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Il tuffo perfetto
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E-book401 pagine5 ore

Il tuffo perfetto

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Info su questo ebook

La vita di Brando Reda, trentenne tranquillo ed equilibrato, viene stravolta improvvisamente una notte, quando la donna con cui ha una relazione gli confessa una scomoda verità. Quella stessa notte, una scura sagoma dai passi assordanti si staglierà nel nuovo percorso che da lì in poi sarà chiamato a compiere. Scavando nel suo passato e guardando in faccia un presente nel quale non ritrova più se stesso, dovrà ridare un senso alla sua vita. Riuscirà ad amare nuovamente e a liberarsi del suono di quei passi assordanti che a lungo tormenteranno i suoi pensieri?
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2022
ISBN9788893693523
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    Anteprima del libro

    Il tuffo perfetto - Eva Margi

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    Collana Sentieri

    IL TUFFO PERFETTO

    di Eva Margi

    Proprietà letteraria riservata

    ©2022 Edizioni DrawUp

    www.edizionidrawup.it

    redazione@edizionidrawup.it

    Progetto editoriale: Edizioni DrawUp

    Direttore editoriale: Alessandro Vizzino

    Grafica di copertina: Adriana Giulia Vertucci

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.

    I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.

    ISBN 978-88-9369-352-3

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    Non ci si libera di una cosa evitandola,

    ma soltanto attraversandola.

    Cesare Pavese (Il mestiere di vivere)

    Prologo

    Volta le spalle e se ne va furibondo, sbattendo la porta. Scende di corsa le rampe di scale ignorando l’ascensore. Percorre l’androne e una volta in strada, respira.

    Per un istante si sente rinfrancato da quell’aria che gli attraversa i polmoni. Supera Viale degli Oleandri e poco dopo imbocca Viale dei Tigli.

    Poco più di un km, e sarà arrivato a casa. Un solo km che in questo istante gli sembra infinito.

    Dalle case circostanti non trapela alcun segno di vita. Nessuna finestra illuminata, solo buio, e silenzio, come se la vita fosse evaporata. Il buio è interrotto solo dal fascio di luce dei lampioni, a tratti regolari. Sente che l’asfalto emana ancora la calura del giorno rovente.

    Allunga il passo. È stanco, la giornata è stata impegnativa e si è conclusa nel peggiore dei modi. Al di sopra di ogni possibile immaginazione.

    «Ho bisogno di parlarti» gli aveva detto al telefono. «Solo un attimo!» Un attimo, durato poi un’eternità. Perché quello che gli ha rivelato risuona ancora nelle sue orecchie e chissà per quanto vi rimarrà. Forse lo sentirà per sempre. E si chiede perché. Perché una cosa così orribile doveva succedere proprio a loro anzi, a lui, visto che è stata lei a causarla.

    Sente rumore di passi alle sue spalle. Si gira. Nessuno.

    Forse sono i suoi stessi passi, distorti dal gran peso dei suoi pensieri. Lei, schietta e gentile. Con i capelli come il sole. La sua Martina. Non è possibile, non può essere accaduto davvero.

    Di nuovo un altro paio di passi, dietro di lui. Si rigira. Nessuno.

    Non vede l’ora di stendersi sul letto. Per chiudere gli occhi e non pensare. Per anestetizzare questo dolore lancinante che non aveva messo in conto.

    Mai avrebbe immaginato. È stata brava a nascondere, celare. E lui è stato completamente cieco a non cogliere alcun segno. Lei brava e lui cieco.

    Non pensare, e non sentire più questi passi. Stanno diventando assordanti. Si sente pulsare le tempie.

    Svolta all’angolo della strada e nella sua visuale, finalmente, si profila la palazzina dove abita. Ma quanto è lontana!

    Ma no, sono solo centocinquanta metri.

    Non gli sono mai sembrati così tanti.

    Centotrenta, una vita.

