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Le famiglie che hanno creato la mafia
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E-book1.461 pagine21 ore

Le famiglie che hanno creato la mafia

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Info su questo ebook

Tutta la verità sulle dinastie più potenti della criminalità organizzata

I Genovese, i Gambino, i Bonanno, i Colombo e i Lucchese: le dinastie più potenti nella storia della mafia in America.
Una storia che, da sempre, parte dai colpi di lupara per culminare nei palazzi del potere, i luoghi dove la criminalità organizzata intreccia ambigue alleanze con i rappresentanti della politica. Fin dal fascismo, l’infiltrazione della mafia negli Stati Uniti fu favorita dall’idea di predisporre una micidiale “quinta colonna” nel cuore del Paese. Nel corso del secondo conflitto mondiale, si scoprì che la mafia controllava tutti i principali porti di New York e che aveva accumulato una fortuna con i dazi e le estorsioni oltre che con gli alcolici, il gioco d’azzardo e la prostituzione. Dopo la guerra, si modernizza e, grazie al traffico degli stupefacenti, ingigantisce il suo giro d’affari. Il libro illustra questi passaggi con dovizia di particolari, dando grande spazio alla vita quotidiana, alle abitudini e alle manie dei diversi protagonisti. Per ricostruire le loro vicende processuali, l’autore sfrutta le fonti d’archivio e ricorre spesso all’intervista, conferendo una dose supplementare di realismo all’intera opera. Un saggio appassionante e inquietante come un gangster movie.

Da un autore bestseller giornalista del New York Times
Un’indagine inedita che fa tremare gli Stati Uniti

«Combinando la profondità dell’analisi storica con lo spirito del miglior giornalismo investigativo, Selwyn Raab riesce nell’ambiziosa impresa di trasformare i misteri delle grandi famiglie mafiose in un libro ottimamente scritto e accessibile a tutti.»
Publishers Weekly

«Un reportage scritto da un uomo che conosce bene la natura sanguinaria, brutale e corrotta della materia che tratta.»
60 Minutes

«Selwyn Raab è stato lì, nelle strade, nelle case di reclusione e nei tribunali, per raccontare la storia della mafia americana: nessuno, fino a ora, lo aveva mai fatto meglio.»
Village Voice
Selwyn Raab
giornalista investigativo per la televisione e la carta stampata, ha scritto di mafia per oltre venticinque anni sulle colonne del «New York Times». Più che semplice cronaca, gli articoli di Raab sono diventati prove nel corso di importanti processi. Raab è anche l’autore di Justice in the Back Room, da cui è stata tratta la celeberrima serie di Kojak, e il coautore del bestseller Mob Lawyer, che ha gettato nuova luce sul caso JFK. Vive a New York.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2015
ISBN9788854177253
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    Anteprima del libro

    Le famiglie che hanno creato la mafia - Selwyn Raab

    1

    Un santino infuocato

    «Se tradisco i miei amici e la nostra famiglia, io e la mia anima bruceremo all’inferno come questo santino». Mentre Tony Accetturo pronunciava questo solenne giuramento, la sacra immagine che stringeva in mano si consumò tra le fiamme. Un gruppo di uomini dalle facce di pietra annuirono e si misero in fila per abbracciarlo, baciarlo sulle guance e stringergli con vigore la mano, un gesto collettivo per esprimere solenni congratulazioni. Per Accetturo si trattava del momento più memorabile della sua vita. La cerimonia gli ardeva nell’anima; la sua più fervida aspirazione si era realizzata. Lo avevano ormai fatto diventare il membro più recente di una congrega esclusiva, segreta. Era un uomo arrivato nella mafia americana.

    Vent’anni di fedele servizio, dapprima come inflessibile esattore di un usuraio e in seguito come maggiore procacciatore di reddito per alcuni importanti malavitosi nel New Jersey, avevano reso frutti generosi per Accetturo. In precedenza, nel pomeriggio, quasi grazie a una felice intuizione aveva capito che quel giorno sarebbe stato significativo per lui. Aveva ricevuto ordine di incontrarsi con Joe Abate, un tipo che se ne stava appartato e ben di rado si incontrava faccia a faccia con i subalterni, anche se le redditizie estorsioni, il gioco d’azzardo e il racket dell’usura lo arricchivano. Abate, un sagace capo in una borgata o brugard, il gergo della mafia per definire le bande del crimine è tratto dal termine siciliano che indica una comunità compatta o un piccolo villaggio, sovrintendeva a tutte le operazioni della famiglia Lucchese nel New Jersey.

    Abate stava aspettando Accetturo in un punto prestabilito nel trafficato capolinea degli autobus di Port Authority al centro di Manhattan. In qualità di capo o capitano, Abate aveva alle sue dipendenze più di un centinaio di gangster, i quali raccoglievano illegalmente milioni di dollari ogni anno per se stessi e, come una decima, inviavano una parte dei guadagni all’amministrazione, la famiglia Lucchese, i capintesta sull’altra riva del fiume Hudson, a New York. Pur avendo superato i settantacinque anni, Abate non aveva affatto l’aspetto del pensionato. Alto, snello, dritto quasi come un fuso, impettito, salutò Accetturo con una frettolosa stretta di mano e si avviò spedito allontanandosi dal terminal degli autobus.

    In quel pomeriggio di giugno del 1976, ci fu un conciso dialogo mentre Accetturo, di quasi quarant’anni più giovane del capo, affrettava il passo per tener dietro al vecchietto pieno di energia. Accetturo, un uomo robusto, muscoloso, con un peso di novanta chili e una statura di poco più di un metro e settanta, sapeva bene, grazie a un precedente e spiacevole incontro con Abate, di non dover mai cercare di dare inizio a una conversazione spicciola con lui. Tra i mafiosi del New Jersey, Joe Abate costituiva una presenza temuta, un combattente veterano con una notevole aura. Era stato un pistolero per Al Capone a Chicago quando Capone era il gangster più noto nell’America degli anni Venti. E in presenza di Abate era più prudente rispondere alle sue domande direttamente ed eseguire i suoi ordini senza esitazioni.

    A diversi isolati dal terminal degli autobus, in una fabbrica di abbigliamento nel Garment Center di Manhattan, Abate presentò Accetturo a un uomo dal volto arcigno che li avrebbe accompagnati in un altro luogo. Si trattava di Andimo Tom Pappadio, un importante soldato incaricato di occuparsi del vasto racket delle estorsioni, delle scommesse e dell’usura nel Garment Center. Come la breve camminata nel Garment District, i trenta minuti di viaggio in macchina furono silenziosi fin quando i due non si fermarono davanti a una casa dalla semplice struttura. Poco pratico della maggior parte di New York, Accetturo ritenne che si trovassero nel Bronx, il quartiere a nord di Manhattan.

    In un tetro salottino, c’erano diversi sconosciuti ad aspettare Accetturo e uno di loro si presentò come Tony Corallo. Accetturo sapeva che nel pianeta circoscritto della mafia, quell’uomo accigliato, basso di statura, robusto e sulla sessantina era ampiamente noto con un altro nome, Ducks. E con perspicacia comprese cosa significava quel nome. Antonio Corallo, il cui soprannome traeva origine da una vita intera trascorsa a evitare arresti e citazioni in giudizio, era il boss dell’intera famiglia Lucchese. Il gruppetto di uomini si trovava riunito in quel salottino per un motivo: una cerimonia segreta che avrebbe trasformato Accetturo in un uomo d’onore, un uomo arrivato in piena regola.

    Tony Accetturo era consapevole che i libri, gli elenchi dei membri delle cinque famiglie della mafia di New York, erano rimasti chiusi per vent’anni. Di recente, correvano con insistenza voci che finalmente le liste sarebbero state riaperte per le persone che lo meritavano. Accetturo si era tormentato circa il proprio futuro, ansioso di arrivare al termine del suo lungo apprendistato grazie al quale gli sarebbe stata concessa la bramata appartenenza in qualità di soldato.

    «Farsi le ossa», l’eufemismo della mafia per superare l’esame di accesso, richiede la partecipazione a un crimine violento – spesso un assassinio – o il diventare una notevole fonte di reddito per la famiglia. Accetturo era consapevole di essersi fatto le ossa con un alto punteggio in entrambe le categorie di tali attività.

    Gli erano giunti all’orecchio gli accenni degli anziani sul rituale di investitura. Aveva una vaga idea che la cosa coinvolgesse formule basate su antiche professioni di lealtà, un giuramento su una pistola, un coltello, l’immagine di un santo e poi una convalida basata su spargimenti di sangue mediante un taglio sul dito che preme il grilletto. Eppure quando la cerimonia ebbe termine, Accetturo rimase sorpreso e leggermente deluso dalla sua brevità.

