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Atlantide
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E-book361 pagine4 ore

Atlantide

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"...L’acqua era incredibilmente fredda, nonostante la giornata fosse di un caldo torrido, quasi insopportabile. Il martedì era il giorno peggiore di tutta la settimana. Il professor Kirkland aveva stabilito una tabella, per la riabilitazione, molto rigida. Dopo il pauroso incidente di 6 mesi prima, Timothy aveva praticamente perso l’uso delle gambe. Si muoveva su di una sedia a rotelle che suo zio aveva preso in prestito da Agnes Poulridge, la nostra vicina di casa. Suo marito Alfred l’aveva usata per anni, poi, dopo la sua morte, Agnes, non si sa bene perché, l’aveva conservata, come fosse un macabro cimelio..."
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2012
ISBN9788867510825
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    Anteprima del libro

    Atlantide - Valentini Angelo

    Copyright © 2012

    Youcanprint Self-Publishing

    Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0833.772652

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo : Atlantide

    Autore : Valentini Angelo

    Illustrazione di copertina a cura dell’autore

    ISBN: 9788867510825

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    1.

    PROLOGO

    11 Gennaio 2010

    ( Giorno dell’incidente )

    Aveva ormai perso il conto di quante volte era riuscito a fare avanti e indietro per quell’enorme piscina olimpionica. Da mesi provava a memorizzare le vasche che faceva, ma dopo poco si stufava e lasciava perdere. A Timothy Carlsson piaceva troppo nuotare, era il suo habitat naturale, molto più della terra ferma. Nell’acqua era soltanto lui e quell’affascinante elemento primario. Un mondo in cui nessuno poteva entrare, nessuno poteva intromettersi. Con le persone non era mai stato molto a suo agio, ma in acqua non temeva niente e nessuno. Rispetto ai ragazzi della sua età appariva più grande, sia fisicamente che psicologicamente, forse proprio grazie a quello sport che tanto adorava e che gli aveva plasmato corpo e anima. Negli ultimi due o tre anni si era particolarmente perfezionato, soprattutto nello stile libero, diventando una vera e propria promessa. Lui non aveva mai preso in esame la possibilità di gareggiare a livello agonistico, amava nuotare, per lui era più che sufficiente questo, anzi, era tutto ciò che desiderava. D’altro canto suo zio Fergus non lo aveva mai assecondato in questa disciplina, non perdeva mai occasione per andargli contro, per cercare di scoraggiarlo. Gli ripeteva continuamente che perdeva tempo, che doveva pensare a trovarsi un buon lavoro e a fidanzarsi con qualche ragazza della scuola. Lui era ormai abituato a quei sermoni, aveva imparato l’arte dell’isolamento, le parole gli rimbalzavano senza che nemmeno le percepisse. Sua zia Agata era anche più insopportabile, se possibile. Sempre a strillare, sempre a rinfacciargli che se ne stava continuamente solo e che non avrebbe mai combinato nulla nella vita. Purtroppo per Timothy non aveva alternative, dopo la morte dei suoi genitori era stato affidato agli zii materni e, per quanto detestabili fossero, erano gli unici parenti che aveva e che si erano presi cura di lui, in qualche modo. Sua madre era morta dandolo alla luce una triste notte di diciannove anni addietro, o così gli avevano riferito quando era stato abbastanza grande da capire. Suo padre, sempre per sentito dire da zio Fergus, era scappato il giorno dopo, appena appresa la notizia della morte della madre. Probabilmente la rabbia che leggeva negli occhi dei suoi zii era dovuta proprio a questo improvviso carico di responsabilità che si erano trovati addosso senza averlo chiesto.

    Erano le otto e dodici minuti di una fredda serata di gennaio, quando Timothy concluse la sua ultima vasca e, dopo aver visto l’ora sul grande orologio posto in alto sulla, parete a ovest della grande sala riscaldata del palazzetto dello sport, decise che era il momento di tornare a casa. Sarebbe rimasto ancora delle ore, non sentiva mai la stanchezza quando nuotava, ma già si stava immaginando le urla di sua zia perché era nuovamente tornato tardi dalla piscina.