    A ogni passo sente le gambe diventare sempre più pesanti, si trascinano da sole, come se non fossero comandate dall’impulso del suo cervello. Cinquanta metri. Si gira, nessuno.

    Venti metri, e ancora rumore di passi, troppi per essere solo i suoi. Ecco il portone, finalmente!

    Buio pesto. Si saranno fulminati i faretti a led.

    A fatica riesce ad aprire. Prende il telefono dalla tasca dei jeans, ha bisogno di un po’ di luce, ma all’improvviso urta contro un’enorme sagoma scura, e il telefono finisce per terra. Non vede il volto dell’uomo, istintivamente chiede scusa, ma la sagoma, fulminea, esce dal portone lasciando dietro di sé nient’altro che il rumore metallico della serratura.

    Trova a tentoni il telefono e accende la torcia. Esce dal portone e guarda tutt’intorno. Nessuno. Troppo tardi, è già svanito nel nulla.

    Chi era? Forse un parente della signora Leda? No, improbabile. Un amico di Anna, o di Carlo?

    Perché non ha risposto quando gli ha chiesto scusa, fuggendo come un ladro?

    Alza le spalle e rientra nell’androne, apre il quadro della corrente elettrica per capirci qualcosa. Sembra tutto normale. Prova a riaccendere l’interruttore, e niente, la corrente non c’è.

    Si tratterà di un guasto, ma ci penserà domani.

    Sale di corsa le rampe di scale che lo separano dal suo appartamento.

    Entra in casa e sospira di sollievo nel constatare che la cor-rente elettrica funziona.

    Toglie le scarpe e si dirige in bagno alla ricerca di un analgesico. Poi va in camera da letto e crolla estenuato sul letto. Chiude gli occhi, sperando che la devastazione che sente nel corpo e nella mente possa annientarlo definitivamente, risucchiandolo in un lungo sonno in grado di cancellare ogni ricordo.

    Parte prima

    1

    «Due quattro sei otto dieci, per ventiquattro, duecentoquaranta.»

    La luce filtrava dalla tapparella formando tanti piccoli rettangoli luminosi. Duecentoquaranta rettangoli. Pensò di doversi tirare su, scendere dal letto e affrontare quel nuovo giorno.

    Rivide la notte precedente.

    No, non poteva farcela. Avrebbe voluto stare sdraiato sul letto e non pensare. Continuare a contare i rettangoli luminosi della tapparella. Per sempre.

    Per fortuna quel forte mal di testa era sparito. Guardò il telefono, quattordici e quindici e dieci messaggi non letti.

    Mamma

    «Ciao come stai? Vieni a cena? Fammi sapere se viene anche Martina. Ma non dieci minuti prima, come fai sempre! Vi aspettiamo!»

    Riccardo

    «Ciao Brando che fai? Ti va un giretto in moto nel pomeriggio? Fatti vivo!»

    Martina

    «Mi dispiace tanto anzi tantissimo. Sto soffrendo anch’io... perdonami se puoi... spero che un giorno capirai... non potevo fare altro! Vorrei riparlarne con calma...»

    Gettò il telefono dall’altra parte del letto e si alzò di scatto.

    I puntini sospensivi di Martina. Tipici dei suoi momenti di incertezza, del suo non saper cosa dire, del suo lasciare intendere. Cosa lasciare intendere in quel caso? Che i fatti spiegavano meglio delle parole? Ma di cosa dovevano continuare a parlare, poi,

    che la notte prima aveva scorto nei suoi occhi una luce ormai proiettata verso altri mondi? Andò in cucina e azionò la macchina del caffè.

    Una nuotata al mare. Solo una lunga nuotata poteva salvarlo dalle scorie di cui sentiva pieno il cervello. Tornò in camera da letto per recuperare il telefono.

    Rispose a sua madre: «Ok sarò lì per le venti. Da solo.»