    Senza preamboli, Ducks si alzò dalla sedia nel salottino e disse: «Incominciamo», e poi in tono brusco comunicò ad Accetturo di essere il boss della famiglia. Gli consegnò l’immagine di un santo su un foglio di carta quadrato, invitandolo a darle fuoco con un fiammifero e a ripetere il giuramento che Corallo recitò in tono cupo: «Se tradirò i miei amici e la nostra famiglia, io e la mia anima bruceremo all’inferno come questo santino».

    Nonostante il carattere precipitoso e informale del rito, Accetturo sentiva splendere dentro di sé l’entusiasmo per quello che significava. «Scoppiavo di eccitazione. Era il più grande onore della mia vita. Mi avevano separato dalla gente comune. Appartenevo a una società segreta nella quale ambivo a essere accolto sin da quando ero un ragazzo, dal tempo della mia adolescenza».

    Subito dopo, tornando al suo rifugio nel New Jersey, Accetturo apprese da altri uomini arrivati più anziani di lui, i quali potevano ormai parlare apertamente al suo cospetto, visto che aveva ottenuto l’ambita appartenenza, il motivo della sbrigativa iniziazione. Abate e altri capi nella famiglia Lucchese avevano un’opinione così alta dei suoi risultati e del suo modo di comportarsi che il cerimoniale impiegato allo scopo di imprimerlo nella mente dei comuni novizi era stato giudicato inutile. Lui conosceva già le regole fondamentali ed era considerato di gran lunga superiore e meglio informato sul codice di comportamento della mafia rispetto alla maggior parte delle nuove reclute. Era indubbio che sarebbe stato idoneo per tutta la vita.

    Nei due decenni successivi, Accetturo sarebbe stato testimone di persona, oltre ad apprenderlo dai suoi amici fidati della mala, di come una investitura più tipica venisse messa in atto dalla mafia americana nel tardo ventesimo secolo e nei primi anni del ventunesimo. Il rituale, configurato sulle pratiche segrete con un sottofondo religioso nate in Sicilia addirittura nel diciannovesimo secolo, era inteso per segnare il passaggio vitale da aspirante velleitario, un associato alla famiglia del crimine, un semplice volonteroso privo di ogni prestigio, a un rango cui spettavano guadagni straordinari e obblighi altrettanto straordinari.

    Mentre la liturgia era grosso modo la stessa nel resto del paese, nella zona di New York, la capitale riconosciuta della mafia americana, una rigida formula aveva la prevalenza nelle cinque bande formatesi ormai da lungo tempo. Il candidato doveva essere sponsorizzato dal capo per il quale avrebbe lavorato e personalmente approvato dal leader più autorevole, il rappresentante della famiglia, il boss. La prova ultima era la presentazione dell’identità del soldato che veniva proposto ai leader delle altre quattro borgate per un controllo grazie al quale si sarebbe determinato se esistevano marchi d’infamia o informazioni negative a suo carico. Per mantenere le dimensioni prefissate e la forza delle famiglie, e per prevenire indebite espansioni, il probabile membro poteva soltanto essere aggiunto in sostituzione di un mafioso morto nella sua borgata.

    Per quanto potesse presumere che la sua investitura era prossima, la recluta non veniva mai specificamente messa al corrente di cosa fosse in programma o della data in cui sarebbe stato insediato, promosso. Con un breve preavviso, riceveva istruzioni perché si vestisse, cioè si mettesse in giacca e cravatta, per un imprecisato incarico. Membri già accettati prelevavano e scortavano l’iniziato al luogo dell’ordinazione. Mentre si spostavano in automobile verso la meta, un procedimento chiamato ripulitura o pulitura a secco, veniva spesso messo in pratica per evitare una possibile sorveglianza da parte delle forze di polizia. I passeggeri dovevano cambiare veicolo all’interno di garage pubblici. Si aggiravano inoltre senza meta per circa una mezz’ora e poi «svoltavano ad angolo retto», procedendo lentamente con improvvisi cambiamenti di rotta, o facendo inversioni di marcia per disorientare gli investigatori che potevano essere impegnati a pedinarli per una sorveglianza di routine.

    Le precauzioni straordinarie erano tese a nascondere a occhi indiscreti il luogo dell’incontro, soprattutto perché il boss della famiglia e altri leader di alto rango sarebbero stati là in attesa, e proteggerli dagli informatori della polizia era un fattore di capitale importanza.

    Diversamente dalla cerimonia celebrata per Accetturo, molte delle investiture venivano officiate da Ducks Corallo con grande pompa e formalità. «Sai perché ti trovi qui?», era solito domandare all’inizio, e ci si aspettava che il candidato rispondesse falsamente: «No». Questa farsa veniva messa in atto perché l’investitura, si presumeva, doveva essere un segreto gelosamente custodito per impedire agli investigatori della polizia e agli estranei di scoprire l’identità dei leader della famiglia e dei suoi membri.

    Continuando con il rituale, Ducks spiegava: «Stai per entrare a far parte di questa famiglia. Hai qualche obiezione a questo proposito?».

    Un altro dei membri raggruppati intorno alla tavola cerimoniale si sarebbe quindi servito di un ago, un coltello o una spilla di sicurezza per pungere il dito indice della mano destra del novizio, quello che aziona il grilletto, facendo sgocciolare il sangue sull’immagine di un santo. Mentre il candidato lo reggeva a braccio teso, al santino veniva avvicinato un fiammifero, e Ducks invitava il nuovo membro a ripetere: «Possa bruciare, possa la mia anima bruciare come questo santino se tradirò chiunque in questa famiglia o chiunque in questa stanza».

    Dopo aver sparso le ceneri dell’immagine sacra, Corallo o uno dei suoi luogotenenti ammoniva il nuovo arrivato che per il futuro i bisogni della borgata – compreso il compiere assassinii – venivano prima di ogni altro obbligo nella sua vita. L’iniziato non aveva più il dovere di essere devoto a Dio, al paese, alla moglie, ai figli o ai parenti prossimi, ma soltanto alla famiglia del crimine. Le decisioni da parte del boss, che governava come il padre della famiglia, dovevano essere obbedite all’istante, anche se questo voleva dire trascurare un bambino in fin di vita.

    Alla cerimonia celebrata per Tommy Ricciardi, vecchio amico di Accetturo, Ducks e i suoi accoliti avevano enumerato con cura le inviolabili regole e i protocolli da rispettare. Il principio fondamentale era l’omertà, il codice del silenzio che vieta la minima cooperazione con le forze dell’ordine, o cosa ancora più malaugurata, l’informazione, il tradimento a danno di qualsiasi appartenente alla malavita.

    Un nuovo picciotto, o soldato, restava sotto il diretto controllo del capo che ne raccomandava l’appartenenza. Tutte le attività illegali nelle quali fosse coinvolto il soldato e addirittura le sue attività legittime erano documentate o registrate presso la famiglia per il tramite del capo, così che l’organizzazione potesse trarre profitto da tali attività e le utilizzasse per progettare delitti e affari. Il guadagno ricavato da iniziative legali o illegali veniva condiviso con il capo del soldato; una percentuale, che dipendeva dagli umori del boss, gli veniva concessa come segno di rispetto ed era impiegata anche per i bisogni della borgata e per le spese generali.

    Nelle questioni d’affari o sociali, soltanto uno degli uomini arrivati della famiglia Lucchese e di altre borgate poteva essere presentato ad altri mafiosi come un amico nostro. Ad altri associati o a persone che lavoravano con la malavita ci si riferiva semplicemente definendolo un amico o a il mio amico, come segnale cautelativo del fatto che il terzo uomo non era uno degli arrivati e nessuno dei segreti della mafia sarebbe stato discusso in sua presenza.

    E la terribile parola mafia veniva bandita dal vocabolario del gruppo. Il suo uso, anche nelle conversazioni private, era vietato perché poteva essere considerato una prova incriminante ai processi se veniva captato dagli investigatori per mezzo di intercettazioni elettroniche. Invece, se si rendeva necessario accennare al nome dell’organizzazione, si faceva ricorso al termine più innocente di Cosa Nostra o delle sue iniziali, CN.

    A prescindere da quanto la recluta conosceva già al momento dell’iniziazione, veniva formalmente informata della composizione e dei poteri della gerarchia familiare. Al summit, il boss esponeva le azioni politiche relative ai crimini e ai racket in cui la famiglia si sarebbe impegnata ed elencava quali capi e leader di alto rango avrebbe nominato e rimosso.

    Come un imperatore romano, la più terrificante autorità arbitraria del boss era quella di decidere chi doveva vivere e chi morire. L’assassinio nell’ambito della famiglia per motivi interni o l’eliminazione di chiunque al di fuori della borgata poteva essere sanzionata soltanto da lui.