    A quell’ora c’era sempre pochissima gente, aspetto che lui apprezzava particolarmente. Si aggrappò alla scaletta laterale e, facendo forza sulle braccia si issò sul bordo uscendo dalla vasca. Minuscole goccioline mitragliarono il pavimento in gomma nera antiscivolo, mentre si avvicinava alla postazione per prendere le sue ciabatte. Si tolse la cuffia che gli proteggeva il viso e si avviò verso lo spogliatoio pregustandosi una meravigliosa doccia tonificante. Passando sul lato destro della piscina si voltò lateralmente osservando l’incresparsi dell’acqua. Un fulmineo movimento sul fondo lo colse di sorprese e lo costrinse a fermarsi per guardare meglio. Poco distante dal primo fugace avvistamento ce ne fu un altro. Anche questo repentino, quasi impercettibile ad un occhio distratto. Timothy notò che nessuno era rimasto a nuotare, c’erano soltanto tre persone altre a lui, ma nessuno sembrava essersi accorto di qualcosa. Rimase alcuni secondi a osservare il fondo della piscina, spaziando con lo sguardo per tutta la sua lunghezza e larghezza, ma non vide più niente. Probabilmente se l’era immaginato, forse un riflesso delle luci al neon sull’acqua gli avevano giocato un tranello. Fece un breve sorriso, un 1

    accenno di alzata di spalle e via verso la doccia.

    Quentin era sempre lì, dietro quel grosso bancone in legno chiaro e acciaio, pronto ad accogliere i clienti che giungevano alla reception o, come nel caso di Timothy, se ne andavano a casa. Non ricordava di averlo mai visto in un posto del palazzotto che non fosse dietro quel bancone, era il suo trono, amava quel lavoro e si vedeva. Con un plateale gesto della mano e con la faccia grassoccia, tirata all’insù, salutò il ragazzo che se ne stava andando. Lui ricambiò con altrettanto coinvolgimento.

    Quando Timothy uscì sul piazzale per dirigersi alla macchina, l’immagine sfuggente sul fondo della piscina, era già un ricordo lontano e perduto.

    Sistemò la sacca con gli indumenti bagnati sul sedile del passeggero, accese il motore e con andatura calma e tranquilla abbandonò il grande parcheggio. Erano ormai più delle nove, stavolta aveva fatto veramente molto tardi. La serata, tra l’altro, non prometteva nulla di buono, stava iniziando a piovere e la temperatura esterna oscillava tra i due e i quattro gradi. Ebbe un piccolo brivido di freddo, ruotò la manopola del riscaldamento, alzando un po’ i giri della ventola e si sentì subito meglio.

    Mancavano poco alla casa degli zii, c’era una serie di tornanti poi un lungo rettilineo di tre quattro chilometri, poi sarebbe arrivato a destinazione, intanto la pioggia aveva aumentato il suo ritmo in modo esponenziale. I tergicristallo si muovevano da una parte all’altra alla massima velocità, ma facevano ugualmente fatica a ricacciare indietro la furia della tempesta. Superato il secondo tornante, sul ciglio della strada, a destra, in prossimità di una scarpata a Timothy sembro di intravedere, nuovamente un movimento strano, tra il guard rail e l’avvallamento subito dietro. I fari non gli erano di grande aiuto, ma nel momento in cui passò per quel punto, qualcosa d’insolito uscì fuori dal buio e venne illuminato brevemente dagli abbaglianti. In quel breve istante non era riuscito a scorgere granché, ma era quasi convinto che fosse un uomo, ma aveva una specie di coda…

    Appena passato oltre sbirciò dallo specchietto retrovisore e vide, effettivamente, quello strano essere posizionarsi quasi al centro della carreggiata e…lo stava guardando. Provò una fastidiosa sensazione di paura percorrergli la spina dorsale, fino alla punta dei piedi. Distolse lo sguardo per poi tornare a sbirciare un attimo dopo. Non c’era più nulla. Niente di niente. La strada era deserta come pochi secondi prima. Non poteva credere di esserselo immaginato, non questa volta. Gli ritornò in mente l’immagine della piscina, quella forse era stata una svista, ma questa non lo era. No proprio no. Di sicuro, non faceva parte della sua immaginazione il camion che stava sopraggiungendo dalla direzione opposta. Per osservare dallo specchietto Timothy non si era accorto di aver invaso l’altra corsia.

