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Diario di un poer crist
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E-book189 pagine3 ore

Diario di un poer crist

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Info su questo ebook

A volte la vita ci riserva insondabili sorprese. È ciò che accade ad un castigato e rotondetto programmatore di computer, che nella sua esistenza ha conosciuto solo i bit e le subroutines, e ad un tratto si ritrova invaghito di una prostituta assai piacente. Ovviamente la su avita muta radicalmente, l'amore trionfa, fino a quando l'avvenente fanciulla, seguendo le sue inclinazioni, non esce dalla sua vita. Devastato da quest'esperienza, cercherà la trasfigurazione in una remota spiaggia di un'isola equatoriale.

Tutto il mondo è fatto a scale…
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2020
ISBN9788831632164
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    Anteprima del libro

    Diario di un poer crist - Giorgio Zoppi

    L’Elemiro

    E annamo a facce ‘sta pizza!

    Programmare, che passione

    Gerlinda Strafagotti

    La foresta delle ombre

    Riconciliazione

    La fine dell’amore

    Elemiro non c’è più

    Giorgio Zoppi

    Diario di un poer crist

    L’Elemiro

    Quello a cui pensava l’Elemiro quella sera di pioggia torrenziale era un buon letto caldo e accogliente. La pioggia sferzava di traverso, spinta da un vento cattivo, e Elemiro era tutto infradiciato. Era uscito il mattino investito dal sole smagliante di giugno inoltrato, s’era incamminato alla sua utilitaria un po’ snob, ma, maledizione, non partiva. Tocca di prendere il tram! Elemiro era pigro e voluttuoso, rotondetto e mellifluo, benché fosse ancor giovane. Veleggiava sui ventotto; ma, graziato dalla presenza, in questa nostra valle di lacrime, della nonna paterna, aveva scampato il servizio civile. Un anno guadagnato, seguitava a vantarsi l’Elemiro, come se fosse merito suo. Tondeggiava, il miserello, sopraffatto da una fame sempre insaziata, da un rigoglio di succhi gastrici che esigevano di essere domati con qualunque cibo. Prediligeva gli hamburger di Mc Donald, perché gli suonavano esotici e alla moda. Non per altro, giacché era pronto a riconoscerne la cattiva qualità; ma, di fronte alla scelta fra un piatto di spaghetti come si deve e un cheeseburger, non aveva esitazioni, perché ciò faceva moda. Dall’altro lato dell’Atlantico piovevano su di lui infinite sollecitazioni informatiche e di stile di vita, e lui se ne beava, e ne veniva travolto. Yankee, oh yes! Ecco il suo credo. E cosa c’era di più yankee di un buon cheeseburger? Ecco allora che il nostro Elemiro, terminata la sua sgroppata quotidiana alle prese con listati di programmi, debug, subroutines e programmazione ad oggetti, si fiondava, diciamo letteralmente, dal Mac Donald all’angolo con via Pontaccio. Naturalmente il si fiondava suona un poco scurrile, o forse sguaiato, se si pensa che, rotondetto com’era, l’Elemiro più che fiondarsi rotolava, zampettando su due gambotte grassocce; ma neanche zampettava, strascinava, insolentiva con le sue chiappone i passanti, i quali, alla vista di tale spettacolo, non esitavano a farsi beffe di lui, ridacchiando e ammiccando. Ma di tutto ciò il buon Elemiro mica si avvedeva, perché era spinto, nelle sue azioni, da due motori antitetici: il rimuginare in continuazione alle sub routines, e l’ardore di conquista di un posto al sole di McDonald. Hamburger e coca, ecco il suo credo culinario; e lui ci credeva ciecamente, ed era pronto a dare la vita pur di assaporare il quadripanino con hamburger di montone macinato, di olio di colza, di untume e di pomodori triturati. Questa esemplare dieta l’aveva trascinato oltre il quintale, ma egli preferiva dire cento, intendendo kg, suonava meglio, era più nobile, più raffinato, più chic. E se qualcuno gli avesse chiesto se non si rammaricasse di questa traslazione ultra cento, beh, vi rispondeva che sì, certo, sarebbe stato meglio una trentina di kg in meno, ma lui si sentiva così bene, così realizzato, così pacifico e amico della vita.