    Di solito alle cerimonie di investitura erano presenti i viceboss, i vice-comandanti, i quali fungevano da assistenti nella gestione degli affari quotidiani della famiglia, e il consigliere, che forniva suggerimenti in merito agli affari della famiglia stessa o sui rapporti e le divergenze con altri gruppi della mafia.

    Alle investiture dei Lucchese, venivano rivelate al nuovo soldato le identità dei boss delle altre quattro grandi famiglie di mafia di New York (Genovese, Gambino, Bonanno e Colombo) e di un’altra minore (DeCavalcante) con base nel New Jersey. Queste informazioni confidenziali giungevano accompagnate dall’ammonizione che qualora si incontrasse un altro boss gli si doveva accordare il massimo rispetto.

    Per finire, numerose famiglie di New York concludevano la cerimonia con una ticada, termine dialettale che sta per vincolo o imbastitura. Per dimostrare la solidarietà interna della loro organizzazione segreta, tutti coloro che erano testimoni della cerimonia e il nuovo membro si afferravano le mani per unirsi in quello che il boss dichiarava essere «l’inestricabile nodo della fratellanza».

    Il grande giorno per Alfonso D’Arco, della famiglia Lucchese, fu il 23 agosto del 1982. Il suo capo lo avvertì: «Vestiti, stai per andare da qualche parte», e poi lo andò a prendere all’angolo di una strada della zona di Little Italy a Manhattan. Come Tony Accetturo, D’Arco venne accompagnato in una modesta abitazione nel Bronx. Nel salotto si trovavano altri quattro candidati, in attesa di essere convocati in un’altra stanza, una cucina. Quando venne il suo turno, D’Arco fu presentato a Ducks Corallo e ad altri membri dell’amministrazione seduti intorno a un tavolo.

    «Sai perché ti trovi qui?», domandò a D’Arco uno degli uomini, e lui doverosamente rispose: «No».

    «Stai per entrare a far parte di questa famiglia», continuò l’uomo. «Se ti verrà chiesto di uccidere qualcuno, sei disposto a farlo?».

    D’Arco assentì con un cenno del capo e poi il dito indice della mano destra gli venne punto e l’immagine del santo fu bruciata. Uno degli uomini presenti intorno al tavolo spostò il tovagliolo sotto il quale si trovavano una pistola e un coltello. «Sopravvivi grazie alla pistola e al coltello e muori per mezzo della pistola e del coltello se tradisci chiunque si trovi in questa stanza», continuò l’uomo in tono tetro. Per finire, D’Arco ripeté la versione mafiosa del sacro giuramento: «Se tradisco i miei amici e la mia famiglia, possa la mia anima bruciare all’inferno come questo santino».

    In seguito, quando la cerimonia fu completata per tutte le reclute, Ducks Corallo si alzò in piedi e chiese ai presenti di mettere in atto l’attaccata, di unirsi tenendosi per mano. «I fatti di questa famiglia sono aperti», annunciò Corallo, intendendo dire che gli affari della famiglia potevano adesso essere conosciuti dai presenti. Impartì quindi le istruzioni ai nuovi soldati circa i princìpi fondamentali, precetti che si incisero nella memoria di D’Arco.

    Ci venne detto di non trafficare con i narcotici, con il denaro falso o con le merci e le azioni rubate, per rispettare le famiglie o i membri delle stesse oltre a evitare di fare gli stupidi con le mogli o le figlie di questi ultimi. Se dovessero sorgere controversie che non riuscite a risolvere tra voi, ci dissero, dovete rivolgervi al vostro capo. Non dovete alzare le mani sugli altri membri della famiglia. Vi dovete comportare con dignità in tutte le circostanze. Quando il capo vi convoca, non importa se di notte o di giorno, dovere rispondere senza esitazione. Questa famiglia viene prima della vostra stessa famiglia. Soprattutto, non dovete discutere niente di questa famiglia con i membri di altre famiglie. Se non vi adeguerete a queste regole, sarete uccisi.

    Corallo impose un’altra norma inderogabile: la polizia e gli esponenti e rappresentanti degli altri organismi della legge non potevano mai essere fatti fuori, uccisi.

    «Non si dovrà mai parlare di qualsiasi cosa sia accaduta qui stasera», li avvertì Corallo. Ordinando di nuovo ai presenti di fare l’attaccata, terminò in italiano: «I fatti di questa famiglia sono chiusi», per dire che gli affari di famiglia si erano conclusi.

    Gli eventi del pomeriggio ebbero termine con una nota di sobrietà, in assenza di alcolici ci furono solo caffè, semplici stuzzichini e paste offerti dall’ospite prima che i vecchi appartenenti e i mafiosi di fresca nomina si disperdessero in piccoli gruppi.

    D’Arco sarebbe venuto a sapere in seguito che Corallo bandiva i coinvolgimenti con la droga, la contraffazione e il furto di azioni perché si trattava di reati federali e comportavano pesanti pene detentive. Corallo, come molti altri leader della malavita, aveva buone ragioni per evitare di colpire gli appartenenti alle forze dell’ordine.

    Assassinare un agente, un investigatore o un pubblico ministero avrebbe scatenato la furia della legge contro la malavita, aumentando i rischi delle attività consuete. La regola aveva inoltre l’ulteriore scopo di mantenere una stretta disciplina e di impedire iniziative avventate e non autorizzate messe in atto da bande di facinorosi.

    Il giorno successivo alla cerimonia di iniziazione, D’Arco fu l’ospite d’onore a una cena intima con altri componenti della squadra, organizzata dal suo capo. Si trattava di un’occasione per un incontro su un piano di parità tra lui e i venti membri e più del suo gruppo. I nuovi compagni di D’Arco gli spiegarono ridendo che cosa gli sarebbe capitato se avesse rifiutato di entrare a far parte della borgata alla cerimonia celebrata nel Bronx: sarebbe stato ucciso su due piedi. Il suo rifiuto sarebbe stata la prova che era un agente o un informatore intenzionato a infiltrarsi nella famiglia.

    Nei primi giorni della sua militanza, apprese ulteriori usi e regole di Cosa Nostra da soldati di più vecchia nomina. Talune particolarità comportamentali erano strane, in particolare quelle riguardanti la cura della persona e il guardaroba. I leader della malavita di New York si accigliavano davanti a soldati con i baffi o vestiti con qualcosa di rosso. I baffi venivano considerati un’ostentazione e il rosso era visto come troppo chiassoso dalle gerarchie fautrici di un abbigliamento tradizionale. Inesplicabilmente, alcuni pezzi grossi della malavita erano inoltre convinti che gli indumenti rossi fossero preferiti dagli infami, dalle spie.

    Sebbene rimanessero soggetti al dominio di un capo e del leader dell’amministrazione, i soldati leali e ambiziosi come Al D’Arco e Tony Accetturo disponevano di enormi benefici potenziali. Un uomo arrivato godeva automaticamente di rispetto, prestigio e di opportunità di far soldi. In confronto a chi si trovava agli inizi, era autorizzato a pretendere una quota più cospicua del bottino derivato dalle attività criminali di quanto potesse esigere in qualità di aspirante velleitario o associato, di semplice fiancheggiatore della famiglia. E il nuovo arrivato aveva acquisito il diritto a una percentuale dei profitti generati dagli altri racket gestiti dalla famiglia.

    Un altro vantaggio era l’autorizzazione a organizzare i propri aspiranti in attività illegali e a sfruttarne i proventi. La maggior parte degli associati aspirava a diventare un uomo arrivato, ma soltanto quelli di origine siciliana o italiana potevano ambire a tale onore. A un certo punto, quasi tutte le famiglie avevano investito solo uomini che erano figli di genitori italiani. In ultimo, il requisito era diventato meno restrittivo: se almeno il padre aveva origini italiane, l’aspirante era ritenuto accettabile. Senza tenere conto del suo valore per la borgata, un associato che non avesse ascendenze italiane – anche se operava come picchiatore e sicario, o era un forte procacciatore di guadagni – non avrebbe mai potuto assicurarsi l’ammissione. I non italiani potevano godere di grande rispetto ma non sarebbero mai stati riconosciuti pari neppure al mafioso di rango più infimo.

    Cosa altrettanto importante, finché come soldato si uniformava al codice di comportamento della mafia, un individuo poteva disporre delle risorse finanziarie e legali della famiglia. Se incappava in un guaio e veniva arrestato, la famiglia pagava per offrirgli l’assistenza di costosi avvocati di talento. Se un uomo arrivato finiva in carcere, ci si aspettava che l’amministrazione della famiglia, della borgata o il suo capo provvedessero alla moglie e ai figli.

