Necromitologia: Storie senza nomi
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I miti classici infatti, sia che si tenti un'interpretazione psicanalitica, sia che li si analizzi da un punto di vista storico-antropologico, hanno in sé i germi di una trama di morte: tracce oscure da cancellare dalla nostra personalità, ricordi di sacrifici umani o invasioni violente. Il passato di sangue su cui si fonda la nostra civiltà emerge nelle pieghe misteriose di queste storie senza nomi, in cui personaggi inconsistenti, anonimi nel vero senso della parola, si staccano dal presente per diventare immagini di un’umanità carica di inquietudini, che inutilmente si interroga sulle radici del proprio disagio.
“Sono solo pensieri, e anche se i pensieri creano il mondo occorre costruirne altri, sempre peggiori, per dimostrare a noi stessi che l’orrore a cui abbiamo dato vita è parte di tutti, della vita stessa, fatta di continui cambiamenti e di abissali squarci d’ignoranza.”
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Anteprima del libro
Necromitologia - Carlo Salvoni
Carlo Salvoni
NECROMITOLOGIA
STORIE SENZA NOMI
Elison Publishing
© 2022 Elison Publishing
Tutti i diritti sono riservati
www.elisonpublishing.com
ISBN 9788869633034
Indice
APOLLO E DAFNE
ENDIMIONE
PIGMALIONE E GALATEA
SISIFO
ECO E NARCISO
PASIFAE
ASTERIONE
PROCUSTE
LA SETTIMA FATICA: LE CAVALLE DI DIOMEDE
APOLLO E DAFNE
Andava a messa tutte le mattine, perché non conosceva altro modo per cominciare la giornata. Era come un pulsante di attivazione, un riflesso lo portava dal letto al portone della chiesa ancora chiuso, davanti a pochi anziani in attesa della pietosa chiave del sacrista.
Si mise allo stesso posto di sempre, in fondo, dove non arrivava la luce delle lampade e le parole del sacerdote giungevano confuse dall’eco della navata vuota e fredda. Dal fondo l’altare danzava nella luce che i suoi occhi stanchi tendevano a fuggire, lui però la cercava, doveva in qualche modo sforzarsi perché il legno prendesse vita. Non c’era niente di diverso da tutte le altre mattine: luce appena accennata, freddo, eco tra i banchi vuoti. La funzione scorreva veloce come sempre, meccanica nella sua secolare ripetitività. Osservare l’altare che danza, tendere l’orecchio, sedersi in una posizione scomoda o, ancor meglio, stare tutto il tempo in ginocchio perché è solo dai brandelli di vita che si cedono al nulla che la materia inerte può prendere linfa.
Alla fine rimase solo a respirare il silenzio, lo faceva sempre e poi si sentiva in colpa per la sensazione di rinfrancante serenità che si portava via. Non andrai in chiesa per sentirti felice, soddisfatto, in pace con te stesso,
gli aveva detto la donna che credeva sua madre la prima volta che l’aveva mandato a messa da solo ci andrai per trovare il pungolo che ti tormenta, il rimorso che non ti lascia dormire
. Lui non aveva risposto, quasi in attesa di una terza opzione che tardò ad arrivare: Oppure la noia, anche la noia va benissimo
e con questo il discorso fu chiuso per sempre. Eppure non poteva fare a meno di godersi quei pochi attimi di solitudine fra i banchi in ombra: si sentiva inghiottito dal vuoto che come un mare profondo ingoiava tutto lo spazio fino alle volte del soffitto. Qualche volta osava anche chiudere gli occhi e allora il battito del cuore lo assecondava e si affievoliva, in sintonia con la quiete che si lasciava sfiorare solo da lui.
Di solito redimeva il peccato con un dolore acuto e breve, una punta calda scioglieva il nodo che quei secondi di pace avevano intrecciato dentro di lui. Quella mattina umida, però, non ce ne fu bisogno. Cadde una moneta e il suono cristallino dell’impatto si propagò per le navate come uno schianto metallico. Si riscosse dal torpore del peccato e fissò la croce. Due teneri ramoscelli spuntarono dai bracci e nonostante la distanza poté scorgerli mentre gemmavano, producevano piccoli frutti neri e subito appassivano. Rimasero là attaccati, quale testimonianza di un’esistenza troppo breve per avere un significato, ma tutto sembrava partecipare a una vibrazione di vita straordinaria. Il terrore gli bloccò le gambe, ma con dolore riuscì a liberarsi dai crampi che lo incatenavano e si mosse a scatti verso l’uscita. Fuori c’era più buio di quando era arrivato e dai lampioni la luce scendeva a fiotti come acqua da una fontana. Si fermò a respirare sul sagrato, l’aria era carica di umidità che non si decideva a raggrumarsi in pioggia: restava fredda sulla pelle, indugiante come un fluido gelatinoso.