    E poi a Riccardo: «Oggi non posso. Ti richiamerò presto!»

    Ignorò tutti gli altri messaggi e prese il caffè. Si mise sotto la doccia fredda e il getto dell’acqua gelida lo riportò istantaneamente alla realtà.

    Una mazza da baseball in pieno viso. E sul cuore. Si era sentito così, meno di quindici ore prima, e ancora non riusciva a crederci. Stava succedendo davvero a lui?

    E più ci pensava, più risentiva il colpo sordo di quella mazza da baseball, senza neanche avere avuto il tempo di tendere le braccia per proteggersi e attutire il colpo.

    Si sarebbe dovuto abituare a quella nuova realtà. E soprattutto avrebbe dovuto rimodulare la sua vita senza più Martina. Roba per niente facile, specie se senza preavviso.

    Stava scendendo le scale quando improvvisamente gli venne in mente lo strano tipo nel quale si era imbattuto la notte precedente. Passò davanti alla porta della signora Leda e impulsivamente suonò il campanello. Nessun cenno a testimoniare che la donna fosse in casa. Pensò che forse era andata a passare la domenica dalla figlia.

    Provò ad accendere la luce e vide che funzionava. Guardò l’orologio, erano le quindici.

    «Qualcun altro si sarà accorto del guasto e vi avrà posto rimedio!» si disse.

    Decise di prendere la moto e partì. Aveva bisogno di aria.

    Si incamminò lungo la provinciale e poi svoltò per le spiagge.

    Si fermò al lido dove era solito andare, guardò a distanza, la spiaggia era gremita di bagnanti, ma lui non aveva voglia di vedere nessuno. E poi avrebbe potuto incontrare Martina. Decise di andare dall’altra parte, nel versante ovest del promontorio, dove non aveva ricordi con lei.

    Ripartì alla ricerca di un posto da dividere solo con se stesso. Camminò lungo la costa. La giornata era calda e il mare sembrava immobile. Dopo un po’ di chilometri la sua attenzione fu attratta da un cartello segnaletico: Cala di Colventoso. Rallentò ed ebbe un flashback. Una mattina, tanti anni prima, lui e suo padre. Avrà avuto più o meno sette anni. Da allora non ci aveva messo più piede.

    D’impulso imboccò il sentiero al di là del cartello. Si ritrovò a percorrere un paesaggio collinare, la strada infatti si inerpicava lungo il promontorio ed era bordeggiata da una fitta vegetazione, di tanto in tanto interrotta da accessi che portavano a ville private.

    «Ti insegno a fare i veri tuffi di testa» gli aveva detto. Ricordò che quel giorno era felice. Si accorse che il mare era scomparso dalla sua vista e fu curioso di scoprire dove lo avrebbe condotto quel sentiero tortuoso.

    Dopo numerose curve, la strada cominciò a degradare e ricomparve il mare all’orizzonte, insieme a un sinuoso tratto di costa alta e rocciosa, in alcuni punti a strapiombo sul mare. Gli si rinfrancò la vista. Continuò a percorrere la strada in discesa fino a quando arrivò a un bivio. Svoltò a destra, seguendo il cartello che indicava Cala di Colventoso. Si fermò quando trovò una radura lungo la strada.

    Parcheggiò la moto e ammirò il paesaggio sottostante, la costa a ferro di cavallo delimitata, all’estrema sinistra, da uno strapiombo sul quale si elevava una vecchia torre millenaria. Notò, proprio sotto di lui, una caletta circondata dagli scogli. Dedusse che era quella la Cala di Colventoso, infatti, allungando lo sguardo, non vide altre spiagge a interrompere quel tratto roccioso, nelle vicinanze. Pensò come raggiungere quel piccolo paradiso con l’acqua di colore verde smeraldo, nei paraggi gli sembrò non vi fosse alcun sentiero che potesse condurlo laggiù. La discesa si presentava ripida e scoscesa ma si avviò comunque, e gli venne da ridere pensando che avrebbe potuto rompersi l’osso del collo o morire lì senza che nessuno se ne accorgesse.