    Per la lealtà e i servigi resi alla famiglia in un ambiente violento e pericoloso esisteva ancora un altro privilegio di importanza vitale: un’assicurazione sulla vita. Si sarebbe potuto uccidere un uomo arrivato soltanto per ordine del suo boss e soltanto per una grave infrazione di una norma della mafia. Gli estranei che operavano per una borgata o che si trovavano coinvolti in affari con mafiosi, non disponevano di una simile protezione. Potevano essere ammazzati o menomati a discrezione di un uomo arrivato qualora tra i due sorgesse una disputa. Un soldato aveva inoltre un’ulteriore certezza: altri delinquenti che sospettassero o fossero consapevoli delle sue connessioni, si sarebbero sentiti intimoriti e avrebbero evitato di insultarlo o di arrecargli danni fisici; il potere letale di mettere in atto ritorsioni proprio dell’organizzazione era ben noto nella malavita.

    Entrare a far parte della mafia alla metà e verso la fine del ventesimo secolo era difficile e rischioso, ma non c’era carenza di aspiranti; e per le reclute quali Tony Accetturo, la piena appartenenza splendeva come un premio capace di accordare eccezionali vantaggi finanziari.

    2

    Il racconto di Tumac

    La fedeltà di Antonio Accetturo al codice d’onore della mafia costituiva un passaporto verso la gloria e il rispetto nella malavita. In ultimo lo portò a ricoprire un rango elevato nelle più alte gerarchie del crimine e fece di lui un multimilionario.

    Gli inizi della sua vita, però, non lasciavano presagire il successo in nessun campo. Figlio di genitori siciliani immigrati, Accetturo, insieme ai cinque fratelli, crebbe negli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta a Orange, un misero sobborgo operaio di Newark, nel New Jersey. Suo padre, Angelo, macellaio e proprietario dell’Accetturo Meat Market, tentò senza successo di interessare Tony alla propria attività commerciale legittima. Il ragazzo preferiva perfezionare i propri talenti nelle sale da biliardo.

    La scuola non lo interessava: dopo le elementari cominciò a marinare sistematicamente le lezioni, e i genitori, inclini ad attribuire uno scarso valore all’educazione tradizionale, gli consentirono di lasciare gli studi in anticipo a sedici anni. Superata a malapena l’adolescenza, il ragazzo venne mandato a vivere presso dei parenti a Newark, dove diventò un temibile attaccabrighe in una banda di strada composta da cinquanta o sessanta giovani teppisti italo-americani. Appena sedicenne, consacrò la propria reputazione quando colpì con una gruccia un avversario fino a fargli perdere i sensi, guadagnandosi il soprannome di Tumac. L’appellativo, derivante dal rozzo eroe cavernicolo interpretato da Victor Mature in un film del 1940, Sul sentiero dei mostri, deliziò il giovane Accetturo, che adottò il nomignolo per tutta la vita.

    Se non si azzuffava, Accetturo si manteneva con larghezza di mezzi scassinando jukebox e distributori automatici di sigarette per impadronirsi degli spiccioli. Questo scatenò una ondata di piccola criminalità che infastidì i commercianti del vicinato e, cosa più importante, disturbò un pezzo grosso della zona, Anthony Schiappa Delasco. Ex pugile professionista, Delasco convocò il giovane per impartirgli una ramanzina. Dalle voci che correvano nelle strade e dalle personali osservazioni sul profondo rispetto accordato a Delasco nel vicinato, Accetturo si rese conto di essersi imbattuto in un vero e proprio uomo arrivato. «Quelle macchine mi appartengono», disse minaccioso Delasco. «Voglio che queste cazzate abbiano fine».

    Delasco vide delle potenzialità in quell’aggressivo diciassettenne e gli offrì un lavoro a settantacinque dollari alla settimana. Il giovane aveva il compito di prestare assistenza alla gestione dei numeri di Delasco, una sorta di lotteria illegale, e di servirsi dei suoi muscoli per raccogliere crediti e pagamenti in operazioni di strozzinaggio degne di Shylock.

    Accetturo si affrettò ad aderire alla proposta di Delasco, e l’astuto delinquente ben presto ebbe la meglio sull’inclinazione all’indipendenza del proprio accolito impartendogli una elementare lezione di mafia. «Vammi a prendere un gelato», ordinò un giorno ad Accetturo mentre il giovane si trovava all’angolo di una via insieme a un gruppo di amici in adorazione. Accetturo, con grande imbarazzo si rese conto dell’umiliazione di comportarsi come un fattorino di fronte ai compagni. Ma avendo capito che Delasco stava mettendo alla prova la sua obbedienza, prese il gelato al suo boss.

    «Capii che se volevo stare con Schiappa e imparare da lui, dovevo consentirgli di avere un assoluto controllo su di me», spiegò Accetturo. «Doveva domarmi, e io accettai di farmi mettere il morso».

    Accetturo divenne l’allievo prediletto di Delasco e, in seguito, degli altri mafiosi che lo sostituirono dopo la sua morte. Il solo passo falso di Tumac in qualità di aspirante si verificò quando consegnò un pacco pieno di contanti a Joe Abate, il suo austero capo. Si trattava della quota mensile dei profitti inviati al boss dal ramo della famiglia Lucchese di Newark. Joe sedeva solo in una macchina parcheggiata in attesa del versamento.

    Smanioso di ingraziarsi Abate, che aveva già conosciuto in un’altra occasione, il giovane Accetturo dichiarò di sentirsi molto onorato di trovarsi in sua presenza. Abate gli ingiunse gelido di scendere dall’automobile e si allontanò a tutta velocità. Tre ore dopo, Accetturo venne violentemente redarguito da un malavitoso più anziano, Lenny Pizzolata, al quale Abate aveva telefonato.

    «Chi cazzo sei tu per azzardarti a intavolare una conversazione con Joe Abate?», latrò Pizzolata. «Se ci tieni a restare vivo, non menzionare mai il suo nome e parla solo quando sei interrogato».

    A parte questo unico errore, negli anni Cinquanta e Sessanta Accetturo progredì senza scosse nella borgata. Dimostrò platealmente il proprio valore nei tardi anni Sessanta, quando la popolazione afro-americana di Newark aumentò all’improvviso e i criminali di colore cominciarono a subentrare agli allibratori bianchi nel campo delle lotterie. Sostenuta da Accetturo e dalla sua banda di gorilla scelti e armati, la fazione della famiglia Lucchese mantenne le proprie posizioni nell’ambito del gioco d’azzardo. Funzionari dei servizi segreti della polizia stabilirono che Accetturo aveva vanificato i tentativi di incursioni nei territori di quella famiglia da parte di una banda di militanti delle Pantere Nere. Sebbene non fosse stata presentata nessuna accusa di omicidio, la polizia sospettava che il gruppo di Accetturo fosse responsabile di diversi assassinii commessi per mantenere il dominio della mafia.

    Nel 1979 il settantasettenne Abate stava rallentando l’attività per ritirarsi in una specie di pensionamento. Ducks Corallo non esitò a consacrare Accetturo come capo responsabile per il New Jersey, promovendo Tumac e lasciando indietro i soldati più anziani che erano stati i suoi tutori. Accetturo non tardò a dimostrare la propria abilità amministrativa. Ampliò i tradizionali ambiti del gioco d’azzardo, dello strozzinaggio e del traffico dei narcotici e cominciò a occuparsi a tempo perso della malavita organizzata in campo sindacale. Mediante tattiche di intimidazione, la banda del New Jersey ottenne il controllo di funzionari corrotti del sindacato, aprendo la strada al taglieggiamento dei fondi previdenziali dei dipendenti e minacciando le aziende con interruzioni del lavoro imposte dalla mafia e protratte finché non fossero stati effettuati i pagamenti.

    Il nuovo capo ampliò le operazioni della famiglia fino alla Florida, dove alimentò analoghe speculazioni criminali nella zona di Miami e, come attività collaterale, si occupò di truccare le corse dei cavalli. I successi di Accetturo gli consentirono di investire denaro e di entrare a far parte di società immobiliari apparentemente legittime, di compagnie di assicurazioni, di aziende specializzate nel noleggio di apparecchiature e di altre imprese nel New Jersey, nella Florida, nel North Carolina. Mantenne abitazioni in ciascuno dei tre Stati con il programma di ritirarsi nel North Carolina, dove intendeva atteggiarsi a rispettabile uomo d’affari.