D’improvviso si sentì vecchio, i suoi vent’anni non avevano più nulla da dargli, se non una lunga attesa da sopportare in silenzio. Ma non era lo stesso silenzio da cui si lasciava cullare dopo le funzioni, era un vuoto carico di promesse incerte che lui non voleva conoscere. Corse verso casa e quando i suoi piedi finirono in una pozzanghera sentì sulla pelle, che sembrava grigia come la cenere, gli sguardi di due maschere che lo osservavano da una finestra. Erano vuote, appese alla maniglia per distrazione da una mano callosa, eppure sghignazzavano e riempivano la sua solitudine di incertezza. Corse, ma quando fu vicino ai muri agognati di casa sua, vide che erano cambiati. Le ombre si disegnavano tra una crepa e l’altra come serpi elettriche e dalla finestra veniva una luce lattiginosa accompagnata da un ronzio tanto lieve quanto impossibile da sopprimere. Lo sentì penetrargli nel cervello e si prese la testa tra le mani perché nel rumore gli sembrava di sentire parole terribili che parlavano di lui.
Quando la signora tornava dal gruppo di preghiera era sempre di buon umore e difficilmente se lo lasciava guastare. Così, quando quella mattina trovò la porta di casa aperta, non diede in escandescenze come normalmente avrebbe fatto. Si limitò a inspirare l’aria umida del mattino mentre ascoltava i battiti del suo cuore che rallentavano lentamente ma con regolarità. Lo chiamò ad alta voce, sapeva che era da qualche parte, forse in un angolo buio raggomitolato. Succedeva spesso al mattino di trovarlo in un cantuccio con le guance rigate dalle lacrime e il moccio al naso, mentre mugugnava parole incomprensibili e teneva la testa tra le ginocchia. Allora lei lo alzava con dolcezza e gli prendeva le mani: quelle grosse mani da ragazzone tra le sue, piccole e raggrinzite, le dita ricurve per l’artrite, creavano un contrasto sgradevole. La piccola bacchetta era già pronta sul tavolo, dove lui stesso l’aveva messa perché sapeva di meritarla.
Invece era in piedi, la sua faccia da idiota incollata al vetro. Guardava qualcosa con gli occhi spalancati di chi vede per la prima volta e le mani, appoggiate agli infissi, stringevano, quasi a voler sradicare la finestra dalla sua sede. Per un lungo tempo non osò disturbarlo, mentre fuori le condizioni atmosferiche cambiavano e si susseguivano senza logica apparente.
La vedi?
disse infine con un sussurro di cui non credeva di essere capace.
Lui rispose con un cenno e le rivolse lo sguardo. Gli occhi erano rossi e gonfi, ancora pieni di lacrime.
Dove l’hai vista la prima volta?
chiese, mentre lui alzava una mano tremante in direzione della chiesa. Era pronto, aveva capito, finalmente, quello che tentava di insegnargli da una vita, una vita di reclusione e sofferenza, in cui aveva dovuto strapparlo dagli altri bambini: non poteva reggere il confronto con quegli esserini pieni di vita e di entusiasmo, lui, stupido gigante goffo senza speranza. Lei l’aveva educato, indicandogli la strada della vita. Solo dalla croce poteva nascere qualcosa di buono, ma lui non scorgeva il flusso vitale fluire da quei pezzi di legno che gli sembravano inerti. Era colpa sua, lo sapeva, e non riusciva a contrastarla anche se la signora l’aveva sempre aiutato a trattenersi, a non lasciare che il suo sguardo risucchiasse la vita da quel mondo che doveva fuggire.
La vedo
la sua voce era bassa e ferma. Era cambiato, non era più il bambinone impacciato che lei conosceva. Nel giro di una mattina era diventato un uomo e anche se le dispiaceva che non dipendesse più da lei, doveva ammettere che aveva fatto bene il suo lavoro e ora poteva andarsene come aveva sognato tanto tempo prima, talmente tanto che se ne era dimenticata, rassegnandosi a rimanere come guardiana di quella creatura fino alla fine dei suoi giorni.
La vedo in ogni albero, nitida e perfetta, come se fosse sempre stata lì, ma era nascosta ai miei occhi
.
Proprio così, caro.
La voce della signora tremava, si sentiva terribilmente vecchia. La stanchezza accumulata in tanti anni di fatiche crollava su di lei tutta in un colpo e non riusciva a sostenerla. Sentiva gli occhi che si chiudevano, ma non voleva cedere. Lui le cinse le spalle e la condusse alla poltrona, ma lei si divincolò e corse verso la bacchetta. Con un ultimo slancio la spezzò in due parti uguali e avrebbe voluto lanciarla nel fuoco, ma piegò le ginocchia cadde direttamente sul pavimento con un rumore secco di ossa che si spezzano. Lui si limitò a guardarla: il respiro sembrava regolare e un lieve russare le usciva dalle narici.
Era in una posizione innaturale, contorta e scomoda. Con lentezza estenuante si avvicinò a lei e con il suo corpo immenso la coprì, quasi a volerla proteggere dal freddo che però si insinuava dal pavimento e protendeva i suoi tentacoli scuri verso ogni centimetro di pelle vivente.