    Quando gli enormi fari del colosso e il suono del suo clacson lo destarono dai suoi pensieri, era ormai troppo tardi. Fece appena in tempo a sterzare il volante verso destra. La macchina virò bruscamente alzando vortici d’acqua sull’asfalto, mentre le gomme stridevano e urlavano. Anche l’autista del camion aveva momentaneamente perso il controllo del suo mezzo, andando a urtare con la fiancata destra del suo rimorchio la parete rocciosa che costeggiava la strada, poi riuscì a frenare il mezzo, tra sbuffi di fumo e puzza di pneumatici bruciati. Timothy non ebbe la stessa scaltrezza al volante, l’auto viaggiò dritta contro il guard rail che si piegò nell’attimo esatto in cui il muso della macchina lo investì.

    Le ruote anteriori si alzarono sulla balaustra di protezione e Timothy s’impennò paurosamente mentre usciva di strada. Ricadde pesantemente sulla terra e si diresse pericolosamente verso il fondo della scarpata. Iniziò a urlare tutto il suo terrore. Il volante era impazzito e incontrollabile, i freni assolutamente inefficaci sul manto scosceso. A pochi metri lo attendeva il fondo con i suoi cumuli di roccia e terra, probabilmente sarebbe morto.

    Il conducente del grosso camion era già sceso e si era portato sul ciglio della strada, appena in tempo per vedere quella piccola vettura schiantarsi, con un tonfo tremendo, in fondo al burrone.

    Quando la vecchia auto di zio Fergus impattò tremendamente contro la parete rocciosa, Timothy stava ancora urlando. Un istante dopo calò sui suoi occhi e sui suoi sensi il buio totale.

    2

    2.

    08 Luglio 2010

    ( 6 mesi, circa, dopo l’incidente )

    L’acqua era incredibilmente fredda, nonostante la giornata fosse di un caldo torrido, quasi insopportabile. Il martedì era il giorno peggiore di tutta la settimana. Il professor Kirkland aveva stabilito una tabella, per la riabilitazione, molto rigida. Dopo il pauroso incidente di 6 mesi prima, Timothy aveva praticamente perso l’uso delle gambe. Si muoveva su di una sedia a rotelle che suo zio aveva preso in prestito da Agnes Poulridge, la nostra vicina di casa. Suo marito Alfred l’aveva usata per anni, poi, dopo la sua morte, Agnes, non si sa bene perché, l’aveva conservata, come fosse un macabro cimelio. Ovviamente Timothy provava un vero e proprio senso di disgusto a sedersi su quella sudicia e puzzolente carrozzella mezza arrugginita e dinoccolata, ma zio Fergus non si era lasciato sfuggire la possibilità di risparmiare un po’ di dollari. Tutti gli avevano ripetuto in questi mesi che era stato fortunato a sopravvivere all’incidente, ma lui, ogni volta che si guardava quei due pezzi di legno che aveva per gambe, non era proprio dello stesso avviso. Il professor Kirkland lo aveva preso in cura fin dall’inizio, era un tiretto basso e grassoccio, pochi capelli grigi intorno alle orecchie, occhi tondi come due biglie e un naso tozzo e schiacciato, sembrava un folletto obeso di qualche fiaba dei fratelli Grimm. A dispetto del suo fisico, però, aveva una mente molto acuta e un carattere d’acciaio. Fin dai primi giorni lo aveva rincuorato, dicendogli che sarebbe tornato a camminare. Ci sarebbero voluti tempo e pazienza, ma la lesione che aveva subito, non era irreversibile, così, con la giusta determinazione, con cure e una riabilitazione mirata ce l’avrebbe fatta. Dal canto suo, Timothy s’impegnava ogni giorno negli esercizi che il professore gli aveva assegnato, sia a terra che in piscina.

    Ovvio che per quelli in acqua lui stravedesse e non stava mai nella pelle quando doveva immergersi in piscina. Lo seguiva un fisioterapista della zona, un certo Carter Bell, un vero e proprio squalo mangiaragazzi. Dire che era un duro senza cuore era dire poco. Il martedì, per l’appunto, era il giorno degli esercizi in acqua più faticosi e anche dolorosi. Doveva cercare di flettere le ginocchia su e giù reggendosi con le mani al bordo del trampolino di partenza. Faceva una fatica immane tutte le volte e non c’era verso che Carter gli addolcisse un po’ la pillola. Ogni volta che finiva, si sentiva totalmente esausto. Era l’unica occasione in cui non vedeva l’ora che suo zio Fergus lo venisse a prendere. Ecco, quest’ultima cosa era una delle peggiori conseguenze dell’incidente. Non era più indipendente, qualunque cosa dovesse fare, aveva la necessità di chiederla a suo zio che, ovviamente nella quasi totalità delle circostanze si rifiutava di accontentarlo. Timothy non credeva che gli avrebbe mai perdonato di avergli distrutto la macchina e averlo costretto a comprarne un’altra, usata ovviamente.