    Il suo patrimonio crebbe fino a diventare così ingente da indurlo a vantarsi di aver messo da parte circa sette milioni di dollari in banconote da mille, pietre preziose, oro e monete rare come gruzzolo di emergenza conservato entro una cassaforte celata in una nicchia nascosta dietro il mobile di una stanza da bagno. Mentre le sue ricchezze crescevano, Accetturo prosperava nell’ombra, un mafioso relativamente oscuro, il cui nome e la cui importanza rimanevano ben poco note al di fuori di una manciata di esperti delle forze dell’ordine del New Jersey impegnati a lottare contro il crimine organizzato.

    Quando sorgevano sporadici problemi con la legge, Tumac poteva permettersi costosi avvocati di talento in grado di ottenergli sospensioni della pena o detenzioni della durata di pochi mesi anche per gravi reati. Disponeva del denaro e dei contatti necessari per riuscire a corrompere un giurato con centomila dollari, assicurandosi in tal modo il proscioglimento per sé e per venti membri della sua banda del New Jersey accusati di far parte della malavita organizzata. In un’altra occasione la sua scuderia di legali lo fece assolvere da un’accusa di intimidazione esercitata su un testimone di vitale importanza in un caso di aggressione. In Florida una spinosa incriminazione per associazione a delinquere venne risolta con il reperimento di psichiatri disposti a giudicarlo mentalmente inidoneo per affrontare un processo. La diagnosi di demenza presenile, di un precoce morbo di Alzheimer, fu una frode assoluta. «Sono scivolato nella doccia, ho battuto la testa e l’Alzheimer se n’è andato», disse agli amici, ridacchiando imperturbato.

    Per quasi quattro decenni, la mafia – Cosa Nostra – con i suoi sordidi affari, la violenza, gli assassinii offrì ad Accetturo un’esistenza gradita e apprezzata. Tumac considerava la vita nella mafia così ammirevole e degna da renderlo disposto ad accettare uno dei suoi due figli nella congrega come uomo arrivato, dandogli lui stesso il benvenuto nella banda.

    Conservava scolpito nella memoria il giorno in cui aveva retto nelle mani la fiammeggiante immagine di un santo, giurando eterna fedeltà alla borgata che lo aveva accolto. Perfino prima dell’investitura aveva compreso come la più imperdonabile trasgressione che un uomo arrivato poteva commettere era quella di violare l’omertà, il codice del silenzio. Di solito la pena per la delazione era una pallottola nella nuca dell’apostata, e Accetturo non dubitò mai che tali esecuzioni fossero meritate.

    Ma dopo una intera vita di lealtà, Tumac, capo temuto e famoso, quintessenza del successo della mafia, rinunciò all’omertà e agli altri princìpi per i quali viveva un tempo. Divenne un traditore. Svelò i segreti delittuosi di decenni di intrighi a pubblici ministeri e investigatori. Le sue parole misero allo scoperto decine di malavitosi che lo avevano seguìto e obbedito considerandolo il loro fidato comandante. Inoltre, la sua defezione fu il simbolo di un malessere senza precedenti che affliggeva Cosa Nostra. L’omertà e tutte le regole che per settant’anni avevano fatto scudo ad Accetturo e agli altri che si autodefinivano Uomini d’Onore venivano scardinate da implacabili forze esterne e interne.

    Agli albori del ventunesimo secolo, Cosa Nostra si trovava in pericolo come mai in precedenza. Nel corso del Novecento la mafia aveva forgiato un’organizzazione criminale unica e quasi inattaccabile in America. E gran parte del suo spaventoso potere era nato da un arcano retaggio trasportato nell’America urbanizzata dalla provinciale Sicilia.

    3

    Le origini

    Per secoli la Sicilia è stata considerata dai viaggiatori occasionali una terra incantata, uno dei luoghi più piacevoli del mondo in cui vivere. Era confortante lasciarsi sedurre dalla popolazione straordinariamente gentile, dal tempo soleggiato, dalle incantevoli palme e dalla delicata fragranza della fioritura degli alberi di arancio e di limone.

    Ma queste impressioni inebrianti sono in larga misura un miraggio. Per più di duemila anni la maggior parte della popolazione siciliana ha sopportato tirannie e repressioni sotto il dominio di conquistatori stranieri e signori feudali. Dai tempi più antichi fino alla metà del diciannovesimo secolo i quasi ventiseimila chilometri quadrati dell’isola sono stati razziati, invasi e addirittura venduti – per la precisione scambiati con altri territori – da governanti stranieri. La posizione strategica e vulnerabile della Sicilia, quasi al centro del Mar Mediterraneo, vicina all’Italia meridionale e al Nord Africa, l’ha assoggettata a una sequela infinita di occupazioni e di oppressioni da parte di fenici, greci, etruschi, cartaginesi, romani, bizantini, normanni, arabi, francesi, spagnoli, austriaci, e in ultimo di eserciti italiani ostili.

    I siciliani sono sopravvissuti a queste invasioni sviluppando una cultura radicata in due concetti fondamentali: disprezzo e sospetto verso le autorità governative; e fedeli alleanze con parenti di sangue e conterranei costretti ad affrontare gli stessi rischi.

    Analizzando la mentalità chiusa di un gran numero di siciliani dal punto di vista del ventesimo secolo, nel suo libro Gli Italiani, Luigi Barzini osservava: «Essi imparano sin dalla culla, o vengono al mondo sapendolo già, che debbono aiutarsi a vicenda, schierarsi con gli amici e combattere i nemici comuni, anche quando gli amici hanno torto e i nemici ragione; ognuno deve difendere la propria personale dignità a tutti i costi e non consentire mai che il minimo insulto o la minima offesa rimangano non vendicati; tutti devono mantenere i segreti e naturalmente diffidare delle autorità ufficiali e di tutte le leggi salvo quelle naturali».

    Con il passare del tempo questi princìpi storici e culturali generarono clan clandestini, chiamati dai siciliani cosche, finalizzati all’autodifesa contro oppressori percepiti come corrotti. Privi della sicurezza di affidabili istituzioni pubbliche in grado di proteggere i cittadini e le loro proprietà, i clan, che si trovavano per lo più in campagna, si affidarono alla segretezza, al compromesso e alla vendetta per ottenere una giustizia privata.

    Con il tempo, le cosche segrete vennero comunemente etichettate in Sicilia con un unico nome: mafia. Nel corso di centinaia di anni subirono un’evoluzione: da gruppi per l’autodifesa disorganizzati, tipo guerriglia, si trasformarono in bande avide, terrificanti, i cui concetti fondamentali e i cui princìpi guida avrebbero esercitato una profonda influenza, su territori lontanissimi al di là del mare, in America.

    Come per gran parte delle radici della mafia siciliana, l’origine del nome si ammanta di folklore e di misticismo. Una leggenda romantica sostiene che si tratti di una sigla nata nel tardo tredicesimo secolo nel corso dell’insurrezione contro le forze francesi degli Angioini a Palermo. Stando a questo racconto, una donna siciliana morì nel tentativo di opporsi a uno stupro da parte di un soldato francese e, per vendicarsi, il suo fidanzato sgozzò l’aggressore. L’episodio immaginario si suppone abbia portato alla creazione di uno slogan acronimico formato dalle iniziali di ogni parola: Morte alla Francia Italia anela. La rivolta del 1282 contro l’occupazione dell’esercito francese ebbe il nome di Vespri Siciliani, perché il segnale della resistenza furono i rintocchi delle campane della chiesa per la funzione della sera.

    Un’etimologia meno romantica e più probabile della parola mafia fa derivare il termine da un’espressione dialettale mista di arabo e siciliano che significa comportarsi come un protettore contro l’arroganza del potere. Fino al diciannovesimo secolo, l’appellativo mafioso, cioè membro della mafia, aveva ampia diffusione in Sicilia come l’aggettivo per indicare un uomo risoluto incline a una congenita sfiducia nei confronti dell’autorità costituita, ma non un criminale.

    «Un mafioso non si rivolge allo stato o alla legge per le sue controversie private, ma si fa rispettare e si assicura la tranquillità conquistandosi una reputazione di violento e di duro, e sistemando le divergenze con la forza», osserva lo storico inglese Eric J. Hobsbawn. «Non riconosce obblighi tranne quelli imposti dal codice d’onore o dall’omertà, il cui primo articolo vieta di fornire informazioni alle autorità pubbliche».

    Per un siciliano del diciannovesimo secolo con una eredità culturale di secoli di ingiustizie e di oppressioni, la vera virilità si diceva consistesse in una arrogante indipendenza in cui un uomo manteneva il silenzio di fronte a un delitto. Il siciliano si riserva il diritto di una vendetta personale per offese inflitte a lui stesso e i suoi parenti.