    Raggiunse faticosamente la parte bassa mentre gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e si fermò su una piccola piattaforma di pietra, creata dall’uomo chissà quando. Si guardò intorno alla ricerca del punto esatto in cui si era fermato con suo padre. Riprese a camminare superando la piccola spiaggia, l’unico tratto sabbioso, e poi a un tratto lo intravide, e lo riconobbe. Immutato ed eterno. Erano passati vent’anni. Tutto era cambiato, lui, le persone, la vita. Ma quella roccia somigliante al profilo gigantesco di un cavalluccio marino spalmato sul mare come a prendere il sole, rimasto impresso indelebilmente nel mondo fantastico della sua tenera età, stava ancora lì, immobile. Riprese a camminare fra gli scogli. Era proprio lì che si voleva fermare, dove suo padre gli aveva insegnato a tuffarsi di testa. Laddove il fondale era sabbioso e abbastanza profondo da non essere pericoloso.

    Suo padre. Ricordò quanto lo avesse amato e quanto avrebbe voluto essere come lui, sempre sorridente, senza paura. Già, perché con i suoi occhi da bambino lo vedeva un eroe, come tutti gli altri bambini, del resto. Quando ancora anche lui poteva definirsi come gli altri bambini. Perché poi tutto a un tratto suo padre era andato via, e lui aveva cominciato a sentirsi diverso dai suoi compagni di scuola.

    Era accaduto tutto in fretta. Troppo in fretta per lui, per sua madre e per sua sorella Astrid, ancora più piccola di lui. E niente più tuffi a testa in giù, giri in moto, passeggiate al mare.

    Si chiese perché ora, proprio in quel giorno, si fosse ritrovato lì, dopo una vita. Forse perché aveva perso nuovamente una parte di sé?

    Raggiunse lo scoglio. Ora ce l’aveva proprio davanti, così come lo ricordava, e la dura roccia sembrava lo stesse invitando.

    Non volle più pensare. Tolse la t-shirt e salì sul corpo del cavalluccio. Raggiunse la parte più alta, quella dove la roccia si impennava maggiormente, e si tuffò in mare. L’acqua era fredda. Su quel versante del promontorio l’acqua era sempre molto fredda, anche in piena estate. Ma era di quello che aveva bisogno. Nuotare e non pensare. A suo padre, a Martina, agli strappi dell’anima. Bracciata dopo bracciata. Fino a sfinirsi.

    2

    «Papà guarda! Non sembra un cavalluccio marino?» chiese al padre saltellando su e giù lungo lo scoglio, ripercorrendo le sinuosità della roccia.

    «Sì, un po’ gli somiglia, ma attento a non farti male!» gli gridò

    suo padre dalla piccola spiaggia.

    «Vieni a rivestirti, dobbiamo andare via!» aggiunse dopo.

    «No! Rimaniamo un altro po’, per favore!»

    Si svegliò di soprassalto con una distesa di azzurro davanti agli occhi. Si era appisolato sullo scoglio.

    Guardò il telefono, ore diciassette e sedici, quindici messaggi non letti.

    Mamma, Work, Enrico.

    Sentì una morsa allo stomaco. Quando aveva mangiato l’ultima volta? Il giorno prima, a pranzo, quando era ancora convinto che la sua vita ruotasse intorno a un asse solido, sgretolatosi poi nel giro di pochi minuti, quella stessa sera. Riguardò il telefono. Nessun nuovo messaggio di lei.

    Si sentì ridicolo. Cosa sperava? In un miracolo? O che tutto non fosse mai successo? Non sarebbe stato meglio non averla mai conosciuta?

    Una sera di tre anni prima, una cena tra amici, niente di straordinario.