    Proprio per evitare di chiedergli favori e sentirsi umiliare ulteriormente, Timothy si era isolato ancora di più, per lui ormai esisteva soltanto la piscina e la palestra per la riabilitazione, Carter, il professor Kirkland, Pancho e Villa. Chi sono questi ultimi due? Ovvia la domanda, semplice la risposta. Sono due pesciolini rossi. Uno dei rarissimi gesti d’affetto che sua zia Agata gli aveva manifestato in tutti quegli anni. Pochi giorni dopo essersi ripreso dal coma in cui era caduto, sua zia si presentò in ospedale con una brocca d’acqua che quasi traboccava. Dentro c’erano due piccoli pesciolini rossi, così impauriti e tremebondi che se ne stavano praticamente immobili sul fondo del recipiente, con quegli occhini spalancati che lo imploravano di avere pietà per loro.

    Il gesto di sua zia fu così inaspettato che quasi si commosse. Ovviamente lei non fu di molte parole:Questo è per te, rimettiti presto!, fu tutto quello che le uscì da quelle labbra serrate ma, conoscendola, immaginò che le fossero costate una fatica immensa.

    Non aveva mai pensato a quanta compagnia due innocui animaletti come quelli potessero fare, rimaneva per ore a osservare il loro movimento nell’acqua, a studiarne ogni singolo gesto. Ne restava 3

    incantato. Un giorno, sfogliando una rivista, di quelle che si trovano sempre nelle sale d’attesa degli ospedali, dove si trattano argomenti come i viaggi, l’arredamento e la crisi mondiale del clima, si soffermò su di un articolo che parlava del Messico. Leggendolo distrattamente, colse un riferimento al famoso rivoluzionario Pancho Villa. Fu in quel preciso istante che decise di chiamare così i suoi due fedeli compagni di stanza e di vita. Pancho era ovviamente il maschio, quello arancione con leggere striature ocra sulle pinne, Villa era la femmina, quella bianca pezzata di rosso. O almeno così pensava o aveva deciso che fosse. Potevano anche essere due maschi o due femmine per quel che ne sapeva, ma a lui stava bene così.

    3.

    13 Aprile 2011

    ( Un anno e tre mesi, circa, dall’incidente)

    La giornata era stata veramente uno schifo, la vita era veramente uno schifo. Oggi era il grande giorno, quello della verità, il giorno che lui, Timothy Carlsson aveva atteso per quindici mesi. L’appuntamento col professor Kirkland era per le undici e trenta di quel tiepido mattino di metà aprile. Si era svegliato prestissimo, non erano neppure le sette (a dire la verità non aveva chiuso quasi occhio durante la notte), era rimasto sotto le lenzuola ancora per un’ora prima di scoppiare dal nervosismo e alzarsi. Si serviva ancora della sedia a rotelle di Agnes le cui ruote, ormai, cigolavano in modo sinistro ad ogni metro.

    Periodicamente aveva svolto delle visite nello studio del professore per controllare l’andamento della riabilitazione. Riusciva in qualche modo a muovere le gambe, ma non poteva assolutamente reggersi in piedi, figuriamoci camminare. Negli ultimi mesi i progressi si erano bruscamente arenati, come una balenottera in agonia piaggiata sulla costa. Per il professore non c’era da allarmarsi, era un regresso che ci stava nel corso della guarigione. Timothy si era un po’ tranquillizzato. Gli esami che doveva svolgere in mattinata erano quelli definitivi. In base al loro responso, sarebbero riusciti a sapere se aveva concrete possibilità di tornare a camminare e ad avere una vita normale. Era ovvio si sentisse nervoso, eccitato come un bambino davanti al pacco regalo più grande del mondo. Aveva la vescica in fiamme, così andò in bagno, si servì dell’imbracatura per issarsi sul water ed espletò le sue funzioni corporali, con un senso di liberazione quasi paradisiaco.

    Tornò davanti al suo letto e si mise a fissare Pancho e Villa. Erano cresciuti molto nei mesi precedenti, erano diventati adulti. Si muovevano sinuosamente, con le pinne che ondeggiavano nell’acqua come felici bandiere sventolanti in una giornata di piacevole brezza.

    Dopo pochi minuti sentì sua zia Agata trafficare con il gas della cucina; molto bene, la mattinata era iniziata, presto sarebbe partito con lo zio per gli esami.