    I clan della mafia non hanno mai fatto riferimento a un’autorità unica, centralizzata e riconosciuta in tutta l’isola. Sono sorti come bande locali organizzate soprattutto per proteggere interessi specifici della loro zona da aggressori stranieri e intrusi di altre zone della Sicilia. Fino alla metà del diciannovesimo secolo, i mafiosi venivano dipinti da qualche scrittore come partigiani patriottici che avevano difeso e sostenuto le venerate tradizioni dell’isola. I clan erano chiamati anche famiglie, con un capo al quale ci si riferiva con il termine di padrino, o capofamiglia, un autocrate che fungeva da arbitro nelle dispute e nelle controversie del suo gruppo allargato.

    Nel 1860 Giuseppe Garibaldi sbarcò in Sicilia con un migliaio di combattenti detti Camicie Rosse per la divisa che li caratterizzava. Aiutato dal sostegno popolare degli isolani, Garibaldi sconfisse senza difficoltà le truppe del Re delle due Sicilie, e l’ultimo monarca spagnolo e Borbone venne deposto.

    Tra i ribelli che si unirono all’esercito di Garibaldi e seguirono il suo appello per la giustizia sociale ci furono circa duemila rozzi agricoltori giunti dalla campagna i quali, per sopravvivere, alternavano il lavoro dei campi al banditismo, rifugiandosi nelle caverne. A simbolizzare il rispetto con cui venivano considerati questi coloni a mezzo servizio, e briganti a tempo perso, furono glorificati da Garibaldi come le sue Squadre della mafia.

    Un anno dopo lo sbarco dell’Eroe dei due Mondi e la sua fulminea vittoria militare, la Sicilia, una regione grande all’incirca quanto il Vermont, venne annessa allo Stato italiano di nuova formazione. Nel 1863 in Sicilia fu allestito un lavoro teatrale intitolato I mafiosi della Vucciria, tradotto in inglese come Gli eroi del Penitenziario. Nel dramma erano valorosi patrioti detenuti e oppressi che mostravano la propria temerarietà fisica in duelli all’arma bianca. Il lavoro teatrale andò in scena in Sicilia e nel resto dell’Italia e le rappresentazioni furono determinanti nell’introdurre le parole mafia e mafiosi nella lingua di uso comune nella penisola. Un dizionario italiano del 1868 incluse la definizione mafia tra i termini privi di connotazione criminale, con il significato di spavalderia.

    Nel volgere di una decina di anni, comunque, lo smantellamento dei vecchi pilastri dell’autorità portò a un diffuso disordine e a una criminalità rampante nell’isola. Queste condizioni assicurarono fertili prospettive alle organizzatissime cosche della mafia, in grado di mobilitare piccoli eserciti privati. I mafiosi traevano vantaggio dal disordine e dai vuoti giudiziari e di governo, creando sottili forme di attività delinquenziali. In un periodo in cui l’ordine e la legalità lasciavano a desiderare, le cosche pretendevano sistematici pagamenti dai ricchi proprietari terrieri e dagli uomini d’affari se questi volevano salvaguardare le loro proprietà da atti di vandalismo e proteggere se stessi e i propri cari da rapimenti e richieste di riscatti.

    Stranamente, nel decennio tra il 1870 e il 1880, per ristabilire una parvenza di legge e di ordine, il nuovo governo nazionale arruolò i clan perché collaborassero alla cattura dei più violenti banditi al di fuori della mafia. Quei predoni nomadi stavano terrorizzando l’isola ed erano considerati come un fenomeno epidemico di criminalità che minacciava la sicurezza pubblica e la stabilità economica della Sicilia.

    Come compenso per l’aiuto fornito dalla mafia, il nascente governo di Roma si impegnò segretamente a consentire che le cosche continuassero senza interferenze, nel loro stile subdolo, a imporre pagamenti illegali e a godere del dominio economico di una parte della Sicilia. I funzionari di Roma, per la massima parte provenienti dal nord e dal centro Italia, non avevano familiarità con le sfumature della cultura siciliana e consideravano le trattative private come un compromesso vantaggioso. Con eccessiva fiducia, consideravano i leader della mafia di qualche utilità come intermediari transitori tra le autorità e la popolazione dell’isola, in grado di prestare il proprio aiuto nel mantenere l’ordine fin quando la giovane monarchia costituzionale non avesse acquistato la forza sufficiente per imporsi.

    L’accordo, comunque, lasciò ufficiosamente mano libera ai mafiosi e diede un nuovo impulso alle famiglie della mafia. I clan più forti si trovavano nella Sicilia nordoccidentale, vicino a Palermo; presero ad agire apertamente e con maggiore impudenza, senza la minima intenzione di rinunciare in futuro ai propri privilegi.

    L’unità d’Italia e il nuovo governo condussero allo smantellamento di molte proprietà terriere di origini feudali e all’adozione di misure a tutela della libera concorrenza. I gruppi mafiosi non si lasciarono sfuggire queste ulteriori opportunità. Con il debole governo centrale che distoglieva lo sguardo, i clan, in effetti, divennero un sostituto, al di fuori della legalità, del governo stesso, soprattutto nelle più remote zone rurali. Con la minaccia della violenza, le famiglie cominciarono a estorcere tangenti ai nuovi proprietari terrieri assenteisti perché questi avessero la certezza che le messi venissero raccolte. La mafia impose analoghi taglieggiamenti ai commercianti nei paesi e nelle città, garantendo di servirsi della propria influenza per evitare loro le vessazioni del governo, e soprattutto quelle degli esattori fiscali.

    La Chiesa Cattolica divenne una volonterosa collaboratrice di diverse cosche, facendo conto sugli affiliati per salvaguardare i suoi vasti possedimenti terrieri sull’isola e per soffocare le pretese dei contadini sulla terra o dei fattori sull’incremento degli emolumenti. Pieni di gratitudine per la protezione, i prelati evitavano di denunciare le tattiche violente dei mafiosi.

    Quando faceva comodo a un padrino del clan, questi poteva semplicemente autorizzare i propri seguaci ad acquistare a basso prezzo o a monopolizzare redditizie aziende che la famiglia ambiva a possedere. I mafiosi potevano anche atteggiarsi a benefattori, protettori e dispensatori di giustizia per i contadini indifesi e i piccoli commercianti, ma il loro scopo fondamentale era quello di arricchirsi.

    Qualsiasi assistenza venisse fornita da una famiglia della mafia alle persone che avevano divergenze in affari o in merito a proprietà terriere, comportava un prezzo. Prima o poi, a chi aveva ricevuto il favore poteva venire richiesto senza troppi complimenti di eseguire qualche compito... un do ut des che poteva essere legale o illegale... come compenso per l’aiuto fornito dalla famiglia.

    L’unità d’Italia fornì ai siciliani il diritto di eleggere rappresentanti nel parlamento nazionale e negli organismi amministrativi locali. Tale riforma democratica costituì un altro vantaggio per i clan. Tramite le intimidazioni e il controllo delle masse dei votanti, i mafiosi collaborarono all’elezione di numerosi politici, i quali, di conseguenza, vennero a trovarsi in debito e soggetti al loro controllo.

    Dopo l’unificazione del paese, in Sicilia l’immagine prevalente del tipico mafioso era quella di uno spietato prepotente armato di lupara, un fucile a canne mozze, appeso alla spalla, impaziente di far rispettare la giustizia nello stile della mafia.

    Nel tardo diciannovesimo secolo, le cosche più potenti cercarono di dare solidità al proprio potere e di resistere alla minaccia di sopraffazione da parte delle famiglie rivali adottando una pratica nuova: il rituale del vincolo di lealtà con il giuramento di sangue dell’omertà. Dopo aver ricevuto l’investitura, un nuovo membro si considerava entrato nei ranghi scelti dell’onorata società, e come Uomo d’Onore e Uomo di Rispetto poteva scherzosamente vantarsi: «Il Re d’Italia può regnare sull’isola, ma sono gli uomini della mia tradizione a governarla».

    L’ambivalenza di ossequio e timore ispirata da ciascun clan si compendia in quanto scrisse maldestramente alla svolta del secolo un autorevole studioso del folklore siciliano, il convinto nazionalista Giuseppe Pitré: «La mafia è la forza dell’individuo, l’intolleranza verso l’arroganza altrui. [...] Nella mafia l’idea della bellezza si unisce a quella della superiorità e del valore, nel miglior senso della parola, e talvolta vi emerge la maggiore consapevolezza di essere un uomo, l’infallibilità dell’anima e l’audacia, ma mai l’arroganza, mai l’alterigia».

    Il Risorgimento portò a una nuova forma di governo ma non alla prosperità per milioni di contadini senza terra e operai impoveriti nel meridione d’Italia e in Sicilia. La politica di aprire la porta all’immigrazione adottata dagli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo e agli inizi del ventesimo, fu un magnete per gli italiani, soprattutto per la popolazione rurale siciliana alla ricerca di una via di fuga dalle difficoltà sociali ed economiche della terra natia.