    Ricordò che indossava un abito fluttuante nei toni pastello. Era rimasto colpito dai suoi capelli lunghi e lisci, fluttuanti come l’abito. Gli era parsa indifesa e ingenua. Ma poi, conoscendola, si era reso conto che Martina era fragile solo nell’aspetto. Il suo corpo armonico e delicato nascondeva una determinazione e una forza che lo avevano attratto ancor più di ogni altra cosa. Quella stessa determinazione che lo aveva attirato come una calamita, ora gli si era scaraventata addosso in tutta la sua potenza. Esageratamente e contro ogni logica. Avrebbe voluto cancellare dalla sua mente tutto. Come a scuola, quando con un colpo di cancellino si eliminavano dalla lavagna intere frasi e rimaneva solo lo sfondo nero. O come quando lavorava e con un solo click poteva eliminare intere ore di lavoro.

    Si tirò su e lesse il messaggio di sua madre: «Vedi di arrivare prima, c’è una sorpresa per te!»

    «Come se non ne avessi avute abbastanza, di sorprese!» pensò ad alta voce, e gli venne quasi da ridere.

    Aprì il gruppo Work, discussione e commenti sull’evento Digital For Everyone.

    Enrico che gli chiedeva se ricordasse la data di un appuntamento con un cliente, la settimana dopo. Richiuse le chat e decise di tornare a casa.

    Si guardò intorno e si sorprese per la bellezza di quel posto dimenticato negli anfratti del suo cervello per un ventennio.

    Il sole stava calando e il mare si infrangeva pigramente sulle rocce, conferendo un ritmo lento e pacato, perfino a lui. Ora non era più il colore azzurro a predominare, ma le tonalità del verde scuro e il marrone delle rocce. Il mare sembrava una languida distesa d’olio.

    Risalì svogliatamente la scogliera e si ripromise di tornare presto. Si chiese come avessero fatto ad arrivare fin laggiù quel giorno, lui e suo padre. Ricordò che lo aveva supplicato di rimanere lì tutto il giorno ma quello era il suo ultimo ricordo. Dopo c’era il vuoto.

    Riprese la strada del ritorno cercando di respirare a pieno quell’aria che sapeva di mare e di pini, in quel momento un balsamo per i suoi frenetici pensieri.

    Una volta arrivato si soffermò davanti al giardino della signora Leda.

    Guardò attraverso le aiuole ma vide la casa totalmente avvolta dal silenzio. Salì a casa e accese la TV.

    Sentì come il buco dell’ozono nello stomaco ma allo stesso tempo il pensiero del cibo gli diede la nausea.

    Aprì il frigo, in cerca di qualcosa di ancora commestibile. Zero.

    «Regola numero uno» pensò ad alta voce, «fare la spesa e riempire il frigo.»

    Rivide Martina brontolare.

    «Possibile che se non ti trascino a forza a fare la spesa, non contempli concetti come cibo - alimentazione - nutrizione? Ah, dimenticavo! C’è mamma!»

    «E dai! Lo sai che non ho tempo!» replicava prontamente lui.

    «Seee, tempo! Diciamo che ti piace vivere comodo.»

    E se avesse tenuto il frigo stracolmo di generi alimentari e si fosse cimentato sui fornelli? Sarebbe valso a qualcosa?

    Se fosse stato più attento, meno preso dal lavoro e dalle sue cose? Ma era stata lei stessa a volere che entrambi mantenessero i propri spazi, che continuassero a vivere ognuno a casa propria. E a lui andava benissimo. Forse poi, però, Martina aveva cambiato idea.

    Riecco le paranoie. Sentì un conato di vomito salire dai meandri del suo stomaco. Si guardò intorno e vide il vuoto dappertutto.