    Quella sera, però, s’era scatenato il temporale. Era, l’Elemiro, appena sceso dal tram 18, che l’aveva menato dall’ufficio fino ad un centinaio di metri da casa. Viveva solo, l’Elemiro, e aveva, quel dì, già assaporato i piaceri dell’hamburger, e a casina sua l’attendevano un paio di brache corte e un paio di sandali, una coca, una bella basla di gelato e, soprattutto, la semifinale del Mundial 2…. Cosa chiedere di più alla vita? Solo che la sua flemma iconoclasta era stata frantumata, umiliata dallo sciacquio di una pioggia che mai se l’era vista in vita sua. C’era poco da sfruculiare! Scendere dal tram e affrontare l’avventura bagnarola, o seguitare fino al capolinea, e allora, addio partita! Si fece coraggio, rotolò fuori dal tram, investito da spruzzi e schizzi e ventate e sciacquate prorompenti. Corse via, anzi trotterellò sgomitando le sue gambacce grasse, fino a sotto la grondaia. Ma il vento aveva girato in quella direzione, mannaggia  a lui, e la pioggia gli sventava contro, e l’infradiciava sempre più. Strusciò contro il muro, ma il vento era implacabile; allora prese a correre, in omaggio alla credenza che, correndo, ci impiegava meno tempo, quindi si bagnava meno. Saggia pensata! Se non fosse che, l’aveva letto da qualche parte, correre significava agitarsi come un forsennato, il che aumentava la superficie del suo corpo esposta alle intemperie. Si aggiunga che il suo non era di certo un correre, ma un trotterellare, un saltellare dinoccolato e oscillante, e la pioggia premeva e gli si schiantava contro, implacabile. Era fradicio, l’Elemiro, i goccioloni grondavano giù da una crapa lustra di acqua, e il vento vorticava, e una nebbia acquosa, suscitata dalle raffiche, si divertiva a sollecitarlo, quasi che il buon Dio l’avesse creata solo per lui e la sua dannazione. Raggiunse il portone di casa, era chiuso; el sciur Gregori, el portèe, anch’egli atterrito dallo scatenarsi del fortunale, l’aveva sprangato. Elemiro cercò le chiavi, erano annegate anch’esse nel liquame viscido della pioggia, perdute nelle profondità di una tasca che era così appiccicosa alla sua coscia sinistra, da non riuscire nemmeno a staccarsene. Alfine trionfò, ansimante e gutturale, chiave nella toppa, click, portoncino aperto, sgattaiolare dentro, slam!, portoncino chiuso. Che liberazione! Via allora, sciacquettando, all’ascensore. D’improvviso, un lampo fragoroso, la corrente elettrica che se ne va a remengo, l’ascensore che si blocca! L’Elemiro stazzonava al sesto piano, ti voglio vedere farsi sei piani con tutta quell’acqua addosso! E però, o attendere o andare, tertium non datur. O forse il tertium era di chiedere ospitalità al custode, asciugarsi, abbandonarsi esausto sul divano.

    Scusi, ma ciò la casa piena di pacchi! gli rispose el Gregori, per significare che, con tutti quei pacchi, proprio l’Elemiro non ci entrava, in portineria. E siccome erano le dieci di era, e il sole era calato ridendo dietro al Resegone, c’era un buio della madonna, come si dice nella fertile capitale della Lombardia. El Gregori aveva pizzato la candela, e una luce glabra, smorta, paonazza, cadaverica sprizzava da una fiammella rinsecchita di una candela ormai consunta dall’età e dalle ere geologiche. L’Elemiro si accomodò, anzi si abbandonò sul primo gradino della scala, scosse i suoi abiti, si sfilò la camicia, la strizzò, mentre el Gregori bofonchiava. Ce l’aveva su con quel balordo che gli bagnava tutte le scale

    Dico a lei, sciur Elemiro proruppe che mi sta allagando il pianerottolo?

    Acqua, è solo acqua, non se la prenda! rispose l’Elemiro.

    Sarà, ma poi a me mi tocca di sciugare, e si fa una fatica della madonna, e io mica son tanto giovane.

    Non se la cacci, un po’ di moto non fa male! ridacchiò l’Elemiro, strizzandosi la camicia. Voleva far lo stesso con i pantaloni, ma forse non era il caso. Se passava di lì la Gilda, sai che figura! Va bene che lei, quella baldracca, è abituata agli uomini in mutande (e anche meno, ridacchiò fra sé e sé l’Elemiro) ma forse era meglio lasciar perdere. Si tolse scarpe e calze, le strizzò, erano scarpe di tela, se le rimise, le calze no, troppo bagnate. E attese. Attese che il buon Dio gli facesse la grazia della luce elettrica, de la corent, ci si era messo anche lui, il buon padreterno. E la partita? Urca, fra dieci minuti! Poco mancò che l’Elemiro scagliasse al cielo una sonora bestemmia; ma la sua anima candida, la sua indole amante della pace dei sensi e dell’anima si oppose a questa scellerata intenzione e allora, stringendo i pugni e agitandoli proruppe in un Eeehh! rabbioso, sparato fuori a tutta voce. Che liberazione! Si era sfogato!

