quei capelli neri, sotto allo sguardo argenteo della luna, quando, prima di addormentarsi mano nella mano, lei gli rubava quel buffo cappello, che avevano comprato insieme in un negozio di abiti antichi, e lo litigavano e facevano la lotta e poi l’amore. Quanto tempo era passato da quella notte?

    Atlantide si prende il tuo tempo, lo scambia con il suo, ti dà un passato nuovo, ma lui questo non lo sapeva.

    Piangeva; avrebbe voluto morire, ma là era tutto bianco e non si poteva muovere, stretto fra le spire di un boa di stoffa.

    Medici lo curavano, lo osservavano. C’era quell’odore nauseabondo di disinfettante che si insinuava nel suo naso, dandogli la sensazione di essere già morto e che quello servisse a coprire il suo fetore di cadavere in decomposizione. Gli davano medicine strane, minacciose e arroganti, dicevano servissero a farlo stare meglio. Eppure lui lo sapeva che non era così. Comunque non aveva importanza: non si può ammazzare chi è già morto dentro.

    Lei che l’aveva salvato non c’era mai stata, eppure le sue urla di quella notte risuonavano ancora nelle orecchie, quando si erano ritrovati al buio in un luogo sconosciuto e qualcosa l’aveva trascinata via. Aveva cercato di prenderla, ma non vedeva niente ed era rimasto a vagare nel nero fino a che qualcuno aveva afferrato anche lui. Aveva lottato, ma poi il buio si era fatto più scuro, interno.

    I ti amo sussurrati e i resta come brevi preghiere. Le promesse, simpatici delfini che facevano capolino: ci sarò per sempre.

    Un urlo, omino cicciottello, incastrato nella gola, Dove sei?

    Lei odiava sentirlo urlare, scoloriva facendo impallidire quella loro casa colorata e piena di oggetti senza tempo, gingilli abbandonati, rotti, che avevano adottato. In quella casa niente era da buttare. Lei amava gli oggetti rovinati, li voleva tenere tutti e, se lui provava a sbarazzarsene, diceva che ogni ferita che li lambiva raccontava una storia e, a queste parole, sorrideva mentre i suoi occhi brillavano. Era disarmante, più folle di lui. Forse era per questo che aveva il coraggio di amarlo.

    Si trattenne per poi urlare di nuovo più forte. Più forte, sempre più forte e poi sempre più piano, più brevemente e quell’agglomerato di lettere divenne un sussurro, un mantra, un richiamo sempre più languido.

    ***

    Judit, vero nome allora ignoto (che parola strana, un’ombra nel buio che t’osserva con occhi a te invisibili), ci sperava troppo. Perché lui non dimenticava quella ragazza con le braccia sempre scritte (promemoria dato che era terribilmente smemorata), quel sorriso da birbante, la sbadataggine che usciva da tutti i pori e gli occhi di cristallo? Perché non accettava lei?

    Sapeva di essere meglio: era una bella donna, in più era precisa e dotata di stile nel vestire. Non come quella, che accostava colori e abiti osceni a formare abbinamenti così orribilmente colorati da farla sembrare un pappagallo. Ma lei, quando ne avrebbe avuta l’occasione, avrebbe spezzato il collo a quello stupido uccellino. Lei si che aveva classe invece, lei era un gatto. E lui era stato talmente di cattivo gusto da preferire quella.

    È vero: Judit aveva sbagliato, ma era tornata e lui non c’era. Prima di morire glielo aveva giurato che avrebbe distrutto tutto quello che amava.

    ***

    Dove sei?. Il baratro dentro di lui gli squarciò il petto quando tossì quest’ultima domanda con le labbra secche e il verde degli occhi evidenziato dal rosso intorno alle iridi.

    Sta arrivando disse un infermiere con una voce troppo squillante per la sua testa pulsante, osando interrompere il silenzio e il vuoto dato dalle canzoni che erano solo di Luce, che le aveva dedicato e che qualcuno profanava mettendole ora di proposito. Ma quella era una tomba che non avrebbe mai voluto aprire. Avrebbe fatto più male vederla là, lo spettro di quello che era prima o trovare una bara vuota, la prova schiacciante che non c’era neanche una Luce per cui piangere, una felicità perduta, che lui non era mai stato felice, che era solo un pazzo? Lo sapevo di essere pazzo, ma pensavo di esserlo di te..

    - Io non voglio vederla! - Dove trovava ancora la forza per urlare?

    - Ma è lei la donna che hai sempre amato, che chiami la notte. Noi, io ti voglio aiutare. - leggeva nei suoi occhi il dolore di dover mentire ad uno che stava male. Sapeva che non era colpa sua, che era costretto, ma non riusciva a perdonarlo: aveva troppa paura di credergli.

    - Sei un pessimo bugiardo! Puoi ingannare la mia mente, ma non il mio cuore. – Là c’è ogni ferita ed ogni cerotto che quelle mani sempre troppo fredde mi hanno adagiato addosso con la delicatezza di un volo di rondine, là quella memoria che non si può annebbiare..

    Judit arrivò. Lei era più simile ad un’arpia, che ghermisce i colpevoli nei cieli degli inferi, con tutta la forza e l’odio di cui sono capaci le Erinni³. Ma qual’era la sua colpa? Amare? Dunque il mostro arrivò con quei tacchi di venti centimetri. Era comica, quasi da circo: quella faccia super truccata, grottesca come il volto di un pagliaccio, a nascondere un pallore smorto, che però emergeva sempre come una condanna, come l’olio sull’acqua. E poi quel suo arrancare da esperta sui trampoli, quelle ciglia, quegli artigli artificiali. La parodia di se stessa.

    Giunse da lui e trillò con quella voce sgradevole (a pensarci c’era una differenza fra lei ed un pagliaccio: quello non parla, lei purtroppo si) : - Amore mio! Tu sei malato di mente! - sorrise, un sorriso simile a quello dei coccodrilli. Ora mi morde. Tra l’altro aveva usato lo stesso tono con cui si canta Tanti Auguri ad un compleanno- ma io ti aiuterò a guarire!

    - Io sono malato di cuore e cieco barcollo nelle tenebre. Voglio la mia Luce, non un dannato naso rosso!

    - Sono io, Judit- si, Judit, il pagliaccio che ignora gli insulti prendendo gli stop per il verde, perché non la investono? - sono la tua Luce- il sorriso era dolce, ma lo sguardo la tradiva.

    - No, No, NO! Lei dov’è? Dov’è?! - l’arpia si avvicinò per baciarlo, tentativo che faceva sempre (quella bocca rosso sangue aveva le parvenze di un grosso pesce che va in giro ad eliminare i più piccoli abitanti del mare ed ora si stava avvicinando con il fare minaccioso di una nave pirata pronta ad attaccare un ignaro piccolo veliero. Cosa aveva fatto a Luce?). Non aveva il diritto. Le sue labbra appartenevano a Luce. Le sputò in faccia e vide la crudeltà brillare: - Ti chiedi dove sia? Povero amante disperato, che brutto cercare qualcosa che non c’è! - fece finta di asciugarsi una lacrima e lui non poté fare a meno di chiedersi perché quegli uncini che le donne chiamano "unghie

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