    Si calcola che tra il 1890 e il 1920 si siano stabiliti in America quattro milioni di immigrati italiani, tra cui i siciliani. La vasta maggioranza era costituita da artigiani, contadini e lavoratori non specializzati ma rispettosi delle leggi. Tuttavia, come ogni gruppo etnico numeroso, comprendeva anche criminali, uomini in fuga dalla legalità, a conoscenza delle tradizioni della mafia, e mafiosi di minor conto, in cerca di nuove opportunità o per sfuggire a una vendetta.

    All’epoca di questa ondata di immigrazione, nessuna delle cosche siciliane tentò di stabilire teste di ponte o succursali negli Stati Uniti. Dopo tutto non ce n’era nessun bisogno. In Sicilia, le famiglie della mafia erano composte da ricchi privilegiati, non da oppressi non abbienti. Non avevano motivo di abbandonare la propria invidiabile, confortevole condizione di vita per andare a rischiare l’avventura in una terra straniera.

    New Orleans fu uno dei primi scali per gli immigrati italiani. Giungevano su navi chiamate barche dei limoni per il loro carico di agrumi oltre che di passeggeri venuti dalla Sicilia e dall’Italia meridionale.

    Nella storia della mafia americana fu un caso se New Orleans divenne la Plymouth¹ Rock di Cosa Nostra, lo scenario in cui agirono i primi gangster siciliani e meridionali in America. Erano piccoli criminali che imitavano le tattiche della mafia originale, servendosi addirittura del nome della società segreta. In ultimo i loro discendenti e successori divennero l’autentica famiglia della mafia americana.

    Nel 1890, vivevano a New Orleans più di mille immigrati italiani e due violente bande lottavano per il controllo dell’attività di stivaggio nel porto. Quando la faida giunse al culmine, fu ucciso a colpi di pistola il capo della polizia, David Hennessey, sospettato di prendere tangenti da una delle fazioni. L’assassinio fece infuriare un folto gruppo di cittadini volontari che linciarono sedici italiani, molti dei quali erano stati accusati di complicità nell’omicidio del capo della polizia.

    Il gran giurì che investigò il delitto produsse la prima documentazione accertata del fatto che qualche forma di mafia era arrivata negli Stati Uniti, e mise in evidenza le difficoltà di stanare questa oscura entità. In un resoconto del 1891, il giurì dichiarò: «La portata delle nostre indagini ha individuato l’esistenza dell’organizzazione segreta denominata mafia. La prova giunge da diverse fonti del tutto affidabili, e mentre il fatto trova sostegno nell’ampia documentazione di raccapriccianti delitti, risulta quasi impossibile scoprire chi li ha perpetrati o assicurarsi dei testimoni».

    Sebbene New Orleans stia ad attestare il primo caso di infiltrazione mafiosa nel paese, erano le grandi città del nord est come New York, i luoghi dove gravitavano le grandi masse di immigrati siciliani e in generale italiani. Per di più, nei primi anni del Novecento, si affollarono da quelle parti vari imitatori dei mafiosi e altri prevaricatori. Questi malviventi depredavano i loro stessi conterranei impauriti, che si stavano adattando a una lingua diversa e a diverse abitudini e che guardavano con sospetto le autorità americane e i rappresentanti della legge.

    Nei primi tempi dell’immigrazione italiana, la polizia di New York e quella delle altre grandi città dell’est spesso confondeva la mafia con individui e bande che operavano sotto il nome de La Mano Nera. La Mano Nera non aveva rapporti diretti con la mafia e faceva riferimento a una spietata tecnica di estorsioni casuali impiegata da individui isolati e da piccole bande. Non si trattava di un’organizzazione. Gli estorsori solevano inviare lettere, soprattutto a uomini d’affari e a negozianti nei quartieri degli italiani, minacciandoli di spaventose ritorsioni o di morte se non avessero pagato riscatti per assicurarsi una duratura sicurezza. Per rendere più efficace l’intimidazione, su ogni lettera veniva stampato un simbolo terrificante: l’immagine di una mano nera, affiancata da un teschio e da un pugnale.

    Di fronte a una criminalità e a un tasso di omicidi in aumento tra gli italiani, nel 1883 il Dipartimento di Polizia di New York reclutò il primo funzionario di lingua italiana, Giuseppe Joe Petrosino. Nato nel sud dell’Italia, Petrosino era immigrato in America con i genitori all’età di tredici anni, e aveva lavorato come lustrascarpe e spazzino prima di entrare nelle forze dell’ordine. Petrosino, un uomo capace di imporsi, dalla solida struttura, era alto soltanto un metro e sessanta, e per accoglierlo nella polizia i funzionari furono costretti a non tener conto della misura minima in fatto di statura stabilita dal dipartimento.

    A differenza degli inefficienti investigatori e poliziotti di lingua inglese, incapaci di raccogliere notizie, per non parlare di risolvere delitti nei quartieri degli altri siciliani e degli italiani, Petrosino, indefesso lavoratore dotato dell’acume di chi conosce la strada, dimostrò il proprio valore con una retata di pericolosi sospetti. Nel 1895 Theodore Roosevelt, allora il più alto funzionario di polizia urbana della città, promosse Petrosino agente investigativo. Maestro nel travestimento e capace di parlare diversi dialetti italiani oltre al siciliano, con il suo lavoro contribuì a far condannare più di cinquecento delinquenti. I suoi successi gli guadagnarono il grado di tenente, e ogni volta in cui si verificava un grave crimine nel quale si trovavano coinvolti siciliani o in generale italiani, i comandanti erano soliti esclamare: «Mandate a chiamare il Guappo».

    Come molti ambiziosi ufficiali di polizia che rivestono ruoli pericolosi, Petrosino faceva conto su articoli elogiativi per progredire nella carriera e nei casi più clamorosi comunicava informazioni riservate ai giornalisti dei quotidiani circa imminenti arresti.

    Un esempio fu l’aiuto fornito al mitico tenore Enrico Caruso quando questi ricevette da parte della Mano Nera la richiesta di 5000 dollari, una somma principesca alla svolta del ventesimo secolo. Caruso aveva intenzione di pagare finché Petrosino non lo convinse che si sarebbe esposto a ulteriori e più ingenti richieste. Il detective organizzò una trappola e arrestò di persona l’uomo venuto a ritirare il denaro del cantante.

    Petrosino cercò di far capire ai pezzi grossi della polizia i motivi per cui i criminali italiani trovavano New York e le altre grandi città bersagli tanto tentatori. «Qui non esiste in pratica alcuna sorveglianza della polizia», riferì in una nota. «Qui è facile acquistare armi e dinamite. Qui non esistono sanzioni per chi si serve di un nome falso. Qui è facile nascondersi, grazie all’enorme estensione del territorio e alle città sovraffollate».

    Ne 1909, il consiglio di Petrosino fu ascoltato: il tenente venne messo a capo di un’unità composta da venticinque uomini, la Squadra Italiana, e il commissario di polizia Theodore Bingham lo inviò in missione segreta in Italia e in Sicilia. Una nuova legge americana permetteva l’estradizione di qualunque straniero riconosciuto colpevole di un delitto in un altro paese purché fosse vissuto in America per meno di tre anni. Con un lungo elenco di noti malfattori in mano, Petrosino sarebbe andato in cerca di prove del loro comportamento criminale in Italia per tornare con elementi tali da consentirgli di scacciarli dall’America.

    Sfortunatamente, mentre Petrosino era all’estero, Bingham, in cerca di pubblicità, rivelò la natura del suo incarico a un quotidiano di New York e la mafia in Sicilia fiutò l’arrivo sul posto dell’investigatore. I mafiosi siciliani, a quanto pare allarmati dal fatto che Petrosino avrebbe scavato nei loro precedenti e decisi a inviare un messaggio che doveva fungere da deterrente per altri potenziali investigatori americani, intercettarono il poliziotto a Palermo, nel suo primo giorno in città. Venne freddato in pieno giorno nell’affollata Piazza Marina, in piedi accanto alla statua di Garibaldi. A distanza ravvicinata, assassini professionisti lo colpirono due volte alla nuca e una al volto.

    Vito Cascio Ferro, un padrino della mafia, si dichiarò in seguito responsabile dell’assassinio. Don Vito aveva vissuto per breve tempo a New York e a quanto sembra era esasperato dalla diligente opera investigativa di Petrosino a carico dei criminali siciliani.