    E la luce fu. E l’ascensore ripartì. E l’Elemiro guadagnò ratto i sei piani che lo separavano dal piacere di un buon asciugamano e dalla voluttà della semifinale del Mundial. Si sbracò sul divano, accese la TV, e si abbandonò ad un deliquio delizioso, mentre le sue mandibole masticavano un panino con i wurstel e la senape, e la sua gola riarsa si beava della fragranza di una lattina di coca. La partita era appena iniziata, che prese a piovere. Là, sul campo, beninteso. Pioveva che Dio la mandava, e l’acqua aveva irrigato il campo, e il pallone sdrusciava sul terreno, si infangava, si intorpidiva. E i ventidue anzi i venti (oei, el portèe el corr minga!) via a correre, a sdrucciolare, a infangarsi come e peggio del pallone, a fare l’acquaplaning, fra schizzi e sbracate. Elemiro rideva di quello spettacolo, sgangheratamente, come solo un fanciullone a lui pari poteva fare.

    Perché l’Elemiro, di grazia, era un gran bravo ragazzo. Rotondetto fin dall’infanzia, e a ciò l’avevano condotto le amorevoli cure di mamma che, non sapendo insegnargli nulla, lo rimpinzava di dolci e focacce e piatti di tagliatelle. Di fisico era minuto, o almeno lo era stato, fino ai cinque: poi s’era gonfiato, smisuratamente, al punto che al liceo, a ginnastica, era esentato dalla medesima causa adipe. Così almeno c’era scritto sul registro di classe: ma se qualcuno avesse osato chiedergli che significava, lui si schermiva, diventava rosso come un peperone (chissà perché si dice così, visto che di peperoni ce ne sono anche di gialli e verdi), e farfugliava Problemi di peso. Ed era proprio un problema di peso, il suo, almeno per lui; problema pesante, grave, o meglio greve, se proprio vogliam vedere. Sta di fatto che l’ora di ginnastica l’Elemiro la trascorreva leggendo fumetti. Tom Mix, Tex, a volte l’ultimo Topolino; gli piaceva l’avventura, laggiù nelle remote contrade del West, fra i cactus e le rocce mammellonate (così aveva letto una volta in un fumetto). Non sapeva bene che significasse, ma non s’era mai dato la briga di un dizionario, gli piaceva il suono, gli riempiva la bocca: mam-mel-lo-na-te! Che voluttà acustica! E nel declamare l’aggettivo alzava gli occhi al cielo, apriva le mani, protendeva in avanti le braccia e, con una voce stentorea e marcata, pronunziava la fatidica parola.

    Finita la lezione di ginnastica, riponeva il fumetto e s’accodava ai compagni. Essi erano stanchi, sudati, infiacchiti; il che suscitava in lui un’ilarità mica troppo contenuta, del tipo: ma chi ve l’ha fatta fare! Le sue mammellonate ben valevano un’ora di ginnastica e di fatica.

    Oltre a ciò, Elemiro navigava, al liceo, in una sorta di aurea mediocritas, media sei virgola trentadue. Sette in matematica, ed era uno dei migliori, sei in tutte le altre materie, non classificato in educazione fisica. Ma c’era una materia nella quale egli trionfava: religione! La mammetta sua, pia donna di chiesa, tutti i dì il rosario, quello con le palline di legno del Convento di Montserrat; e lui, devoto pio obbediente, recitava di sguincio le litanie, senza del resto afferrarne molto il significato. Gli piaceva il ritmo, la cantilena, la monotonia della ripetizione; provava come un’ebbrezza, una sorta di estasi, lo stesso gusto di quando succhiava un gelato di crema e cioccolato. Quest’estasi si trasformava, in lui, in una sorta di esaltazione emotiva: chiudeva gli occhi, li alzava al cielo, chiusi, apriva le braccia dinanzi a sé e, proprio come quando pronunziava la fatidica parola: mammellonata, emetteva, ma sottovoce, le sue litanie. Ispirato, vibrante, mistico. Mamma l’osservava e se ne compiaceva: ecco un figliolo che ha fede, pensava, ma forse non aveva chiaro il concetto di questa virtù teologale. Sapeva di essa, sapeva della sua, diciamo, teologalità, ma oltre non andava. L’aveva appresa al catechismo, una trentina d’anni addietro (parlo della mamma) e le era garbato il concetto; talché lo ripeteva ad ogni piè sospinto.