    Guardò la TV, per la prima volta da quando l’aveva accesa prima, sintonizzata casualmente su un documentario che stava trattando la fauna degli abissi. Osservò i cuscini abbandonati disordinatamente sul divano chissà da quando. L’angolo cucina abitato da tazzine di caffè sporche, in perfetta sintonia con i bicchieri sparsi qua e là e le bottiglie vuote. Non gli sembrò neanche casa sua. Quella casa che aveva voluto a tutti i costi per sentirsi libero. Per allontanarsi da una madre e una sorella diventate troppo ingombranti. Per lavorare indisturbato fino alle cinque del mattino senza dover dare spiegazioni a nessuno. Per poter avere la sua privacy con le ragazze.

    Ma poi era arrivata Martina, e si vedevano sempre a casa di lei. Anche questo era più comodo.

    «Domani rimetterò tutto a posto, cascasse il mondo!» disse tra sé.

    Decise di fare una rapida doccia e andare in anticipo da sua madre.

    Aveva bisogno di calore, delle risate spensierate di Astrid, di sentirsi a casa.

    3

    «Hai l’aria stanca, che hai fatto?» gli chiese sua madre aggrottando la fronte.

    «Sì, sono un po’ stanco...» rispose evasivamente. Certo che

    non le sfuggiva niente, pensò poi tra sé.

    «Perché? Qualche problema?» lo incalzò la donna.

    «Niente in particolare» le rispose, sapendo già che così non l’avrebbe mai convinta.

    «Martina? Come mai non è con te?»

    «È rimasta a casa per... ma cos’è...?» sentì uno strano suono provenire dall’atra parte della casa.

    «Vai a vedere di persona!» gli rispose la madre con aria sorniona.

    Attraversò il lungo corridoio dirigendosi verso la porta da cui sentì provenire uno strano grattare. Chissà Astrid cosa si era inventata.

    Aprì la porta della sua ex stanza e vide sgusciare un cucciolo biondo, che lo fissò con un paio di occhi vivacissimi. Avrà avuto sì o no un paio di mesi. Cominciò a girargli intorno così velocemente che dovette abbassarsi per fermarlo. Un piccolo Golden Retriever con il pelo dalle sfumature del colore del miele. Lo prese per le zampette anteriori e il piccolo si dimenò leccandogli le mani.

    Era proprio uno spettacolo!

    «E questo nuovo acquisto?» chiese alla madre che nel frattempo si stava godendo compiaciuta la scena.

    «Un regalo di tua sorella, chiedi a lei! Tra quindici giorni ci lascerà... forse ha pensato di indorare la pillola... giusto adesso che devo andare in vacanza, però! Mi spieghi come farò a portare con me questa piccola mina vagante?»

    «Ma lo chiedi a me?»

    «Non è che non mi faccia piacere averla con me, anzi... ma proprio adesso! Tu come stai messo? Hai deciso qualcosa con Martina per le vacanze?»

    Già sapeva dove voleva andare a parare sua madre.

    «Al momento non ho idea, non penso di partire... Probabilmente mi allontanerò un giorno o due per lavoro. Ma non ho in programma nessuna vacanza, semmai a settembre. Quindi vediamo se ho capito bene... il senso è che Astrid ha regalato questo peloso a te, e io dovrò svezzarlo?»

    «È femmina... Se potessi tenerla il periodo in cui andrò via...»

    «Femmina!» osservò il cucciolo che da quando aveva aperto la porta non gli si era staccato di dosso un solo secondo.

    «A quanto pare lei sarebbe contenta. Hai presente come ridurrà casa? E poi quando sarò al lavoro starà da sola... per ore e ore. C’è un’alternativa?»

    Guardò gli occhietti vivaci del cucciolo che continuava a scodinzolargli intorno e poi quelli imploranti della madre. Era in netta minoranza. Non c’erano alternative.

    «Vabbè, starà da sola per ore e ore...» disse rassegnato.