La palla rosa rimbalzava contro il muro della casa, che perdeva calcinacci a ogni colpo. Era l’unico muro decente nei paraggi per giocare da sola e la bambina non perdeva l’occasione per sfruttarlo, anche se spesso doveva fuggire dall’acqua lurida e gelida che la vecchiaccia le tirava in testa dalla finestra. Era quasi una sfida che solo lei accettava. Il gigante che la guardava fisso, invece, non le aveva mai fatto paura. Stava lì a fissarla senza muovere un muscolo, guardava un punto imprecisato del muro, dove la palla a volte andava a sbattere per sbaglio e nel rimbalzo rotolava lontano dalla bambina che era costretta a rincorrerla per non perderla lungo la discesa. A volte gli faceva una smorfia, ma non c’erano reazioni, solo un piccolo movimento degli occhi nella sua direzione. Non aveva mai sentito la sua voce, solo dei borbottii gutturali che a volte gli sfuggivano, e subito se ne vergognava.
Quel giorno, però, non sembrava voler uscire nessuno, dalla casa provenivano scricchiolii, come di vecchi mobili sottoposti a un peso eccessivo o di cardini che stanno per cedere perché immobili da troppo tempo. La finestra era chiusa e l’interno sembrava buio, come se si producesse dai muri un’oscurità artificiale, generata da non si sa quale lampada negativa. La piccola guardò verso l’alto per un po’ in attesa di un minimo movimento, ma tutto ciò che riuscì a sentire proveniva dalle sue spalle: Un, due, tre… lo zietto oggi non c’è!
Due bambini, più piccoli di lei, la indicavano. Avevano strane maschere e indossavano giubbotti catarifrangenti.
Stupidi!
rispose lei, e si mise a rincorrerli a perdifiato lungo la discesa. La palla rosa rimase per terra, accanto al muro, fino a quando una strana scossa non la ricoprì di intonaco staccato. I muri si riempirono di crepe e solo dopo un minuto di spaventoso silenzio lui aprì la porta. Era cambiato, ma non tanto da non essere riconoscibile. In qualche modo sembrava che si fosse rimpicciolito, ma avesse assunto tratti più duri, da adulto. I capelli erano più chiari e un odore di muffa usciva dai vestiti pieni di polvere.
I bambini avevano lasciato solo un vociare sommesso che si allontanò sempre di più, lui si limitò a inspirare a pieni polmoni e a guardare il cielo. Le nuvole si stavano diradando, eppure il sole stentava a farsi vedere. Era intrappolato dietro cumuli passeggeri che si divertivano a dargli l’illusione del sereno. Lui fissava il trascorrere delle nuvole con un’espressione di inusitata serenità, per cui fino al giorno prima avrebbe provato rimorso. Quei due piccoli rami l’avevano redento e liberato da un controllo che era diventato inutile.
Quando decise di allontanarsi, la porta alle sue spalle rimase aperta, proiettata su un atrio buio e silenzioso. Dall’interno un orecchio attento avrebbe potuto sentire dei tonfi sordi, come di pugni che battono sul legno, ma molto deboli, rassegnati, quasi trascurabili nella loro inconsistenza.
Quando il sole ebbe compiuto buona parte del suo tragitto, non aveva ancora ricevuto la grazia di proiettare i suoi raggi fino al suolo. C’era sempre qualcosa che si frapponeva fra il cammino dei fotoni e la terra, in modo che il gioco delle ombre fosse continuo e desse l’illusione di mutamenti continui nelle piccole cose: una pozzanghera diveniva ora uno specchio limpido circondato da moscerini danzanti, ora un pozzo scuro senza vita; i muri parevano affrescati da macchie vibranti, per poi diventare monoliti opachi e minacciosi. La porta era ancora aperta.
Adesso da dentro non si sentiva proprio nulla, la casa era inerte e vuota, la porta un orpello inutile, spalancata su un interno privo di vita. Lui non tornava, né sarebbe tornato per lungo tempo. La bambina invece, sudata e col fiatone, aveva finito il suo inseguimento e tornava a recuperare la sua palla sommersa sotto i calcinacci.
Sulle prime la palla era l’unico pensiero, ma la porta aperta costituiva un richiamo troppo allettante per essere ignorato. Si avvicinava con circospezione e quando salì l’unico gradino che portava all’apertura sentì la schiena sudata che si ghiacciava, come sferzata da un vento polare che non c’era. Tutto le suggeriva di lasciar perdere, di evitare anche solo di guardare oltre gli stipiti ammuffiti, ma mentre lo pensava non poteva fermare l’incedere lentissimo ma regolare delle sue gambe malferme. Andava perché doveva andare, senza la possibilità di assumersene il peso sconcertante.
Vide solo i muri bianchi scalcinati, le macchie di umidità negli angoli