    Figlio mio, devi vivere secondo le virtù teologali.

    Che vuol dire, mamma?

    Non importa che tu lo sappia, basta credere. Tu credi?

    Certo, mamma!

    In cosa credi?

    Nella Chiesa, santa, apostolica, una… una, santa apostolica, professo un solo battesimo…

    Bravo figliolo! Sei la mia consolazione! Continua così, e ti si apriranno le porte del Paradiso!

    Certo che l’idea delle porte del Paradiso che gli si sarebbero aperte l’intrigava. Lo rendeva felice. Elemiro si beava di questa consapevolezza, e quando gli capitava di compiere qualche marachella, qualche atto non proprio ortodosso, beh, diceva, è chiaro che mi sarà perdonato, perché sono destinato al Paradiso, e in Paradiso ci vanno solo coloro cui tutti i peccati sono stati perdonati. S’intende che, con il trascorrere del tempo, le licenze che si concedeva s’infittivano, fino a che, la notte, non gli capitava in sogno l’arcangelo Gabriele, con la sua spada fiammeggiante, che lo metteva in guardia: Bada, figliolo, hai trasceso, hai esagerato: è giunta l’ora del pentimento.. Elemiro non comprendeva bene il significato del verbo trascendere, ma benissimo il secondo hai esagerato. Ciò bastava a gettarlo in uno stato di prostrazione, di angoscia del peccato, in un’atmosfera soffocante di disagio, se non, a volte, di terrore: allora egli si redimeva, correva in chiesa e via, a confessarsi da don Giuseppe. Era costui un pretino smilzo, pelato, ipocondriaco: teneva gli occhi sempre socchiusi, come se la luce del giorno gli desse noia. Aveva una vocetta da castrato, squillante e un po’ stridula, ma sapeva parlare con proprietà, ed anzi con una certa enfasi. Nato e cresciuto mingherlino, non adatto ad alcuno sport, s’era gettato sui libri, ed era diventato pretino a ventun anni, assoluto primato regionale, se non nazionale o mondiale. Questo non lo sapeva, non c’erano statistiche acconce, ma egli si beava del suo stato di prete precocissimo, e ringraziava sempre il Padreterno per questa sua cortese concessione. Unico neo, quando citava, nei suoi discorsi, la sua esperienza. Grazie alla mia esperienza di vita… etc. etc.. Al che il confessando lo guardava di traverso la grata con due occhi così, e bofonchiava. Tel chi, el bauscia!, ma sussurrato sottovoce, che don Giuseppe non sentisse. Ma costui, avvertito il borbottare, si chinava verso il confessando e, con la sua vocina sgraziata, Cos’hai detto, fratello?.

    Comunque l’Elemiro, di fronte alla sua capace TV 40, rideva come un cretino alle sglissate dei calciatori. La partita venne sospesa, e Elemiro sbuffò. Bah, proprio ora che mi stavo divertendo", corse in cucina, spalancò il frigo, una coca gelata, cosa c’era di meglio? Un dolcetto, meglio un cake, perché no? E via a letto, perché l’indomani quelle malefiche subroutines gli annebbiavano il cervello. Si abbandonò ad un sonno greve, adagiato su un letto ch’era tutto uno scricchiolio, senza coprirsi con il lenzuolo, faceva caldo da sudare come una farfalla in calore. Giova aggiungere che queste strane espressioni se l’era fatte sue, perché, navigando in Internet, o conversando con gli amici, gli venivano all’orecchio di cotali sguerguenze, ed egli ne rideva a crepapelle, e se le faceva sue. Così l’idea della farfalla in calore che suda durante l’atto della procreazione, chissà perché, lo divertiva.

    Quella notte sognò. Giova far notare che l’Elemiro, in virtù del suo fisico snello ed elegante e della sua superiore intelligenza, non aveva molto successo con le donne. Simpatico, bravo ragazzo… ma… e via di questo passo. E allora, cosa capita ad un soggetto cui il gentil sesso non concede i suoi favori? El se rangia de per lu, reciterebbe quel volgare d’un Gregori, che non vedeva altro che culi e tette e orgasmi e strabuzzamenti da Kamasutra. Il nostro, invece, soffriva di questo suo confinamento ai limiti dell’esilio coatto. Non osando peccare per conto suo, perché mamma l’aveva minacciato che sarebbe diventato cieco, a furia di pensare alle donne, si abbandonava alle avventure notturne. Tutte in sogno, e i sogni l’incalzavano, e vedeva ombre femminili dolci e meravigliose volteggiare con grazia assassina dinanzi ai suoi occhi sbarrati, ai

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