    Alle esequie di Petrosino a New York, 250.000 persone si allinearono lungo le strade rendendo un malinconico tributo al passaggio del corteo funebre. Per onorare l’eroe caduto, la città gli dedicò un minuscolo marciapiede nella parte bassa di Manhattan, con la scritta: Lieutenant Joseph Petrosino Square. Oggi, quello spoglio lastricato di cemento privo di panchine serve come spartitraffico e come isola per la sicurezza dei pedoni presso Little Italy, a un isolato dal vecchio quartier generale della polizia dove Petrosino ricevette le ultime fatali disposizioni dal commissario Bingham.

    Petrosino si aggiudicò la triste prerogativa di essere l’unico ufficiale di polizia di New York assassinato nel corso di una missione all’estero. I suoi uccisori non furono mai catturati. Decenni più tardi, verso la fine del ventesimo secolo, le famiglie della mafia di New York si trovavano ancora saldamente al loro posto, non meno agguerrite di quelle che le avevano precedute in Sicilia. Ironicamente, dall’altra parte della strada rispetto a Petrosino Square, negli anni Ottanta venne aperto il ristorante La Donna Rosa. Il suo proprietario era Alphonse D’Arco, all’epoca un malavitoso di alto rango. Bene in vista rispetto alla targa commemorativa della crociata contro la mafia combattuta dal tenente Petrosino, il ristorante era usato da D’Arco come un sicuro punto di ritrovo della famiglia del crimine organizzato Lucchese, per stabilire i piani degli assassinii e per progettare altri delitti.

    1. Plymouth è il luogo dove sbarcarono i Padri Pellegrini (n.d.t.).

    4

    La guerra dei castellammaresi

    Nel corso dei primi due decenni del ventesimo secolo, i criminali italiani immigrati a New York erano disordinate bande di strada o rapinatori, delinquenti individuali. Nel 1920 viveva a New York quasi un milione di immigrati venuti dalla penisola, soprattutto dalla Sicilia e dal Meridione. Costituivano circa il quindici per cento della popolazione urbana, ma si concentravano in tre distretti: Little Italy e East Harlem a Manhattan e Williamsburg a Brooklyn. Come altri gruppi etnici di malavitosi, i mafiosi appena arrivati e gli altri delinquenti italiani si limitavano per lo più a infierire sui loro compaesani. I malavitosi irlandesi portavano avanti attività analoghe nel West Side di Manhattan; il territorio riservato ai delinquenti ebraici era il basso East Side.

    Un terremoto politico e sociale – il proibizionismo – avrebbe rivoluzionato il crimine in America per gli italiani, gli ebrei e gli irlandesi che facevano parte del sottobosco della malavita. Al contempo si sarebbe verificato un altro sovvertimento – il trionfo del fascismo in Italia – e insieme i due eventi avrebbero alterato in maniera significativa il ruolo della mafia in America e l’avrebbero trasformata nell’organizzazione criminale preminente nella nazione.

    Il proibizionismo, espresso nel Diciottesimo Emendamento alla Costituzione entrò in vigore nel gennaio del 1920, rendendo la fabbricazione e la vendita delle bevande alcoliche un crimine federale. Lo storico Stephen Fox descrisse la legge come un «esperimento etnico di controllo sociale», un tentativo di preservare il carattere anglosassone della nazione e di proteggerlo dagli influssi delle culture straniere. I sostenitori del proibizionismo descrissero il divieto come una crociata per tutelare i presunti sani valori rurali dell’America contadina dalla decadenza delle grandi metropoli con la loro enorme popolazione straniera.

    In verità, negli immorali centri urbani, molti gangster italiani, ebrei e irlandesi si resero conto ben presto del significato della legge e delle ricche opportunità offerte da un nuovo tipo di infrazione della legalità: il contrabbando degli alcolici, ovvero il commercio clandestino di birra e liquori destinati a una clientela rispettosa della legge ma terribilmente assetata. Nottetempo negli appartamenti, nei capannoni, nei bagni dei negozi, vennero allestiti alambicchi o distillerie improvvisate detti fornelli per l’alcol in tutti i ghetti etnici di New York.

    Nello stesso periodo, in Sicilia, dopo un mezzo secolo di serena crescita, la mafia si trovò a un tratto sfidata. Il regime fascista di Benito Mussolini salì al governo in Italia agli inizi degli anni Venti e si affrettò a prendere iniziative per spazzare ogni opposizione all’assoluta supremazia della dittatura fascista. Mussolini, di origini settentrionali, era ben consapevole dell’influenza straordinaria della mafia in Sicilia e del suo disprezzo storico per tutti i governi nazionali di Roma.

    L’antagonismo di Mussolini nei confronti della mafia venne esacerbato dall’accoglienza gelida, offensiva riservatagli in occasione della sua visita in Sicilia nel 1924. Il capo di una cosca, Don Ciccio Cuccia, podestà di una cittadina di Piana dei Greci, dimostrò in modo inequivocabile il proprio disprezzo per il Duce. Quando il protervo Mussolini si alzò in piedi per pronunciare il suo discorso, la piazza principale era vuota, a parte un gruppo di mendicanti male in arnese e di idioti del villaggio riuniti dal podestà. A un ricevimento in un’altra città, nonostante la vigilanza delle guardie del corpo, la mafia riuscì a rubare il cappello a Mussolini.

    La vendetta del Duce fu sollecita e inesorabile. Conferì a un funzionario inflessibile proveniente dal nord, Cesare Mori, poteri di polizia assoluti oltre a un esercito di agenti speciali per sradicare la mafia. Soprannominato Prefetto di Ferro e aiutato dai proprietari terrieri e dagli uomini d’affari costretti a subire le prepotenze e le estorsioni della mafia, Mori intervenne con durezza, arrestando decine di padrini dei clan con i loro soldati.

    Una delle prime vittime della guerra di Mussolini fu l’imprudente Don Ciccio Cuccia. Un mese dopo l’affronto della piazza, Mussolini si rivalse condannando l’uomo a un lungo periodo di detenzione senza neppure un processo formale. (Con l’appellativo Don si onora una persona oltre a dimostrargli grande rispetto, ma non si tratta di un titolo ereditario o aristocratico).

    Per umiliare in pubblico i mafiosi da giudicare, Mori fece costruire gabbie di ferro entro le quali venivano rinchiusi nelle aule dei tribunali. Preoccupato per il protrarsi di uno dei primi procedimenti, Mussolini emanò questa brusca direttiva: «La giustizia fascista deve essere rapida e ferma. Se le procedure giudiziarie non saranno accelerate, la liquidazione della mafia si realizzerà soltanto nel 2000».

    Prima che la retata di massa di Mori e i relativi processi giungessero al termine, mille e duecento sospetti mafiosi vennero arrestati e condannati a periodi di detenzione la cui durata andava da pochi mesi fino all’ergastolo. Palermo fu il centro del giro di vite: l’accusa era di solito quella di associazione a delinquere e i crimini specifici comprendevano l’assassinio, l’estorsione, il ricatto, la rapina e il furto.

    Mussolini ricavò un ulteriore vantaggio dal suo regime del terrore contro la mafia. La crociata gli offrì un utile pretesto per arrestare ed eliminare i siciliani liberali, quelli di sinistra e gli altri oppositori politici, tutti falsamente denigrati come mafiosi.

    La mafia siciliana non elaborò mai un piano per infiltrarsi in America o per stabilire filiali negli Stati Uniti. Ma la repressione di Mussolini-Mori si dimostrò tanto efficace che portò a un considerevole esodo dalla Sicilia di esperti mafiosi in fuga da persecuzioni e incarcerazioni sicure. La libertà di ingresso senza limiti negli Stati Uniti ebbe termine nel 1924 con l’entrata in vigore del National Origin Act, una legge che in pratica metteva fine all’immigrazione dall’Italia. Indifferenti alle restrizioni sull’immigrazione e presentandosi come perseguitati politici del fascismo, molti dei malavitosi siciliani in fuga si diressero a New York. Non ebbero grandi difficoltà a intrufolarsi nel paese e a stabilire solidi legami con le bande siciliane.

    Uno dei primi tra questi stranieri illegali fu Joseph Bonanno, che avrebbe creato in America un vero e proprio impero della malavita. Bonanno, il cui padre e i parenti stretti erano mafiosi irriducibili, veniva da Castellammare del Golfo, un consacrato bastione della mafia sulla costa occidentale della Sicilia. Il suo trasferimento in America venne organizzato con il sostegno morale e finanziario dei membri del clan (passato alla clandestinità per sopravvivere alla purga di Mussolini) e dei compaesani castellamaresi già residenti in America. Nel 1924, a diciannove anni, Bonanno si infiltrò negli Stati Uniti passando da Cuba, e si diresse verso il quartiere Williamsburg di Brooklyn, dove un immigrato

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