    Era così nervoso ed impacciato, che non era riuscito nemmeno a salire sulla vecchia station wagon dello zio, cadendo un paio di volte e trascinandolo con lui, beccandosi, tra l’altro una serie di improperi irripetibili, che quasi non si accorse di sentire. Il tragitto, come al solito, era immerso in un silenzio tombale, zio Fergus era un animatore nato, con lui, anche i morti al cimitero si sarebbero annoiati a fare conversazione. Stavolta però, fu grato di quel mutismo opprimente, i suoi pensieri erano altrove, viaggiava con la fantasia, non aveva voglia e modo di chiacchierare. Si era già immaginato nuovamente a salire la scaletta del trampolino della piscina olimpionica. Gradino dopo gradino, assaporando ogni passo, come un rituale antico. Si vedeva in cima, sul bordo della tavola, leggermente piegata sotto il suo peso, pronta e flettersi e a lanciarlo in alto per fargli compiere un magico tuffo. Proprio in quel momento un clacson assordante lo destò bruscamente dal suo sogno. Era suo zio, logicamente che stava inveendo contro una povera vecchia, rea, secondo lui, di aver attraversato la strada in modo avventato.

    La dolce nonnina, non si era degnata nemmeno di girarsi e questo lo aveva fatto infuriare ancora di più.

    Ripartito, rimase ancora qualche minuto a sbraitare con un compagno di conversazioni invisibile, 4

    mentre gli raccontava la sua versione dei fatti sull’accaduto.

    Giunsero alla clinica alle 11 e 19 minuti. Perfettamente in orario. Sulla puntualità, suo zio Fergus era un orologio svizzero, uno dei suoi punti forti, forse l’unico.

    Stavolta la discesa dalla vettura fu più agevole e in pochi istanti si ritrovarono in sala d’attesa, in compagnia di altre sei presone. C’era una donna giovane, sui trent’anni, jeans e maglia di cotone chiaro insieme a un bambino, probabilmente il figlio che non smetteva mai di infilarsi un dito nel naso. Due donne anziane parlottavano in un angolo, l’argomento della discussione sembrava molto interessante, a giudicare da come si agitavano. Probabilmente, stavano scambiandosi ricette di cucina o si chiedevano del tempo che avrebbe fatto l’indomani. Un uomo in elegante giacca e cravatta scusa se ne stava seduto nell’angolo a destra, accanto alla finestra che dava sul cortile. Leggeva una rivista di moda mentre sbatteva nervosamente i tacchi dei costosi mocassini sul pavimento. Un’altra donna, anch’essa dall’aspetto molto distinto, sedeva nell’angolo opposto. Sfogliava distrattamente un depliant della clinica, non sembrava avesse fretta o fosse particolarmente nervosa. Al contrario della donna, lui era un terremoto, se le gambe gli avessero dato retta, ora starebbe ballando un tip tap degno del miglior Fred Astaire.

    Alle 11 e 38 minuti, uscì dalla porta dello studio Kathleen, l‘assistente del professore, lo guardò, poi si avvicinò e dolcemente, mentre gli appoggiava una mano sulla spalla gli disse:Tocca a te Tim, ci vorranno solo pochi minuti.

    Ora erano le 13 e 52 minuti, stava seduto sulla sedia a rotelle davanti al letto, nella sua camera, osservava Pancho e Villa che ondeggiavano pigramente nel recipiente di vetro, mentre gli occhi gli si velavano di lacrime dolorose. La vita è veramente uno schifo.

    Mi dispiace Timothy, la cicatrizzazione non si è evoluta nel modo sperato, purtroppo sarà difficile che tornerai a camminare… Una cannonata in pieno volto, una fucilata diritta al cuore a bruciapelo.

    …sarà difficile che tornerai a camminare…, così aveva detto il professore e in un istante tutti i suoi sogni e i suoi progetti si erano frantumati in miliardi di pezzi. Non aveva battuto ciglio, aveva solo chiesto cortesemente di ripetere la diagnosi per maggior sicurezza. Il dottor Kirkland gli ripeté le medesime parole, quindi Timothy uscì dallo studio, poi dalla clinica. Suo zio stava fuori, nel parcheggio ad aspettarlo. Allora?, gli chiese. Ha detto che ci vorrà ancora del tempo… mentì il ragazzo. Ma porca miseriaccia, ma quanto tempo ancora dovrò scarrozzarti in giro per la città…, commentò aspramente lo zio. Lui non rispose, ripartirono verso casa.