    «Dai, è solo per una ventina di giorni. Potrei lasciarla al Sig. Rino ma lo sai che ha già due cani e francamente lasciare questa piccolina in balia di quei due giganti, non mi fa stare tranquilla. Nel frattempo, vi conoscerete e quando sarete diventati amici sarò già tornata!»

    «Come l’avete chiamata?»

    «In verità ancora non ha un nome, tua sorella l’ha portata ieri, impacchettata con tanto di fiocco rosa. Sai com’è Astrid! Per come le pensa, le fa... Tu che pensi?»

    «Boh! Un nome vale l’altro. Diana, Sheela o Zara, cosa cambia?»

    «Cambia, invece! Vorrei che scegliessi tu il nome... e non un nome a caso. Pensaci!»

    «Pure questa! Va bene... Astrid dov’è? Così la picchio!»

    «Da un’amica. Dovrebbe tornare a momenti. Ma tu raccontami... il lavoro come va?»

    Sapeva che sua madre, quando intuiva che qualcosa non andasse bene, non si rassegnava tanto facilmente alle risposte evasive e usava mille modi per estorcere qualsiasi piccola informazione.

    «Il lavoro bene, stiamo lavorando a pieno ritmo. Sai, stanotte mi è successa una cosa strana!» cercò di distrarla.

    «Cosa?»

    «Tra mezzanotte e l’una stavo tornando a piedi da casa di Martina e a un tratto lungo la strada - hai presente Viale dei Tigli? - ho sentito dei passi dietro di me. Mi sono girato ma non c’era nessuno! E ciò si è ripetuto più volte!»

    «Come nessuno? E come mai eri a piedi?»

    «Sono tornato tardi dal lavoro, Martina ha insistito perché andassi da lei e ho pensato di fare due passi a piedi, per scaricare un po’ di tensione. Non pensavo di trattenermi così a lungo, abbiamo parlato di alcune cose e si è fatta mezzanotte! Ma poi, cosa ancora più strana, arrivato sotto casa, ho trovato tutto al buio. Non appena ho aperto il portone, ho urtato contro una sagoma scura. Non ho quasi fatto in tempo a chiedere scusa che si è smaterializzata nel nulla!»

    «Ma sei sicuro? Che intendi per sagoma scura? Poi non avete il crepuscolare sempre acceso?»

    «Sì, ma probabilmente le lampadine a led si sono fulminante o forse c’è stato un guasto, non saprei. Fatto sta che ho intravisto solo un uomo molto alto, di corporatura imponente, vestito di scuro, fulmineamente sparito nel nulla!»

    «È tanto strano... inquietante, direi!»

    «Infatti, non me lo so proprio spiegare! Tra l’altro, subito dopo sono uscito fuori dal portone, ma nulla!»

    «Vabbè, non ci pensare dai, sicuramente sarà stato un parente o un amico di qualche tuo vicino. Ma quando finirai di lavorare così tanto? E poi, a piedi nel cuore della notte...»

    «Mamma, sono solo due passi!»

    «Ma a quell’ora! E poi, stanco com’eri!»

    Stava ancora riflettendo su ciò che aveva appena raccontato alla madre quando improvvisamente comparve sua sorella e il cucciolo, che non si era più mosso dalle sue braccia, scivolò via alla volta della nuova arrivata.

    «Ciao Brother

    Astrid gli si avvicinò per schioccargli un bacio sulla guancia.

    «Sister! Dove sei stata?»

    «Da Carol... ciao piccolina, vieni qui... ma quanto sei bella! Ti piace, Brando? Non è adorabile?» la ragazza si chinò perdendosi in effusioni con il cucciolo.

    «Aspetta qualche mese e poi vedremo se la penserai ancora così. Già, tra qualche mese sarai negli States, quindi non la vedrai affatto!»

    «A proposito, ci sarai, vero? Quando partirò...»

    «Certo che sì, al momento non ho in previsione nulla... ma sai com’è... tutto può succedere!»

    «Sapessi Astrid, come tutto può cambiare in poche ore, anche in un solo minuto!» pensò poi tra sé.

    «Ti trovo un po’ provato Brother, però... diciamo che sei ancora più affascinante! Tutto bene?»

    «Sì, tutto bene.»

    «Mamma vorrebbe che fossi tu a scegliere il nome della cucciola.»

    «Perché io?»

    «Perché lui?» chiese la ragazza rivolgendosi alla madre.

    «Non c’è un motivo particolare! Perché gliela dovrò affidare per un mese forse? O perché so che sceglierà il nome giusto!»

    «Sì, ma poi non dovrete lamentarvi se non lo troverete di vostro gradimento!»

    «Ci fidiamo, ci fidiamo di te, Brother! E Martina? Dov’è?»

    «È rimasta a casa... Sta lavorando a un nuovo articolo, sai com’è lei!» mentì spudoratamente alla sorella, senza neanche guardarla.

    «Se solo fosse vero!» pensò, «adesso avrà un bel po’ di roba a cui pensare, Martina. Ma poi, ci penserà davvero? No! Probabilmente il problema è solo mio

    «Di sabato sera? Mi era parso di averla vista oggi pomeriggio...»

    «Sentite, ragazzi, la cena è pronta, che ne dite di metterci a tavola?» li interruppe la madre.

    «Agli ordini!» rispose Astrid sbaciucchiando il cucciolo che ora non sapeva più chi prima circuire con la sua incombente vivacità.

    «E andatevi a lavare le mani, prima!»

    «Sì mamma!» la rassicurò Astrid «I tuoi cuccioli, come soldatini obbedienti, vanno a lavarsi le mani!»

    La ragazza alzò gli occhi al cielo e gli rivolse uno sguardo complice, e lui ricambiò scoppiando a ridere.

    E come non succedeva da tanto tempo, la caricò sulle spalle e si avviarono in bagno, seguiti dal cucciolo senza ancora un nome, il quale abbaiò festosamente, già parte integrante di quella famiglia.

    4

    Corre più che può ma si rende conto che non basta. Deve correre ancora di più, ancora e ancora! Non ce la fa. Vorrebbe... ma non ci riesce.

    La gola è secca, non ha più fiato e le gambe sono bloccate, come nelle sabbie mobili. Sente il battito del suo cuore accelerare sempre più, è a un passo dalla fine. Infatti, comincia a precipitare, e sente solo vuoto.

    Una forte sensazione di vertigine lo svegliò nel cuore della notte. Si mise seduto sul letto con il cuore in gola, e la sensazione che gli girasse tutto intorno. Accese la lampada sul comodino e finalmente realizzò. L’incubo. Era solo il bruttissimo incubo che ormai aveva rimosso da tempo. Cercò di ricordare l’ultima volta che gli era accaduto, dieci, quindici anni prima. A quei tempi era molto ricorrente.

    La t-shirt che indossava era intrisa di sudore e sentì la gola completamente arsa. Si alzò lentamente, ancora stordito. Tolse la maglietta e andò in cucina a prendersi da bere. Poi andò sul terrazzo.

    La brezza notturna gli rinfrescò la pelle accaldata. Sentì arrivare il profumo di gelsomino delle aiuole della signora Leda.

    Si lasciò cadere sulla sdraio e guardò il cielo. Era limpido e pieno di stelle luccicanti. Le osservò. Continuavano a splendere, nonostante tutto, incuranti degli altalenanti stati d’animo degli uomini, delle loro sofferenze e delle loro tragedie. Splendevano per tutti, senza distinguere buoni o cattivi. Splendevano e basta, come a farsi beffa dei piccoli esseri umani così complicati e inclini alla sofferenza.

    Gli esseri umani non si limitavano a vivere e basta. Non riu-

    scivano a splendere come le stelle, incondizionatamente, perché trovavano sempre un motivo per farsi del male in qualche modo, o dovevano

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