    Cinque minuti dopo che erano rincasati i suoi zii stavano già discutendo di tutt’altro argomento, lo avevano già dimenticato. Mai in vita sua Timothy si era sentito così solo e disperato. Mesi e mesi di fatica, di dolore fisico e psicologico buttati letteralmente dalla finestra, tutto ciò che aveva fatto non era servito a nulla. I suoi sforzi non avrebbe portato a nessun risultato, sarebbe rimasto un maledetto paralitico per sempre. Avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di suo zio in ogni occasione futura. Era totalmente disperato. Si mise le mani sul volto, i gomiti appoggiati sulle gambe quasi insensibili e pianse, in silenzio, con la riservatezza che aveva caratterizzato la sua vita. Solo anche in quel momento di atroce dolore, come solo era sempre stato. Quanto avrebbe desiderato dei genitori, ora più che mai.

    Per anni era stato più forte del destino, ma ora non ce la faceva più, troppo duro il colpo da digerire, troppo faticoso rialzarsi. Non voleva più vivere quella vita che gli aveva riservato solo grandi amarezze.

    Proprio mentre rovesciava nel pianto dimesso tutta la sua frustrazione, balenò un breve lampo di luce dal fondo del piccolo acquario. Le lacrime gli annebbiavano la vista, si asciugò gli occhi col dorso della mano destra e osservò più attentamente la scena. Tra le minuscole pietruzze e i granelli di sabbia artificiale che componevano il micro paesaggio acquatico scaturivano raggi di luce azzurrognola, quasi fossero dei laser stroboscopici di una discoteca invisibile. Si irradiavano attraverso la stanza, fin sul soffitto della camera, creando affascinanti giochi luminosi. Dal celeste si passava al bianco, quindi al rosa, poi al magenta, per finire al blu scuro. Era affascinato e, al tempo stesso, sorpreso per ciò che 5

    stava vedendo. Ma la sorpresa maggiore fu quando lo sguardo gli cadde sui due pesciolini rossi. Non ci aveva fatto caso prima, troppo attratto dalle luci, ma ora se n’era accorto: Pancho e Villa era immobili, al centro della brocca trasparente e lo stavano guardando…Si, esattamente, lo stavano fissando, con quei minuscoli cerchi bianchi e la puntina nera. Si sentiva in imbarazzo, si spostò con il corpo, portandosi dietro la carrozzella e loro si spostarono nella stessa direzione, sempre fissi su di lui. Non c’era dubbio, era diventato il soggetto del loro interesse. Non ne era spaventato, ma totalmente incredulo, quello si. Amava il nuoto e l’acqua in generale, ma non conosceva in modo approfondito le abitudini dei pesci, ma era certo di non aver mai sentito dire di pesci rossi che fissavano negli occhi le persone.

    Il buffo balletto, con Timothy che si spostava lateralmente e Pancho e Villa che lo seguivano durò alcuni minuti, fino a che le luci attraverso la ghiaia sul fondo dell’acquario aumentarono, in modo esponenziale, la loro intensità. Divennero così forti che dovette alzare le braccia e mettersele davanti agli occhi per schermarsi. Anche così facendo, però, la luce penetrava ugualmente. Poi un fastidioso ronzio si insinuò nelle orecchie, come se un plotone intero di api combattenti gli si fosse annidato dentro la testa. Premette i palmi delle mani ai lati della testa per cercare un conforto che non ottenne.

    Strinse gli occhi e cominciò a gridare, quando il volume del ronzio salì ad un livello intollerabile.

    Cominciò a sanguinargli il naso e nuove lacrime gli scesero lungo le guance. Poi all’improvviso tutto tacque, com’era cominciato, svanì nel nulla. Pochi istanti, con gli occhi ancora serrati, dopo Timothy svenne.

    1.

    ATLANTIDE

    13 Aprile 2011

    ( In un dove e in un quando imprecisato )

    Una piacevole brezza trasversale gli accarezzava il corpo e gli sfiorava il viso. La testa gli faceva un male cane e nelle orecchie percepiva ancora, in lontananza quel tremendo ronzio. Era sicuramente svenuto, cadendo, poi, a faccia in avanti. Si trovava riverso su qualcosa di particolarmente morbido e, al tempo stesso, stranamente consistente. Aveva ancora gli occhi chiusi,

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